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Città del Messico


Un’ampia strada, di sei corsie. Anticamente si chiamava rio, il fiume. Fiumi di veicoli nei due sensi. Taxi, autobus di linea, peseros, automobili americane che passano rapide o a singhiozzo, fino a punteggiare il corso come un caleidoscopioin movimento. Il parco secolare davanti. Vista dall’alto, la città è un’estensione amorfa e infinita di casebasse, di isolati rettangolari, spazi rappresi e duplicati, tagliati da strisce d’asfalto. Dal basso, si vede un cielo azzurro, solcato da nubi e un ribollire di edifici mal costruiti, traverse chiuse e numeri civici a quattro cifre.Sullo stretto marciapiede s’addensa una folla che sembra nonaver fretta, compressa tra i venditori ambulanti di chicles,caramelle e cioccolata, i chioschi di tacos, una moltitudine dibancarelle, le edicole, i negozi di articoli informatici, le farmacie,i centri commerciali ampi e lussuosi. Un ospedale e un cancelloda cui entrano ed escono centinaia di persone vestite con jeans o con gonne a scacchi, qualche camice bianco. Un odore di cipolla fritta, di carne, di mais che impasta l’aria. Con permiso, con permiso. Cerco di farmi largo nel muro di persone che sembra ostruire il passaggio, pensando che il Distretto Federale, l’antica Tenochtitlàn, la sterminata Città del Messico non è cambiata, è rimasta uguale nel tempo. Forse un po’ più caotica e rumorosa,  magari ancorapiù  inquinata, ma identica  a se stessa. Con permiso, con permiso. Attraverso correndo l’incrocio traUniversidad e Rio Churubusco, schivo un gruppo di studenti nella  loro uniforme - maglia verde e pantaloni neri -, vengo guardato distrattamente da una donna dai tratti indigeni cheallatta il suo bambino seduta sul bordo della strada, scendo una scala e m’inoltro nella metropolitana. Sono le due del pomeriggio, non è l’ora di punta, quando agonizzi in vagoni ricolmi e non riesci a uscire,se non spinto da flussi contrastanti di passeggeri.Vado verso il centro, alla ricerca di un ricordo che sbiadisce al ripresentarsi, sostituito da immagini sempreun po’ diverse. Negli scompartimenti, a ogni stazione, entrano dei giovani e, con voce stentorea, provanoa vendere coltellini multiuso, giornali, penne biro, manuali di ortografia, ombrelli. Tutto per pochi pesos,poche centinaia di lire. Qualche cieco, appoggiatoal suo bastone, canta e mantiene un equilibrio miracolosotra la folla indifferente. Molti dormono, seduti sui sediliverdi o addossati alle pareti oscillanti. Qualcuno leggefumetti con assorta concentrazione. Eugenia, Etiopia,Centro Medico, Niños Héroes. La metropolitanami riporta indietro. Ogni fermata un anno. Quandoarrivo a Balderas e scendo con energia frettolosa, è come se fossi tornato al 1986. 1986, l’anno delritorno, del rientro in un paese benestante e ignaro, in un'Italia che aveva perso i propri figli per strada e che m’accoglieva con un turbinio ostile di immagini.Resisto alla tentazione di rivedere la mia vecchia casa. Dopo il terremoto, il paesaggio è cambiato. Hanno costruito un parcheggio, la strada si è trasformatain un luogo di sosta di autobus e furgoni. L’edificio a tre piani in cui ho trascorso cinque anni è schiacciatotra enormi costruzioni di cemento e la fontana delleCibeles si è disseccata.  Vado verso il parco di Chapultepec, dove andavo a correre nelle mattine di inverni assolati o di estati umide, presaghe di pioggia a  scrosci. Anche lì bancarelle, venditori ambulanti,coppie di ragazzi che si tengono per mano. Il panorama urbano è diventato una distesa omogenea di commerci. Bevo un succo d’arancia a un tavolino.Da lì scorgo il castello e il bosco, quasi incongruo nella sua solitudine. Rimango a bere un caffè de olla, servito in unatazza gigante, mentre passano famiglie, gruppi, persone che paiono in vacanza e ridono.Guardo l’orologio. Sono le quindici e trenta. Tra poco dovrò andare in aeroporto a prendere Maria Isabel che arriva daCancun.   Non ho più voglia di tornare a vivere in Messico. La sensazione mi  colpisce come una frustata, mentre mi alzo, pago e vadoalla ricerca di un taxi.Il taxista mi guarda di sbieco e mi chiede, dopo qualche minuto, “Usted de donde es?”. “Italiano, pero estuve viviendo variosaños en México”.“Ah- fa lui sforzandosi di simulare interesse- còmo es Italia”?Non so cosa rispondere. Gli dico qualcosa tipo “un bel paese, ricco e fragile”. Lui non capisce e mi guarda come se avessi bevuto. Incomincio a tessere le lodi del Messico, ripercorrendo un periodo  che, nel tempo, assume i contorni di un sogno raccontato troppe volte. “Que bueno que le gustò México”, mi dice lui nel congedarmi.***Sono in anticipo. Mi potrei forse bere una birra in uno dei bar di questa aerostazione costruita assurdamente quasi nel centrodella città e attendere che Isabel mi racconti delle spiaggebianche dello Yucatan.Opto per una tequila e guardo la massa di gente che parte, staziona  e arriva. Tanta, troppa gente, sempre, dovunque.Ecco, spunta Isabel in mezzo a due americani enormi.Cammina  con calma, trascinando una valigia di pelle marrone. Accenna un sorriso, si guarda intorno, mi lascia la valigia.“Come sono andate le vacanze?”“Benissimo. E le tue?”“ Niente male. Sono stato in Guatemala tre settimane. Un po’ dipioggia, ma grandi luoghi. Tu piuttosto sembri una mulatta.”“Sì, a Playa del Carmen faceva un caldo tremendo. Andiamo.” Ci incamminiamo verso il parcheggio dei taxi ufficiali. Si paga in anticipo e ti danno un biglietto che consegni all’autista. Saliamo. Il traffico è aumentato e si formano delle code agli incroci. Prendiamo strade  che non riconosco e che sembrano tutte uguali. Scendiamo. Ancora prima di entrare in casa, Isabel miguarda complice e mi passa un  cannone senza filtro, una cartina arrotolata intorno a una cima di marijuana della costa. “Dai, non è prudente”. “Stai invecchiando, Gianni. Un tempo te lo saresti fumato anche al cine”. “Va bene, dammelo”. Aspiro il fumo,entro in  quella casa che conoscevo bene, mi siedo, poi mi alzo.M’affaccio alla finestra e rimango sorpreso dal silenzio. Un’onda circolare sale dallo stomaco e arriva alla fronte Isabel mi viene addosso quasi di slancio, ridendo. Mi bacia con impeto. Vorrei abbracciarla e sentire le punte dei suoi seni contro di me, ma si scosta, all’improvviso. “No, no se puede. Hai dimenticato di essere un uomo sposato?”“E tu te ne sei ricordata proprio adesso?”Isabel ride, mostrando i suoi denti grandi e bianchi.“No, non l’ho mai scordato. Per questo non farò l’amore con te questa sera”.“Ma non fare la…”, non finisco neanche la frase, la bacio con furia,come se volessi farle male. La stringo quasi temessi di perderla evorrei trascinarla in camera da letto.Lei mi guarda curiosa. Fa due passi indietro e mormora “Seguimi, ma te ne pentirai”. ***Sono le quattro del mattino. Un’aria fredda che sa di laguna e di  vulcani mi sferza la faccia. Sono contento. Sono disperato.  Cerco un taxi che mi riporti a casa. Cammino tre isolati, cercando di non pensare a quello che è successo.Si ferma un furgone, con due ceffi a bordo.Salgo.  Vanno veloce verso la mia casa provvisoria, mi riportano in una villa troppo  vasta popolata di ombre.Individuo la chiave, entro, salgo le scale.Buio e silenzio.Accendo la luce, temendo di trovare presenze estranee accovacciate  negli angoli della stanza. La stanza è vuota, il letto rifatto.Mi spoglio, accendo una sigaretta. Do un’occhiata verso il giardino interno ricoperto da una sfacciata buganvillea.Mi butto sul letto e penso, con rabbia e sollievo che tra un paio di giorni torno in Italia.Merda, dico tra me e me, merda, poco prima di addormentarmi.Writerhttp://www.writer-racconti.org/