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Torino


Strade che s'incrociano ad angolo retto. Poche curve, poche rotondità. Anche le piazze sembrano disegnate da una mano geometrica, da una mente razionale che bada al sodo, all'essenziale. Ampi corsi che tagliano la città da parte a parte, cambiando nome. Le case, in centro, disegnano perimetri quadrangolari, seguono il contorno degli isolati, delimitano cortili interni di cemento con garage e qualche albero stento. In periferia, invece, gli edifici assomigliano a giganti a due dimensioni, solitari e grotteschi.  Il cuore della città è barocco, composto e algido. Si cammina per strade racchiuse da portici grigi intonati al colore delle case. Il grigio scuro è dovunque. Nei balconi, nella pietra, nel colore del cielo. Fuori dal perimetro del centro  lo stile architettonico cambia. Vicino a Porta Susa, eleganti palazzine umbertine danno il benvenuto al ventesimo secolo.  Del periodo fascista, è rimasto poco. Solo qualche costruzione plumbea che il tempo ha reso simile ai fantasmi delle fabbriche ribattezzate, con umorismo sinistro, “archeologia industriale”. I buchi della guerra sono stati tappati, restano solo pochi tetti sbrecciati e alcune rovine che non si sa se imputare all’incuria o ai bombardamenti.  Gli anni ‘60 irrompono davanti al Palasport, dietro Porta Palazzo e sul corso che porta verso la Francia. Cingono la città d’assedio come se seguissero un piano prestabilito. Sono casermoni a nove piani, con ingressi umili o falsamente sfarzosi, una selva di cognomi che s’addensano sul citofono, ascensori stretti e famiglie con pochi bambini. Si distinguono quasi solo per i numeri civici. Sembrano riflettersi l’uno negli altri, quasi orgogliosi del loro anonimato. In fondo, la periferia che sfuma nei comuni vicini, fatti di altri centri storici, quartieri intermedi e ghetti residenziali. Cavalcavia, tangenziali, campi verdi quasi incongrui, spazi vuoti popolati da gru e scheletri di case in costruzione. La città è tagliata da fiumi. Un fiume grande e altri minori che affluiscono. Dall’alto appaiono come serpentine capricciose che la mano dell’uomo ha domato e piegato alle sue esigenze, cogli la loro posizione e il significato, un luogo adatto a un insediamento. Dietro il fiume le colline. Dall’altro lato, lontane, le montagne disposte a semicerchio, alte e innevate. In mezzo, la pianura. Sulla pianura, la città attraversata dai fiumi. Questa città ha un nome. Ha un cuore che batte debolmente. E’ ignara di sé, lontana, indifferente, fredda come le sue montagne. Accoglie chi viene da lontano senza odio e senza amicizia, con una punta di fastidio.E’ difficile da amare, protegge i propri segreti fino a farli quasi scomparire. Esprime rapporti fondati sulla consuetudine, sul riserbo, su una discrezione che è diventata leggendaria.  Genera anticorpi violenti e disperati che si aggrumano nei quartieri perduti e nel mercato, che riempiono l’atroce carcere irto di porte e passaggi, vive la sua composizione meticcia come una sciagura ineluttabile, una separazione necessaria. E’ una città basata sul lavoro. Si lavora molto, si parla del lavoro, ci si lamenta della mancanza di tempo libero, ma il tempo della libertà è vissuto come un lavoro, viene organizzato e pianificato come un appuntamento d’affari. Non si sa oziare. L’ozio è un privilegio da emarginati che hanno bisogno di alcool o di eroina per ritagliarsi uno spazio di assenza. E’ una città che teme il ridicolo come la peste. Bisogna fare “bella figura”, essere bravi, professionali, versatili, saper gestire, saper manipolare, portare gli altri sulle proprie posizioni. Si ostenta poco il denaro e i beni materiali, l’ostentazione è ritenuta grossolana, poco fine, troppo latina.E’ una città dell’Occidente del mondo, un occidente mitteleuropeo ignaro del mediterraneo. E’ una città che non appartiene a nessuno, neanche a chi l’adora.Writerhttp://www.writer-racconti.org/