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Corse sulla spiaggia.

Post n°3 pubblicato il 11 Gennaio 2007 da montotto
 

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Ho corso tante volte sulla spiaggia, anche d’inverno. Col bel tempo.
Spogliavo i miei piedi, rivoltavo l’orlo dei pantaloni e cominciavo
a camminare. Cominciavo lentamente, poi ci prendevo gusto: e quindi
mi mettevo a correre, dapprima piano, poi sempre più veloce,
il mio passo si allungava. E sulle spiagge della riviera romagnola,
avrei potuto correre così per tutta la giornata. Ogni piccolo
molo, ogni rotonda sul mare era un obbiettivo, ogni passo lasciava
un’orma sulla sabbia bagnata della battigia.

 

Sentivo dentro la mia testa le voci dei miei genitori, che litigavano; i
rimproveri della mia fidanzata, che mi rintronavano le orecchie; le
inutili parole che trasmetteva la televisione, i rumori della città
e quello sordo che sentivo in un treno in corsa, le urla di rabbia e
di dolore che ogni tanto esplodevano dagli altoparlanti dei cinema,
le voci acide e fredde di alcuni conduttori televisivi, i commenti
gratuiti ed urlati che mio padre lanciava alla televisione quando il
telegiornale mandava i servizi di politica interna… Tutti quei
suoni dapprima mi riempivano la mente, mi facevano sentire quasi
colpevole di aver trovato la spensieratezza di togliermi scarpe e
calzini e passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia. Anche le nuvole,
d’inverno, ed il grigio del cielo mi ricordavano continuamente i
lati negativi della vita, del mondo, della storia e di noi stessi. Le
mie corse non avrebbero potuto cominciare in maniera peggiore: quasi
me ne passava la voglia, e camminavo “un piede leva e l’altro
metti”, come avrebbe scritto Camilleri. Il mio corpo era rigido,
l’andatura era controllata, le mani affondavano il più
profondamente possibile nelle tasche: e col capo reclinato in avanti,
fissavo con sguardo imbronciato i pochi metri di battigia che mi
precedevano.

 

Ma spesso mi imbattevo in qualche conchiglia frantumata, in una penna,
in un’alga, a volte in qualche lattina di coca cola: dapprima non
ci badavo, perso com’ero nella consapevolezza della mia
colpevolezza; ma poco dopo, mi fermavo, mi chinavo e le mie mani
finalmente riemergevano dal profondo delle tasche, magari per
appoggiarsi una su un ginocchio, e l’altra per raccogliere
delicatamente una pompetta o un piccolo pezzo di carta strappato da
chissà quale giornale. Rimanevo là, chino, a pormi
domande imbecilli su chi avesse potuto perderlo, o se era una
conchiglia da quale abisso marino fosse resuscitata, a che specie
animale fosse appartenuta e qual era il suo habitat naturale. E la
mia mente cominciava a sgombrarsi, si dissolvevano molti dei fastidi
che opprimevano i miei pensieri, e il mio sguardo si rialzava
all’orizzonte sul mare, piatto, calmo, illimitato; riprendevo la
mia passeggiata, sollevando il capo, cercando di riconoscere alcune
sagome nella forma delle nuvole, e non di rado in quei momenti
rispuntava il sole, fra il grigiore delle nubi. E andava a colpire la
superficie dell’acqua, rimandando riflessi abbaglianti, illuminando
anche il mio volto e le costruzioni che davano sulla spiaggia. Le mie
preoccupazioni cominciavano a svanire, a venire ricacciate
nell’inconscio, e ai miei occhi restava solamente il piacere di
sentire sotto i piedi qualcosa che non fosse una suola o una soletta
fredda. Camminavo più speditamente, le mie mani ondeggiavano
al passo, mi rendevo conto di un flebile sentimento di felicità,
di gaiezza, che lentamente pervadeva il mio spirito. Le mie
espressioni corrucciate si distendevano, a volte mi fermavo a fissare
qualche piccola imbarcazione che galleggiava sull’orizzonte, a
chiedermi chi vi fosse sopra e perché fosse uscito proprio
quel giorno. E pensavo alla distanza che separava la battigia sulla
quale mi trovavo dall’altra sponda, proprio di fronte a me, a
centinaia di chilometri; a che altezza avrei dovuto spostare il mio
sguardo per poterla vedere; a chi vi abitava vicino e a cosa stava
facendo. Oppure immaginavo che ci fosse un altro ragazzo dall’altra
parte del mare che fissasse anch’egli l’orizzonte e si chiedesse
dove fossi io e cosa stessi pensando.

 

Non mi sedevo mai: non sentivo il bisogno di riposarmi, di fermarmi, ma
piuttosto raggiungevo la punta di tutti i moli che incontravo lungo
la costa, mi fermavo sotto al faro e mi ci appoggiavo. Il freddo
vento dell’inverno pungeva il volto, gonfiava i vestiti ed avrebbe
molto probabilmente portato via i miei pensieri, veloci com’erano,
se non fossero rimasti nella mia testa. Poi, non appena tornavo a
camminare sulla sabbia, sentivo un irrefrenabile impulso a correre.
Non so perché: forse per raggiungere il prima possibile quel
ristorantino tipico, piccolo sui pali infissi nell’acqua bassa
della baia, forse per sgranchirmi le gambe. O forse per il desiderio
di sgombrare la mente impegnando il corpo.

 

Così allungavo il passo, saltellavo come avevo imparato a fare da piccolo,
ritmando i miei movimenti: poi finalmente correvo, dapprima piano,
poi sempre più veloce, da solo. I miei muscoli cominciavano ad
affaticarsi, li sentivo trasmettermi lo sforzo, ma non mi fermavo;
continuavo imperterrito, e mi sentivo parte di un mondo diverso,
totalmente avulso da quello in cui ero costretto a muovermi io: un
mondo fatto di sabbia, acqua, nuvole e vento, quasi totalmente
sconosciuto, che mi divertivo ad esplorare correndo. Mi sembrava
quasi di lanciare i miei scatti sul verde intenso di una prateria
irlandese, o di correre lungo le rive del Nilo, o nel deserto del
Gobi, o nelle strade larghe ed affollate di Washington o di Roma.
Sentivo tutto scorrere attorno a me, e tutto ciò che ero
abituato a vedere nella mia vita (case, persone, strade, lampioni e
quant’altro) sfumava sempre più velocemente, mi scompariva
dietro, indefinito e dimenticato, per lasciare posto ai luoghi
partoriti dalla mia fantasia. E correvo la maratona, correvo sulla
Grande Muraglia cinese, correvo sulle piste dei bufali, assieme ad un
branco di giraffe, tagliavo curve e chicane assieme a Montoya, e più
su ancora, correvo beatamente e lentamente sulla luna, e ad ogni
passo mi trovavo un chilometro più avanti, fino a quando non
spiccavo un salto e mi allontanavo inesorabilmente… Il vento mi
sferzava il volto, ma non lo sentivo; le gambe cominciavano a
dolermi, ma non me ne curavo; gli occhi mi lacrimavano, ma non li
chiudevo: proseguivo la mia corsa, fino a conquistare completamente
ogni lembo di spiaggia, a marcarlo con le mie orme, e non contento,
azzardavo qualche passo di danza, ma ne uscivano movimenti sgraziati
e goffi, dei quali ridevo da solo; e così mi lasciavo cadere,
sorridente, stanco e felice, sulla sabbia, fredda e dura, e fissavo
il cielo, ansimando. Potevo vedere il cielo o solamente la cappa
grigia di un’uggioso pomeriggio invernale: ma ero sempre ed
ugualmente felice. Per pochi minuti, per pochi brevi istanti della
mia vita, c’ero stato solo io, e niente e nessun altro, al centro
di un universo immenso e sconosciuto. E solo io avevo potuto
comandarlo. Non mi preoccupavo nemmeno dell’impatto che avrebbe
avuto su me stesso il ritorno alla “civiltà” dal tempo
della pietra nel quale mi trovavo.

 

Là rimanevo, fantasticando sul mondo e su me stesso, ripetendomi frasi
scherzose, richiamando alla memoria le espressioni più belle,
le esperienze più care che avevo vissuto coi miei amici (e non
erano molte), ridendo delle risate che m’ero fatto, dell’amore
che avevo provato, della felicità che in qualche rara
occasione della mia vita mi aveva spalancato il cuore, ma che spesso
rivedevo negli occhi della mia ragazza. Rimanevo sdraiato anche per
smaltire l’affanno, che ora si faceva sentire prepotente, e in quei
momenti avrei potuto far di tutto, se non fossi stato solo: baciare
un’amico, tuffarmi in mare anche se fosse stato febbraio, scavare
tutta la sabbia della spiaggia ed infilarla – ah, ah! - in una
bottiglietta di plastica.

 

Ma il tempo correva: e mi rendevo conto di aver qualcosa legato attorno
al polso. Lo guardavo, e spesso mi capitava di sbottare: “Cavolo,
ma è tardissimo!”, così mi rialzavo, mi scrollavo di
dosso la sabbia, appiccicatasi ai vestiti ed al mio sudore, e mi
dirigevo verso casa, che correndo correndo m’ero lasciato molto
indietro.

Il rientro era sempre più o meno traumatico: il campanello,
l’attesa davanti al portone di vetro e metallo, mal verniciato di
grigio, poi mio padre che spuntava dalla finestra per chiedere chi
fosse – ben sapendo che ero io -, mia madre che mi avvicinava
subito per dirmi che un mio amico mi aveva cercato al telefono, la
televisione, sempre accesa e sintonizzata su qualche stolido
programma pomeridiano, oppure su un film western, oppure ancora
zittito mentre trasmetteva della pubblicità, mio fratello che,
appena tornato da scuola, mi minacciava di non avvicinarmi al
computer perché “doveva scrivere una cosa importante”…
Così finivo sempre per rintanarmi in camera mia, infastidito
dai soliti rumori, dai soliti luoghi, dalla solita vita. E non
riuscivo nemmeno ad addormentarmi.

 
 
 
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"Quel mattino lo svegliò il silenzio"

(Italo Calvino - Marcovaldo, ovvero le stagioni in città - La città smarrita nella neve)
 
 

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"Oh Si-signore b-benedetto, vogliono m-mandarci a fuoco! Oh Gesù, figlio di Maria, moglie di Giuseppe, che-che cosa facciamo, San Giuseppe m-marito di Maria ma non padre del Santo Gesù?! [...] Ci bru-bruceranno vivi e faranno finta di niente! Oh, Ge-Gesù Maria madre di Gesù, moglie di Giuseppe, pa-padre di Maria, aspetta... Maria moglie di... com'era?"
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PABLO NERUDA - LA REGINA

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Io ti ho nominato regina.
Ve n'è di più alte di te, di più alte.
Ve n'è di più pure di te, di più pure.
Ve n'è di più belle di te, di più belle.

Ma tu sei la regina.

Quando vai per le strade
nessuno ti riconosce.
Nessuno vede la tua corona di cristallo, nessuno guarda
il tappeto d'oro rosso
che calpesti dove passi,
il tappeto che non esiste.

E quando t'affacci
tutti i fiumi risuonano
nel mio corpo, scuotono
il cielo le campane,
e un inno empie il mondo.

Tu sola ed io,
tu sola ed io, amor mio,
lo udiamo.
 
 

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