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Pino Scotto - Dog Eat Dog

Post n°796 pubblicato il 11 Luglio 2020 da BobSaintClair
 
Foto di BobSaintClair

 

 2020 

Se Pino Scotto decide di realizzare un disco di questo tipo, vuol dire che dietro di lui possiamo ancora ballare. Don’t Waste Your Time è cattivaccia e ti lascia sul filo del rasoio a fare il funambolo.
I colori del video sono belli e definiscono tutta la potenza del cielo e del mare. Graffiante è la voce, mentre l’high energy non appesantisce troppo e le marce scalate chiarificano il ritmo risultando una bella trovata equilibrante, tonificante dell’ambiente sonico.

Not Too Late sguinzaglia le chitarre ed è magnifica, da batticuore, Scotto controlla perfettamente le bestie che ha al traino e non deraglia praticamente mai. Se questo è il livello del disco, preciso, nitido, con quell’aura da rock’n’roller ruvido, bene, allora stiamo varcando la soglia dello stato di grazia memorabile. Bravo Pino!!!

Scotto si fa crooner, chiedendo forse un tantino troppo a questa ballad; dovremmo lasciarlo per un po’ di tempo a pane ed acqua permettendogli di strizzare ed asciugare la melodrammatica e pomposa song, salvata comunque dalla puntuale e fantasiosa chitarra. Probabilmente Pino avrebbe dovuto tenere d’occhio le ultime prove di Iggy, ma so di che razza di diavolaccio stiamo parlando; mentre ci getta brillantini negli occhi, sta già provando nelle cantine dell’inferno una versione killer della ruffiana Before It’s Time to Go.

Dai, ci rifacciamo con Right from Wrong, che recupera abbondantemente con i vocalizzi introduttivi. Come on! Siamo di nuovo a cavallo di quel centauro imbizzarrito e metallico, indomabile, che fece tanto bene ai Judas di Painkiller. Lo Scotto regala sfumature ed accenti vocali che fanno sospirare e tornare in quota; certa aria americana spira e i gregari al picco della forma fanno rizzare i peli dal bulbo epiteliale, la poesia verseggia felice e non si intravedono innanzi ulteriori confini di sorta. Big Hit!!!

Oh, mio DDIOOO!!! Sfrecciamo nel turbinio della fantastica giostra cosmica dibattendoci tra Run to The Hills dei Maiden e il metal più cazzuto. Spifferano svisate mitiche che si intrecciano alla gettonatissima sezione ritmica. Mastro Don Scotto delizia dando un tono d’artista alla song, quel qualcosa di dinamico che Michelangelo ha impresso nelle sue migliori opere. Capito il paragone?

La title-track si piazza al centro del discone. Che diamine, sembrano i Trust dei primi eighties rinvigoriti da siringhe elettriche di power metal. Belligerante, vivace, serio, aggressivo!

Con Rock This Town già vedo il campionario da hot road metal. Qui si gusta tutta l’efficacia della band: il cuore batte bollente, si riporta l’epico nella narrazione del genere, comprese le ficcanti virate acrobatiche proprie di un abile top gunner. Centro! Si colpisce ampiamente il centro, perché il pezzo a pelle sfugge alle algide riservatezze delle apparenze, sciogliendo invece accuratamente l’emozione, dandoci ciò che Pino sa meglio fare, cioè, propinare musica innervante. Al divertissment unisce di regola testa e cuore.

One World One Life tiene banco, usa innesti ed artifici interessanti. La potente chitarra governa imperterrita lungo gli stilemi del genere; il mattatore è Mister Pino Scotto che riesce a trovare nel 2020 ancora stille acide di aurea vitalità. Siamo in vena spettacolare di effetti speciali: una rally car su due ruote zigzaga lungo il circuito assolato di Indianapolis. D’altronde la band ha acceso tutti i connettori e gli ampli, per cui godiamocelo selvaggio e ringhiante al massimo della potenza sprigionata.

Mozza il fiato Talking Trash, mica ci fa riprendere il respiro. Chiama guerra, cazzo, e che guerra sia! Lasciamo che il Dog Eat Dog album faccia fino in fondo il suo dovere; ci metta pure uno contro l’altro, ci impronti alla battaglia, ci faccia misurare testa a testa dentro un clima di guerriglia, a patto che si tirino fuori i padiglioni auricolari dal cranio per intercettare certe pregevolezze dall’assetto missilistico. E con questa chicca spacchetta cervelli, presi in castagna dalla costruzione in velocità del pezzo, ecco che il missile ci fa secchi colpendo il cuore. Aah!

Same Old Story sputa Street Rock Blues dalle sue bocche infuocate, ovviamente suona hardissimo, e ci vuole davvero una straficata di pezzo come questo per apporre sull’album la risonante perizia e la felice inventiva. A me pare che il pezzo suoni con una tipica cadenza armonica all’italiana, seppure la matrice anglofona sia dominante.

Don’t Be Lookin’ Back potrebbe essere il pezzo più serio dell’album, come dire, una sorta di “Since I’ve Been Lovin’ You” disseminata tra le altre gemme che compongono il disco.
L’enfasi è richiesta, si stringe benissimo attorno agli strumenti, e di datato rimane solo una minuteria di riferimenti. Sembra oltremodo sincera la matrice ispiratrice del brano e il tono molto HR la inquadra a dovere, come il contraltare elaborato dalla chitarra elettrica, sfiorando il capolavoro di una spanna. Scrosciano grandi applausi!

Schiaccia ogni cosa la track finale – Ghost to Death – che massacra finalmente a dovere, il male è tornato e swirla da gran maestro dei nunchaku. Cribbio, sentimenti di paura assalgono, un clima horror infuria (metafisica la tastiera, piazzata al limitare della genialità) e la guerra musicale ci lascia storditi ed incazzati tanto quanto un rigore sbagliato alla finale della Coppa del Mondo.

Se fin’ora la band ha ‘giocato’ proponendo questo lavoro, beh, qui non vi è più alcun dubbio, l’agognato masterpiece è stato coniato, merito del furore accoppiato alla grana stellare del mood. Possiede Ghost to Death un tiratissimo spirito di rivalsa che mette il pepe al culo e il sale in zucca, come quando in squadra ogni tocco si fa argenteo e l’intesa tra i compagni scatta alla maniera preveggente di capitan Cruijff, del resto diresti che questo è il momento storico entro cui la Sangiovese straccerà sul campo avversario, l’Allianz Stadium di Torino, la Juventus per 5-3.

La band Pino Scotto annovera i talentuosi e valenti: Pino Scotto (voce); Mauri Belluzzo (Tastiere); Leone Villani Conti (Basso); Steve Volta (Chitarra); Federico Paulovich (Batteria).

 

Track List
1. Don’t Waste Your Time
2. Not Too Late
3. Before It’s Time To Go
4. Right From Wrong
5. Dust To Dust
6. Dog Eat Dog
7. Rock This Town
8. One World One Life
9. Talking Trash
10. Same Old Story
11. Don’t Be Looking Back
12. Ghost Of Death

Etichetta Label:Nadir Music

 
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The Striders - Out of the Blues

Post n°797 pubblicato il 11 Luglio 2020 da BobSaintClair
 
Foto di BobSaintClair

  6 Giugno, 2020

Se le strade fossero infuocate come lasciano intenderci gli svedesi The Striders, avrebbe ancora un senso la frase ‘andare a ruota libera’.

La via del rock adottata in “Out Of The Blues“, loro disco d’esordio, fa la gioia di chi pensa ancora che la vita si possa bere tranquillamente all’aria aperta sotto un sole gaudente, giusto Closer To The Sun, mischiando avventura e scoperta col nervoso sottinteso di assaporare la libertà ad ogni chilometro percorso. Ciò al fine di dare notizia dei luoghi attraversati dallo spirito errante, talvolta in cerca di asilo, dimodoché possa raccontarci le sue storie vagabonde, purché la meta predestinata sia un palco che trasudi aromi legnosi  di vecchie botti che contennero bourbon, attingendo da quel luogo mistico l’energia vitale da impiegare alla bisogna.

Ed una volta raggiunto il sacrario della musica, seguendo l’iter Whole Lotta Lovin’, allora sì che si esibiranno i The Striders, dando in tal modo l’avvio al rituale personale dello spingere, tramite gli elettrificati stantuffi strumentali, tutta la potenza e il calore accumulato battendo le aride, talvolta piovose, disincantate, o polverose che siano, strade dell’hard rock; ricordandosi di mantenere ben chiara e ferma, dentro le teste, la missione che hanno da compiere: trasportarci con fiera risolutezza e sicumera “Out Of The Blues“.

Questa volta, però, non alla maniera dei due orfanelli in cravatta, sunglasses e borsalino, ossia, per conto di Dio, ma per mezzo della fluida volontà di quattro iperborei ragazzi che portano nel bagaglio emozionale le reliquie di quei protagonisti che ne hanno alimentato la loro passione musicale e che ora hanno tutta la voglia di questo mondo, col pieno fatto del serbatoio, di spenderla direttamente sugli stages più inverosimilmente puri ed eretti in nome di quell’unico credo, in grado di far sballare e ballare a suon di telluriche liriche riffate, officiando l’inafferrabile spirito del Rock.

Se ne incarica la speciale Standing On Top, sopravvivendo alle intemperie di chi vuole morta pure la poesia composta di immagini felici strappate al corso fuggevole del tempo, a spiegare ciò che è inscritto nell’indole tonante di Victor Gustafsson (vocals), Adrian Johnsson (bass/backing vocals), Mattias Gudasic (guitar/backing vocals) e Sebastian Varas (drums).

Neanche il tempo di continuare a planare sulla placida leggerezza folk di Dandelion, che Rock’n’Roll Star subentra in pompa magna riportandoci in pista il più infiammati possibile.
In forza del suo wha-wha spaziale, la song ci sospende denudando il wire scoperto dentro l’arcobaleno, poco prima che la ritmica ci teletrasporti a bordo della motrice di un treno bianco che riga orizzontalmente gli States, viaggiando paralleli alla Route 66.

Move On esprime quel soul amato da Bon Scott e dai Wolfmother, dando spettacolo quel tanto dovuto a far brillare il passaggio dal blues al rock, traversando la buia galleria della perdizione, sebbene nutrita di umori psichedelici, estrapolando linfa vitale dalla chitarra supportata da un vocalist che tutto fa tranne che scherzare. E devi prenderla così come viene, in modo Supernatural, perché a volte conviene fidarsi del destino e lasciarsi travolgere da quel che ti offre, come un bel menù che presenta turbinosi drinks da poter accudire in santa pace.

L’irresistibile intesa dei nostri rockers rotea come liquido luciferino ficcato in un imbuto piantato e travasato in gola; il farmaco spiritato di cui essere dipendenti. La causa di ciò non è più né il rock, né il blues, nondimeno è una diavolessa cotta di te, caro ascoltatore, e fin dal primo incrocio di sguardi. Sì, sì, parlo della cameriera provvista di occhio lungo. Lei ti ha adocchiato da un bel po’ seduto al tavolino, oh little boy blues, mogio e soletto in attesa che Addicted piova come una benedizione paradisiaca dal cielo, affinché sacro e profano si glorifichino nel fatidico bacio che schioccherà imminente fra voi due, espandendo il gusto di bourbon & coca e del fremito frizzante delle ondulate note. Gli echi impastati, vittime sacrificali dell’orgia spaziale scatenata fra te che ascolti loro e i The Striders che suonano per te, raggiungono l’apice nella last track Hellhound Blues (che insieme a Move On fanno pregare che non si finisca mai, né più mai, di suonare su quel palco) e ne scaturisce un pezzone liturgico spianante tutte le sensazioni di cui si è fatto tesoro catturando l’attenzione lungo le precedenti tracks.

Finalmente lo spirito randagio che ci sovrastava accanto, benigno ed invisibile fin dall’inizio del disco, ‘mbé, ha deciso di spuntar fuori!
Risuona dunque congeniale per lo spettro, a questo punto, il tempo di condurci dentro il pieno del mistero, e delle malie, che inseguiamo ogni giorno evocando la rarefatta quinta dimensione, la sola giovante alla nostra libertà di fare qualsiasi cosa – bene, sempre e comunque e di farla ancor meglio casomai ci trovassimo tra le mani il disco adatto, quello giusto e deciso a tirarci fuori dal blues.

 

Sliptrick Records
rock / blues / soul 
Tracklist

01. Closer To The Sun
02. Whole Lotta Lovin’
03. Bag Full Of Bones
04. Standing On Top
05. Dandelion
06. Rock’n Roll Star
07. Move On
08. Supernatural
09. Addicted
10. Hellhound Blues

 

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Captain Beefheart & His Magic Band

Post n°798 pubblicato il 11 Luglio 2020 da BobSaintClair
 
Foto di BobSaintClair

 

di BobAccioReview per DeBaser. (il 3 giugno nel tardo pomeriggio)

 

Avete presente La Linea della Lagostina, quando il disegnatore Osvaldo Cavandoli interrompe il tratto bianco e fa inabissare nel nulla la sua simpatica creatura? La sensazione è quella, lo sprofondo che crea l'ascolto di questo albo.

Molti ne sono diventati fans e tanti musicofili hanno manifestato la loro opinione in proposito (un omaggio perpetuo alla grandezza sconvolgente dell'album); non di meno le fonti abbondano sul sacro web e benché sembri che gli algoritmi ci dirigano verso inutili sponde dell'infosfera, ogni navigatore che possiede buon fiuto riconoscerà la direzione da tenere per seguire un'ottimale rotta, veleggiando il cosmo della musica.
Oppure no. Abbandonandosi alle correnti imponenti ed invisibili del web, ci sarà comunque ad aspettarlo un punto, di approdo o di naufragio, che costituirà certamente una condizione di arrivo, quantunque pure imprevista, arguendo comunque che il quid sta tutto nel viaggio.

Interpretare questa metafora del marinaio avventuroso è sinonimo d'addentrarsi nelle partiture inviolate di Captain Beefheart & His Magic Band afferenti al mistico doppio albo, Trout Mask Replica.
Forze estranee, viscerali, magnetiche, repulsive e indiavolate sono insite nel lavoro datato giugno 1969. Esse affrescano ciò che si andrà ad ascoltare, mentre chi lo ha già ascoltato sa bene a cosa si andrà incontro, ossia un unicum (potente come l'amaro ungherese che si assaggia per la prima volta dopo aver sempre bevuto coca-cola) di forte impatto che segna il punto di non ritorno per chiunque abbia avuto l'idea di cimentarsi nell'ascolto, ricordando che il Capitan Cuordibue intendeva la musica alla stregua dell'arte figurativa.

Innanzitutto la copertina. Vi si ritrae la band con i colori solarizzati della fotografia di Ed Caraeff, qui al servizio dell'artwork del grafico di quel periodo di Frank Zappa (e Tom Waits)… e parlo di Calvin 'Cal' Schenkel. In essa si celebra la visione e il connubio che il Capitano ha stabilito con l'estro di Schenkel dando corpo a una intuizione di Cal. In front cover appare il Capitano, con una testa di carpa messa a mo' di maschera sul viso e in testa un cappello da quacchero, immagine appiccicata allo sfondo rosso-magenta. All'interno vi è ritratta la Magic Band in assetto psichedelico e sul retro campeggia il Capitano sito in area bucolica, tuba in capo e lo scheletro di una abat jour in mano.

Frank Zappa è l'artefice della produzione del disco per la propria Straight Records ed è colui che assicura all'amico (i due si conoscono fin dai tempi delle scuole superiori), cioè, al Capitano Cuordibue, aka Don Van Vliet, libertà assoluta al progetto, rappresentando una gran bella boccata d'ossigeno per il nostro genio, dato che è proprio la libertà creativa che va cercando da alcuni annetti, giusto dopo aver licenziato un paio di singoli per l'A&M e due LP - Safe As Milk (Buddah Records) e Strictly Personal (Blue Thumb).

Essendo nel frattempo maturato artisticamente, così come la band, il nostro non sta più nella pelle onde dar sfogo alle personali velleità grazie al presentarsi della presente occasione.
Gettate le basi del progetto, incomincia la leggenda della Replica. La storia se ne ingozza a piene mani registrando e assorbendo, dal tempo della sua lavorazione sino ad oggi, ogni fatto inerente alle vicende e agli strani effetti di cui si narra, reperiti anche dalle future pubblicazioni autobiografiche dei vari magicobandisti.

Il Capitano è un poeta, porta dentro sé una visione del mondo che si discosta da quello che i suoi contemporanei considerano 'normale'. Provvisto di extra-sensibilità, dotato di originalissimi pensieri, che ora non trovano più freno, dalla sua bocca esce tanto di musicale e di consonante, quanto anche profonde perle testuali che arricchiscono l'opera. I testi sono tutti suoi ed anche le costruzioni melodiche, benché il fido John 'Drumbo' French, il più acculturato del gruppo in teoria musicale, conferisca un orientamento strutturale, nel senso di scrittura, sopperendo, con consigli e i preziosi arrangiamenti, alla impreparazione teorico-musicale del leader, che si riserva comunque la parola ultima d'apporre sopra ogni decisione: molti guizzi risolutivi appartengono al Capitano, genialate che rendono ampiamente credito alla sua grandezza intuitiva.

La mente assoluta è dunque Beefheart, il quale per l'occasione s'industrierà nel brevissimo tempo ad avere dimestichezza col pianoforte, pur non sapendolo suonare, ma capacissimo di trovare tramite questo strumento un feeling riconducibile agli iter compositivi di John Cage.

Dobbiamo considerare come riferimento contro-culturale il lasso di tempo a cavallo tra metà '68 e metà '69 per dare un contesto storico al lavoro; immaginare di essere catapultati in quel tempo e vedere azzerate le nostre competenze acquisite in oltre mezzo secolo di musica a venire. Ma pur evitando tale artificio, l'esperienza attuale di confronto con la materia surreale della matrice sonora (il Capitano non solo era pittore e scultore, ma il disco nasce sotto l'ala di certo 'rock dada' e dell'amore per Salvador Dalì) creerà certo degli squilibri significativi in ciascun ascoltatore: si pensi alle voci che vogliono che il caro Capitano avesse convocato un botanico nel suo giardino per essere tranquillizzato circa i disturbi arrecati ad alcuni alberi sottoposti al continuo matching sonoro prodotto, nella casa di Woodland Hills, dalla Magic Band.

La massa molecolare di questo conglomerato artistico si rivelerebbe potente flusso afferente alla musica improvvisata e se una tendenza in tal senso pare affluire in superficie - dovuta probabilmente alla carenza tecnica musicale dei magicobandisti e alla ritrosia del Capitano di seguire le comuni norme tecniche di registrazione in uso, suggerite dal navigato Zappa ormai esperto in materia -, è invece vero il contrario.
L'autoritario e ortodosso Cuordibue & Soci hanno impiegato otto mesi di estenuanti prove (14 ore al giorno di media) stando immersi in un clima soggetto a forte stress, ma alla fine son riusciti a garantire le parti musicali eseguendole a menadito, rispettando stop & go micidiali, assecondando la ritmica, fatta di tempi e controtempi continuamente vari e cangianti, premiando la metodica compositiva e d'arrangiamento quale novità turbante insita nei 28 pezzi che compongono la favolosa Replica.

C'è da dire che la band, già povera in canna durante l'arco delle prime produzioni, vive in un clima scoraggiato e immalinconito dall'insuccesso e dalla mancanza di denaro (condizione che gli farà declinare l'invito a partecipare al Monterey Pop Festival nel 1967). Purtroppo gli ingaggi vengono a mancare e, nel delicato passaggio di mercato dal beat alla ufficializzazione della canzone pop, il nostro Cuordibue si va a collocare proprio agli estremi del discorso di tendenza, riuscendo oltremodo ostico. Scagliando il suo blues insolente, sudicio e per nulla consolatorio, dove i brani risultano sfibranti e la voce scomposta - ma ferocemente energica -, sprigiona un magnetismo animale di severa fattura ergendosi a baluardo dell'autenticità e della libertà espressiva, depositate quale unico marchio distintivo di un personaggio off-off per i tempi citati (vedi comunque le registrazioni live affluite in “Mirror Man”).

Dunque, quando Zappa propone l'affare a Beefheart, un contratto certo non stellare ma dignitoso, si riattizza lo spirito sopito sotto la brace e la band passa solerte all'azione affittando una casa fuori Los Angeles - a Woodland Hills - dentro cui viverci come in una comune, avendo il solo scopo di creare quello che sarà il loro capolavoro e disco principe dalle ampie sperimentazioni in campo rock, sebbene soffino molteplici influenze.

Furono otto mesi inumani, fatti di stenti, di fame, ridotti agli aiuti familiari e a rubare nei supermarket pur di mangiare. Inoltre, un ulteriore causa gravò sulla vita collegiale, il dominio psicologico e violento per mezzo del quale il Capitano assoggettava la band, non solo imponendo le 14 ore di prove al giorno, ma comportandosi quale sadico tiranno che metteva in atto pratiche punitive assurde, ad esempio stipare in una botte espiatrice il fallace di turno, raggiungendo a volte estremi stati di umiliazione, di violenza fisica e verbale esagerati, segnando nel profondo la vita di quei ragazzi appena ventenni (il Capitano era di sette anni più grande).
Avere il controllo e la paternità di tutto ciò che si faceva, rigorosamente secondo le proprie regole, era l'aspetto peggiore del Cuordibue (afflitto da effetti paranoico-schizoidi). Così, in tale atmosfera di afflizione, duro lavoro, stenti e sospetti (nutriti nei confronti dell'amico-nemico Zappa e verso i membri della band:questioni immaginarie di lesa maestà e ammutinamenti), si è pur tuttavia compiuta l'opera.

Se sia stata salutare, o meno, la gestione monocratica e tirannica, relativa al discorso musicale esperito dal Capitano, rimane una riflessione che non trova corrispettivi quantificabili. Di sicuro si sarebbe dato maggiore rilievo alle genialità sommesse dei magicobandisti e soprattutto John French avrebbe goduto di riconoscimenti adeguati e meritevoli per l'immenso lavoro svolto, così come ne ha goduto la sezione ritmica di Jimi Hendrix – ma, piano piano, il tempo mette le cose al suo posto.
Rimane assodato, però, e questo lo ammette anche il dissidente John French, che Trout Mask Replica attesta la nascita di un prodigio che segna un punto di rottura con tutta la produzione rock di allora, ponendosi quale punto nevralgico possibilista di ciò che avrebbe potuto, da quel momento in poi, accadere in un disco rock. Là dentro vi si esprimeva tutto il radicalismo culturale che legava fra loro i componenti della band, la quale guardava oltre il Flower Power e il trastullo easy generazionale. Captain Beefheart & His Magic Band erano una galassia a parte in quell'America sessantottina.

Il grande Lester Bangs, su Rolling Stone, rintraccia linee vettoriali analoghe alle esperienze free innanzitutto di Ornette Coleman, ma anche di Shepp, Sanders, Ayler e Taylor. Nessuna adesione a un filo preciso che ricalchi uno stilema, l'energia sviluppata da tale aggregato è primo ed essenziale tratto condivisibile su cui spianare la materia sonica, ruvida e fantastica.
L'intellettualizzazione dell'opera può essere vissuta secondariamente, accogliendo i temi affrontati nei testi, ed implicitamente vagliare anche l'intrinseca letterarietà: il surrealismo, l'ironia, l'olocausto, l'ecologia, il non-sense, il blues nero e asciutto, il folk, il jazz, la poesia, i puns (giochi di parole), la accentuata visionarietà, la personale vena compositiva, la potente immaginazione allucinata ed onirica.

Tirando le somme, risaltano alcuni punti straordinari, ad esempio l'amicizia predestinata tra Zappa e Beefheart; come è potuto essere che quei due promettenti ragazzi, per certi versi così affini, si siano ritrovati a sballarsi insieme e a diventare poi personalità senza tempo della musica d'estremo culto e valore? Incredibile!
Straordinario è pure l'amore per l'arte, nutrito fin da piccolo da Don Van Vliet (rinuncerà ad una borsa di studio artistica che lo avrebbe condotto in Europa), che è stato l'elemento cardine di tutta la sua produzione e filtro per ogni concezione vitale.

Qualche altro cenno biografico.
Don abiterà, ma già prima del 1980, con la moglie Jan in una casa trasportabile su strada, stazionando nel deserto del Mojave e in seguito sulla costa oceanica, verso la punta nord della California. Ritiratosi definitivamente nel 1982 dalla scena discografica, si dedicherà esclusivamente all'atto creativo pittorico (che in termini economici gli rese meglio dell'attività musicale, benché la Van Vliet Estate detenga i diritti sulle proprietà intellettuali del Capitano e la Zappa Family Trust quelli della Replica).

L'oggetto disco Trout Mask Replica risulta essere magnifico capolavoro grafico e la musica un commento sonoro per immagini che non ha eguali al mondo.

Suonato in presa diretta nella Trout Home lungo 4 ore e ½ di session ininterrotta, l'albo ha un taglio cinematografico che descrive un universo astratto, dove i reverse, le comparsate e le assenze di elementi della narrazione lineare si mischiano e confondono entrando a fare parte di un discorso filmico interessato dal sensorio pullulare di fattori favolistici, tragici ed ironici, trattati alla stregua di uno sconclusionato intercorrere di accadimenti, che sbucano e si levano da un luogo misterioso, magico, gravoso e spaesato, in cui la realtà si confonde sconcertata e priva di senso.

Si dovrebbe assumere una guida per districarsi tra i contenuti dell'albo, ma quella non esiste; restano, invece, una serie di fiabeschi attori che strepitano, strimpellano, accanendosi sulle astrusità che declamano da pulpiti arzigogolati inaccessibili eppure vicini. Tutto ciò che si ascolta può essere toccato con mano. La mente elabora le suggestioni deviate in immagini deformate stilando trame che ammaliano per fugacità ed imperio innovativo del plot sonico, spaccando ogni classico contesto narrativo.

Si batte il terreno della libertà, pensata quale alternativa parallela e avversa (contraria) alla metodica realtà di pensiero a cui siamo stati abituati e che detta il nostro raziocinio. Il formalismo consequenziale della ragione crolla edificando il nuovo tema avanguardistico, estremo, free, sincero e seducente, un pattern da cui non se ne uscirà mai più. Occhio!


La Replica assurge a divenire un disco di stregoneria che scivola dentro una dimensione temporale anticonvenzionale, laddove si incontrano geni dai nomi sconosciuti, maghi con copricapi stellati a punta, indovini indiani, spiriti maligni, buffoni da circo; e si dà vita ad una iconografia surreale dove scorre il delirio e si sfiora la follia. Ibridati animali parlanti, gesticolanti e bardati, colorati da tinte iridescenti che in tutta coscienza incarnano qualcosa di fatale che è possibile ritrovare nei personaggi di Pinocchio: essi sono i freaks mezzo uomo e mezzo animale incarnati dal Re Cuordibue e dai suoi magicobandisti, forniti di essenziale forza descrittiva, ironica e della marcata insistenza sull'originario ambient blues del Delta - battelli, baracche, campi, paesaggi naturali rivieraschi, roots, disillusione e i grandi spiriti arcani, imi ed irraggiungibili di Howlin' Wolf, Muddy Waters, Son House, Robert Johnson – che partecipa in veste di comprimario alla potente scoperchiante scena. Trabiccoli nomadi di convogli d'antan accolgono assetati, affamati, arrabbiati hobo in cerca di libertà, intrecciandosi lungo lande polverose, secche, apolidi, strazianti, marciando su strade ferrate incantate, laddove le storie fan scalo presso cadenti anticittà. Percorsi complessi da tracciare, fuori sincrono tra pensiero e azione, concorrenti nell'elaborare la dilatazione dello spazio entro la corrispondente compressione del rapporto spazio-tempo, qui teso ad annullare ogni distanza, facendo immaginare di vivere in un unico agglomerato per forza di cose estraneo all'urbanità.

Quando all'improvviso, ecco sbucare a tutta velocità da tale impasse - e ficcarsi in un miraggio di suoni, altri ed alti, innalzanti le sospensioni e le angolosità dei fiati, compreso tutto il lavoro irreale di chitarra/basso/batteria che sbeffeggia, satireggia, provoca e stordisce lasciando attoniti - la mostruosa creatività.
ssa fa letteralmente sbattere il febbrile stato dell'invenzione contro la linearità del mainstream, l'incubo sobilla il sogno illuminandone il dissidio precorritore grazie alla lampada eterna qui originata che emette strabilianti fasci di luce grigio malattia, oro acido e rosa dobermann, in sostanza i colori che ha concepito la mente brillante di Don Van Vliet.

 

O locomotiva bella
Trota di ferro snella
Anguilla anguilla
sulla rotaia che brilla
Trota presa all'esca
del tempo e dello spazio
Trota, veloce topazio.
Trota o moglie indigesta
o locomotiva petulante,
senza lenza Dio ti pesca
nella rete immensa
di rotaie del firmamento.
Dio stringe la terra
e ne disserra a suo talento
un ironico sugo
d’esilarante velocità.

(da “Locomotive” di F. T. Marinetti)

 
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King Mastino - Medusa

Post n°799 pubblicato il 20 Luglio 2020 da BobSaintClair
Foto di BobSaintClair

Il dissidio nato, e mai sanato, concorrente e combattente, ha generato la ciurma di un galeone di dissidenti abitanti una realtà parallela alla prima che, vestendo ultra-rock, proprio da tali sponde è prontissima a salpare per ogni tipo di scorribanda e razzia che deve assolutamente essere compiuta contro i mondi piatti creati dalla bonaccia persistente; l’equipaggio del natante risponde sì all’ordine di bordo piratesco: Alessio: guitarsvocals ~ Massi: bassbacking vocals ~ Holly: guitars ~ Jimmy: drums.

Il lavoro, dal titolo MEDUSA, che è anche il primo pezzo dei 12 totali, effigia la figura della divinità mortale, la gorgone, colorata in viso di misterioso azzurro, chiomata di tentacoli di piovra marina, nelle cui pupille purpuree sono riflessi inquietanti teschi: lo sguardo carico di disincanto è pericolosamente esposto a minaccia sulla polena.

Dunque, “Medusa” apre la prima incursione in stile Stooges (abbracciando i Radio Birdman), pestando decisi sugli accordi e tendendo la roca voce come un arco; alle chitarre, al basso e alla batteria, il compito di solcare il groove (rock + punk) spronando un assolo turbolento e agghiacciante tale da far breccia nel cervello. Stand Out!

“Over a Mile Away” predilige la ritmica veloce e il tratto australiano è testualmente marcato, punk velato di melodia – grazie anche ai cori – riscopre l’underground sonoro ad appannaggio di una costruzione che esaspera, virtù della chitarra, sino alla conclusione del soddisfacente pezzo.

In “The Last Stand” il suono è da brivido, coinvolge tutto l’apparato tegumentario, quel suo avanzare denso si estende a macchia d’olio… e traghetta lungo paesaggi disincantati ed eccitanti di oscuro soul/blues. Naturalmente è il passo che la band conferisce alla track a far svettare i sensi, ammiccando agli MC5, mai reduce il loro wide open rock, ed ai RB. Pezzaccio à la tripleX!!!

“It’s So Hard” si propone convulsa, serrata: dal prorompente punk rock tira fuori una vigoria che richiama energie soniche dei primevi Trust di Bonvoisin!

“Into The Tentacles” guerreggia, la sua dichiarazione è scontro aperto, selvaggia e martellante, il ritmo è alternato alla parte vocale e, credetemi, piegherà con tutti i crismi, indissolubilmente, al fondente rock al calor bianco di matrice proto-punk! Il cantante si dimena nelle contorsioni vocali mentre i pilastri della ritmica lo spalleggiano da babordo a tribordo affrescando ciò che costituisce il ribollente manifesto sonoro della band. Notare Bene la scia che si lasciano dietro…

“I Don’t Wanna Die” ricorda appena, forte dell’imperio vocale, i Judas di Halford, sinché una giravolta della morte (che farebbe pisciare sotto dalla paura Jack Sparrow) non riporta alla grezza intensità quella musica che solo i veri pirati possono far brillare con asciutta polvere da sparo, appropriandosi dell’oro sepolto dal tempo e appartenuto ai padri Stooges.

Lo spirito indomito e anarchico di “Charles Vane” viene adesso evocato e celebrato quale simbolo alato di libertà, il bucaniere mette a ferro e fuoco gli animi sciabolando dalle altezze del pennone il proprio mito.

“Buried Love” riattizza le emozioni pagando in minima parte debito alla “Dancing Barefoot” di Smith, su quella riga appaiono scenari disincantati persi nella perenne notte cosmica, navigando il santo fluido salato, illuminati a tutto tondo da magici diamanti stellari: i KING MASTINO mostrano i denti, scintillano anche quelli, per Nettuno!, e sparano fuori una espansiva eccezionale canzone irraggiante radiazioni benefiche in forma di anelli di tifone, per cui lo spazio immaginativo e sensitivo colpirà ogni fan facendolo naufragare sulla battigia dell’isola del tesoro.

“Star”, manco a farlo apposta, è il consequenziale pezzo che centra il particolare stellare, irrompe di luce nell’affascinante dark spaziale espresso dal combo ed io mi sento Atreiu in groppa a Falcor sfrecciante lungo i paesaggi siderali, traversando apertamente sconosciute costellazioni. Sailors Rock’s Anthem!!!

ANOTHER BITE” è già classico della band; istruisce ogni sprovveduto su cosa significa suonare Rock’n’Roll, e possiede, come del resto tutte le cartucce qui esplose, una internazionalità di sound che oltrepassa barriere e limiti alla comprensione del lavoro creato; MEDUSA, infatti, come da suo etimo, protegge, e protegge soprattutto coloro che fanno della loro missione un verbo verace e vitale, una questione di stile e lealtà.
La travolgente song spinge al massimo la grinta rock, tutte le parti strumentali chiamate in causa bucano l’atmosfera partecipando alla corsa bruciante in crescendo e all’impazzata, raggiunti da una scarica elettrica, “Another Bite” tiene sospesi sul filo del possibile, fino all’ultimo respiro!

Rilassando il moto dopo tanto battimento supersonico, lasciamo il galeone al beccheggio naturale di “Hawkwind”… gronda bellezza oscillatoria, davvero impossibile tenere quieti detti pirati del rock. Soggiunge un sentimento di orgoglio battente e si concretizza la perizia magistrale nel domare il pezzo, che avvince lasciando battere forte il cuore in gola.
Viscerale, intenso, trascinante.

Ottimo lavoro di chitarra ad aprire la canzone, il basso e la ritmica non fanno passare una mosca tra i loro stretti e veloci incroci, la batteria schiaffeggia come vorticosa quintana tutte le superfici percuotibili e le voci implacabili furoreggiano tra schiume, questa volta non marine, bensì provenienti da bottiglie stappate di spumante Abissi; infatti, con “Everyday”, i KING MASTINO strappano un biglietto alla Fortuna, poiché tale prodigio discografico dona la netta sensazione di aver vinto il primo premio alla lotteria nazionale di capodanno.

ETICHETTA
Savage Magic, Ghost Highway, Beluga , Strycknine Recordz.

TRACKLIST
1)§ Medusa
2) Over A Mile Away
3) The Last Stand
4) It’s So Hard
5) Into The Tentacles
6) I Don’t Wanna Die
7) Charles Vane
8) Buried Love
9) Star
10) Another Bite
11) Hawkwind
12) Everyday

LINE-UP:
Alessio – guitarsvocals
Massi – bassbacking vocals
Holly – guitars
Jimmy – drums

 
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