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MEDEA DI EURIPIDE (2/6)


TESTO GRECOTraduzione di Ettore RomagnoliPERSONAGGI:NUTRICEAIOI FIGLI di MedèaMedèaCORO di donne CorinzieCREONTEGIASONEEgèoMESSOL'azione si svolge a Corinto, dinanzi alla casa di Giasone.NUTRICE:Deh, mai varcate non avesse a volole Simplègadi azzurre il legno d'Argo,verso il suolo dei Colchi, e mai non fossenei valloni del Pelio il pin cadutosotto la scure, e al remo non si fosserostrette le mani degli eroi gagliardi,che, per mercè di Pelia, a cercar venneroil vello d'oro! Navigato alloranon avrebbe Medèa, la mia signora,alle torri di Iolco, in cuor percossadall'amor di Giasone; e mai, le verginiPelie convinte alla paterna strage,col suo sposo in Corinto e coi suoi figlidimora eletta non avrebbe, caraai cittadini alla cui terra giunseesule, e in tutto ligia ella a Giasone:grande saldezza d'una casa, quandonon fa contrasto la sposa allo sposo.Ma tutto infesto è adesso, e affligge il morboogni piú cara cosa. In regio talamoGiasone or dorme, ed ha traditi i figlisuoi, la consorte: ché sposò la figliadi Creonte, signor di questa terra.E Medèa, l'infelice, abbandonata,ad alta voce i giuramenti invoca,e della destra la solenne fede;e del ricambio che Giasone or le offre,a testimoni gli Dei chiama. E giace,sfatte le membra nel dolore, e cibonon prende, e tutto il dí si strugge in lagrime,poiché si sente dal consorte offesa,né l'occhio leva, né distoglie il visomai dalla terra; e, come rupe, o fluttomarino, degli amici ode i conforti.Salvo, se il bianco suo collo taloravolge, ed il padre suo, la casa sua,la patria, seco stessa ella rimpiange,ch'ella ha traditi, per seguir quest'uomoch'or la disprezza. Sotto i colpi, misera,della sventura, appreso ha quanto gioviil non lasciar la propria patria. E i figliodia, e a vederli non s'allegra; e temoche disegni novelli essa non volga;perché l'animo ha fiero; e sopportaresí mali tratti non saprà: paventoche immerga in cuore un'affilata lama,entrando in casa dov'è steso il talamo,nascostamente, ed il suo sposo e reuccida, e n'abbia danno anche maggiore:ch'essa è tremenda; e contro lei chi mossea nimicizia, facil non saràche riporti trofeo. Ma questi pargoligià qui, lasciati i loro giochi, muovono,che nulla sanno dei materni mali:fanciullesco pensier cruccio non cura.AIO:O vecchia ancella, dalla casa addottadella signora, perché dunque solastai su la soglia, e teco stessa gemi?Come senza di te Medèa rimase?NUTRICE:Aio dei figli di Giasone antico,la mala sorte dei signori affliggei buoni servi, e al cuore lor s'appiglia.A tal dolore io son giunta, che bramadi qui venir mi vinse, ed alla terranarrare e al ciel della Signora i mali.AIO:Non desisté la trista, ancor, dai gemiti?NUTRICE:Semplice! Appena adesso il mal comincia.AIO:Stolta, se posso ciò della reginadire, che nulla sa dei nuovi mali!NUTRICE:Vecchio, che c'è? Non rifiutarti, parla.AIO:Non vo': di quanto già dissi, mi pento.NUTRICE:No, per la bianca tua barba, confidaloalla compagna: io tacerò, se occorre.AIO:Senza aver l'aria d'ascoltare, fattomivicino al luogo ove dei dadi al giocoseggono gli anzïani, all'acque sacredi Pirene vicino, un tale udiidir che Creonte, il re di questa terra,da Corinto scacciar questi fanciullivuole, e la madre. Se poi vera siala nuova, ignoro. Deh, vera non fosse!NUTRICE:E patirà Giasone, anche se in lottacon la madre, che ciò soffrano i fig1i?AIO:Cedono ai nuovi i parentadi antichi,né di Medèa la casa ama Creonte.NUTRICE:Siamo perduti, ove all'antico, primad'averlo scosso, un nuovo mal s'aggiunge.AIO:Non dir parola, tu, taci: momentoquesto non è che la signora sappia.NUTRICE:O fig1i, udite l'animo del padrequal è verso di voi? Morte imprecarglinon voglio, ch'esso è mio signor; ma certoè chiaro ch'egli è pei suoi cari un tristo.AIO:Chi non è tale, fra i mortali? Imparache ciascuno ama sé piú che il suo prossimo,quando vedi che piú non ama il padre,per le nozze novelle, il proprio sangue.NUTRICE:In casa entrate, sarà bene, o fig1i.E tu tienili quanto è piú possibilein disparte, e fa' sí che non accostinola madre esacerbata: io già l'ho vistache li guardava con occhio di furia,come se accinta a qualche male; e l'iranon deporrà, bene lo so, se primasu qualcun non s'abbatta. Oh, sui nemicipossa però piombar, non sugli amici!(Dal di dentro si ode la voce di Medèa)Medèa:Ahimè!Ahi me misera! Me sventurata!Quali pene! Oh, potessi morire!NUTRICE:Questo è ciò, fig1i miei, ch'io temevo.Della madre il cuor s'agita, l'irasi ridesta. Affrettatevi, entratenella casa, lontani tenetevidal suo sguardo, e a lei presso non fatevi,dall'umor suo selvaggio guardatevi,dall'indole infesta dell'animoorgoglioso. Via, subito entrate.Ben chiaro è fin d'ora,che ben presto, con alto furorescoppierà questo nembo di gemitich'or s'innalza. Che cosa farà,cosí morsa dai mali, quell'animasuperba, che ignora pietà?Medèa:Ahimè!Ho patite, ho patite sciagured'alti gemiti degne. O figliuolimaledetti di madre odïosa,deh, possiate morire col padre,tutta vada la casa in rovina!NUTRICE:Ahi me misera, ahi me sventurata!E che colpa hanno dunque i tuoi figlidel fallo del padre? Perchéli aborrisci? Ahimè, figli, che cruccionel mio cuor, che vi colga sventura!Son tremende le audacie dei principi,poco avvezzi a ricever comandi,molto a darne, è ben raro che l'iraa deporre s'inducano. Ugualimeglio è viver fra uguali. Invecchiarevo' fra piccoli beni e sicuri.Ché la vita medíocre, bastadirne il nome, e prevale, ed a viverladi gran lunga migliore è per gli uomini.Ciò che fugge misura, non puòniun vantaggio recare ai mortali;e maggiori sciagure, se il Dèmonemai s'adira, procaccia alle case.(Si avanza il coro, componto di donne corinzie)CORO: PreludioDella misera donna di Colcoudito ho la voce, le grida,ché ancor non si placa. Su, vecchia, tu parla:ché un ululo dentro al palagioudii dalla gemina porta.Né, donna, m'allegro pei guai della casa,che cara è per me divenuta.NUTRICE:Piú non è questa casa: è finita:ché letti di principi accolgonoGiasone; e si strugge nel talamola nostra signora; né v'haparola d'amico che possamolcirne lo spirito.Medèa:Ahimè!Sul mio capo la fiamma celestepiombasse! A che viver mi giova?Ahi, ahi, nella morte disciogliermipotessi, lasciarela vita odïosa!CORO: StrofeO Giove, o Terra, o Luce, udiste i gemitiche intona questa misera?Qual brama hai tu dell'ultimosonno? A che affretti il termine di morte?Il voto, oh! non esprimerne.Se vago il tuo consorteè di novello talamo,non esser tu soverchiamente acerba.Non ti strugger, non sia troppo il rammaricoper lui: ché Giove a te vendetta serba.Medèa:O tu, Giove santissimo, o Tèmideveneranda, le mie sofferenzevedete, da poi che lo sposomaledetto, con gran giuramentia me strinsi! Deh, possa io vederlocon la sposa, con tutta la casastritolato! Ché primi d'obbrobriomi copersero. O padre, o cittàdonde mossi raminga, poi ch'ebbiturpemente trafitto il germano!NUTRICE:Non udite che dice, che gridaleva a Tèmi, patrona dei supplici,ed a Giove, dei giuri custodepei mortali? Che plachi il suo sdegnola signora per piccol confortopossibil non è.CORO: AntistrofeEssere non potrà che a noi la miseravenga, ed ascolti il sònitodei miei detti, e dall'impetodel cuore, e dalla grave ira s'affranchi?La cura mia sollecitaagli amici, oh, non manchi.Or tu muovi, e conducilaqui, pria che in casa faccia un qualche danno.Annuncia a lei che amiche qui l'attendono:ché qui prorompe luttuoso affanno.NUTRICE:Lo farò; non credo io che convincerela signora potrò; ma la graziapur vo' darvi di questo mio sforzo.Sebbene, essa lo sguardo sí fierosui famigli rivolge, che sembra,quando alcuno a parlarle si appressa,lionessa che guardi i suoi cuccioli.Se dicessi che sciocchi, che in nullasapïenti fûr gli uomini antichi,non diresti menzogna: ché canticiper conviti, per feste e per ceneritrovâr, pei sonori sollazzidella vita; e nessuno trovòcome i tristi cordogli degli uominicon la musa e i multísoni cantimitigare potesse; e di qui,stragi e orrende sventure devastanole magioni. Eppur, questo sarebbegran vantaggio, i mortali coi canticirisanare. Ma dove son lautibanchetti, levare le vociperché, se il piacer della mensaprocura, nell'ora fuggevole,da se stesso, delizia ai mortali?CORO: EpodoUdii di flebili gemiti il grido.Con urli acuti, penosi, i triboligeme, e al suo talamo lo sposo infido;e, soverchiata, s'appella a Tèmide,ch'è, presso a Giove, vindice ai giuri.Essa, alle opposte spiagge de l'Ellade,lei, per lo stretto del mare impervio,spinse, sui tramiti del mare oscuri.(Dalla reggia esce Medèa)(segue)