Autoscatto

Dalla conciliazione alla condivisione


La tesi di fondo espressa del Convegno “Il lavoro femminile è benessere e sviluppo economico” – organizzato a Palazzo Valentini dall’Ufficio delle Consigliere di Parità della Provincia di Roma – riguarda il rapporto diretto che lega la parità uomo-donna in ambito lavorativo, alla crescita economica del Paese. Il dato che emerge prepotentemente, rincorrendosi di intervento in intervento, è sicuramente preoccupante: l’Italia è il paese europeo con il più basso livello di servizi e di politiche sociali. Ciò che occorre, dunque, è un salto qualitativo, una rivoluzione del concetto stesso di welfare, tale da garantire una transizione dal principio di conciliazione – che privilegia la messa in opera di politiche volte al sostegno delle donne nella gestione dei tempi vita-lavoro – al principio di condivisione, ovvero a un reale riequilibrio del ruolo dei due sessi nella distribuzione dei compiti, anche sul piano domestico.Interessante il quadro relativo al lavoro femminile delineato dal responsabile del servizio Formazione e Lavoro Istat Gianlorenzo Bagatta che, dati alla mano, ha contestualizzato la complessa situazione nazionale inserendola nel più ampio quadro occupazionale europeo.L’Italia, sul versante donne e lavoro, si colloca al penultimo posto in Europa (in testa,invece, la Svezia), superata solo da Malta. La disoccupazione femminile si attesta intorno al 7,9%, valore che però non tiene conto della cosiddetta “disoccupazione bianca”, ovvero delle donne “inattive” che nel nostro Paese superano il tetto del 49%. È questo il dato più alto di inoccupazione in Europa, sintomo di una sfiducia e di una disillusione tale, da spingere le donne a non cercare affatto lavoro. Particolarmente critica anche la condizione professionale delle donne con prole. Il  tasso di occupazione decresce, infatti, di ben 10 punti percentuali già dalla nascita del primo figlio.In Italia, negli anni, è radicalmente cambiato il modello di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Oggi, le donne vi entrano con una preparazione decisamente maggiore rispetto al passato, ma significativamente più tardi, proprio in quella fascia anagrafica in cui, un tempo, si abbandonava il lavoro per il matrimonio o per i figli. A questa rivoluzione delle modalità occupazionali al femminile non ha però fatto riscontro un sistema in grado di assorbire il cambiamento, convertendolo in un potenziale utile al benessere del Paese.Ne sono dimostrazione alcuni dati Istat, che rivelano come negli ultimi tredici anni il tasso di occupazione delle donne in Italia sia salito dal 37,4% al 46,6%, mancando tra l’altro gli obiettivi di Lisbona, mentre in una nazione come la Spagna - grazie ad una politica più attenta - la crescita nello stesso periodo ha portato  da un originario 30,7% a un più confortante 54,7%.Sulla necessità di una maggiore (e migliore) occupazione per le donne in Italia prende la parola anche il Vice Presidente della Commissione Lavoro del Senato Tiziano Treu, che per il suo intervento fa diretto riferimento a uno studio di recente pubblicazione condotto dalla ricercatrice Giovanna Altieri.  Treu sottolinea come questo problema non riguardi le sole donne, ma l’intero Paese e insiste circa la necessità di spostare la questione dal piano individuale a una dimensione collettiva. Alla crescita del lavoro femminile, il Vice Presidente aggancia una serie di vantaggi sociali di grande rilevanza. In primo luogo, allargando la base occupazionale, il lavoro femminile garantisce sostegno al welfare; in secondo luogo laddove le donne lavorano, entra anche reddito e ciò, ovviamente, consente un sostegno della domanda. Treu non tralascia neppure la correlazione tra l’incremento del tasso di occupazione femminile e quello del tasso di natalità, sottolineando anche che i figli di madri lavoratrici, statisticamente, hanno la possibilità di accedere a una formazione migliore. Inoltre la donna che lavora ha un ruolo diverso nella sfera privata, e ciò gioca a favore di una ridiscussione – in termini di condivisione – del menage familiare.Di grande interesse anche il contributo della Vice Direttora Generale della Fondazione Censis Carla Collicelli che emblematicamente si chiede: “Quale stato sociale per il benessere di donne e uomini?”. La sua riflessione, che parte dalla crisi dei modelli occidentali di organizzazione statuale, punta soprattutto a sottolineare la necessità di un massiccio investimento nell’innovazione sociale. L’Italia, nella definizione data dal Censis, è “un Paese dalle pile scariche”; un paese, cioè, privo delle energie necessarie ad attivare le risorse giuste. Il welfare italiano è messo a dura prova da una serie inconciliabile di dicotomie, in particolare i nodi conflittuali riguardano particolarismo/universalismo e conservazione/modernità. Un altro grave vizio del welfare nazionale è dato da un eccesso di “familismo”. La famiglia, nel sentire comune, è infatti ancora considerata un punto di riferimento affidabile. Anch’essa, però, inevitabilmente risente della situazione generale, non riuscendo più ad assorbire in toto i compiti sempre più gravosi cui è costretta dall’inefficienza/inesistenza delle politiche sociali. Occorrerebbe, perciò, un nuovo welfare, da fondare sui quattro pilastri del sistema di base, mutualistico, assicurativo e della solidarietà sociale, valorizzando in particolar modo il ruolo del Terzo Settore.Chiudono la giornata di studi Gabriella Colombi – Dirigente del Servizio per gli affari economici e sociali, Dipartimento delle Pari Opportunità – e Marina Porro, segretaria nazionale dell’UGL.Anche per la Colombi, in questa sede rappresentante della ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna, la parola d’ordine è “parità”, intesa come sostegno alle donne per superare il gap che preclude loro una piena affermazione sia sul piano della formazione, sia sul versante professionale. Tra le iniziative specifiche messe in campo dal Ministero, l’attivazione di direttive esistenti, ma non ancora recepite, relative soprattutto al miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione femminile.Piace concludere questa riflessione con l’intervento di Marina Porro, che ha tutta l’aria di una provocazione: da anni si pongono le stesse domande, da anni si ascoltano le stesse risposte. Ma come è possibile che, dinanzi a una società in continua evoluzione, problemi e proposte di soluzione restino, invece, inalterati? È un sintomo certo dello scollamento tra le esigenze delle donne e i provvedimenti che si adottano a livello istituzionale per andarvi incontro. La realtà dei fatti è che viviamo in una società in cui tutto continua a essere a misura di uomo. Per tradurre nel concreto, fuor di teoria, la questione dell’occupazione femminile – dunque – appare necessario attuare una politica “dei piccoli passi”, organizzare un tavolo di concertazione tra donne, chiarire i punti fermi da cui è necessario partire e, soprattutto, sottrarsi a ogni forma di standardizzazione, rifiutandosi di accettare supinamente tutti quegli stereotipi che, nel tempo, alle donne sono stati cuciti addosso.