Creato da bollafinanziaria il 06/08/2011
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PER GLI INVESTITORI

Post n°16 pubblicato il 08 Gennaio 2012 da bollafinanziaria
 

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La bolla delle dot.com o bolla speculativa della new economy.

Post n°15 pubblicato il 26 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 
Tag: com, economy

Le Dot.com sono quelle società di servizi che sviluppano la maggior parte del proprio business tramite un sito internet. Il nome deriva da siti appartenenti al dominio di primo livello.com.

Queste società, eccessivamente fiduciose nelle potenzialità della rete, si illusero di poter facilmente espandersi, ma si trovarono  a dover fare i conti con la mancanza di idee innovative, di esperienza e di capacità gestionali.
Proprio per questo le Dot-com furono le protagoniste, in negativo, della bolla speculativa della new-economy all'inizio degli anni 2000, quando, numerose di esse, fallirono generando una vera e propria
 recessione della New Economy.
Oltre a queste vi sono ovviamente Dot-com che riuscirono, grazie ad una buona iniziativa imprenditoriale ed alla capacità di offrire servizi più interessanti ed innovativi, a sopravvivere alla bolla speculativa ed a svilupparsi nel corso degli anni. Oggi la maggior parte di queste è acquisita dai grandi operatori del mercato (come ad esempio Google, Microsoft e Yahoo).
La new economy si differenzia dall'economia industriale perché offre la possibilità di operare in un mercato globale, abbattendo i costi di gestione e consentendo alle imprese di non essere vincolate a uno
spazio definito quale può essere la sede fisica, in quanto lo spazio di una società è nella rete ed è virtuale.
 Nel corso degli anni 2000 la generalistica "Economy", anche a seguito dell'affermarsi del concetto di New Economy, ha via via iniziato ad assumere nuove connotazioni legate a fasi caratterizzate da precise
 tendenze, come il caso della Soft Economy o della Clean Economy.
Alcuni esperti continuano a usare il termine New Economy per descrivere gli sviluppi contemporanei nel mondo degli affari e l'economia.

 
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4° regola della ricchezza

Post n°14 pubblicato il 26 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 

L’oro fugge dall’uomo che lo investe in imprese che non gli sono famigliari o che non sono approvate da coloro che sono abili nel suo mantenimento.

All’uomo che possiede l’oro, ma che non è capace di gestirlo, molti modi in cui impiegarlo appaiono particolarmente redditizi. Spesso però sono investimenti pericolosi e se adeguatamente analizzati da chi è più esperto si rivelano poco promettenti. Quindi l’inesperto possessore d’oro che si fida del proprio giudizio e lo investe in imprese che non gli sono familiari molto spesso scopre che il suo giudizio è sbagliato e paga la sua inesperienza con il suo stesso tesoro.

Saggio è colui che investe i suoi tesori dietro il consiglio di chi è più esperto nella gestione dell’oro.

 
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3° regola della ricchezza

Post n°13 pubblicato il 21 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 

L’oro si attacca al proprietario attento così come fugge dal proprietario sconsiderato.

Colui che cerca consiglio da chi è capace di gestire l’oro impara presto a non mettere in pericolo il suo tesoro ma a tenerlo al sicuro e a vederlo crescere con gioia.

 
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Post n°12 pubblicato il 19 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 

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2° regola della ricchezza

Post n°11 pubblicato il 16 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 

L’oro è proprio un ottimo lavoratore sempre desideroso di moltiplicarsi quando si presenta l’occasione a chiunque abbia messo da parte dell’oro si presentano le occasioni per poterlo sfruttare nel modo più proficuo con il passare degli anni esso si moltiplica in modo sorprendente.

 
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1° regola della ricchezza

Post n°10 pubblicato il 13 Settembre 2011 da bollafinanziaria
 

L’oro arriva facilmente e in modo crescente a chiunque metta da parte non meno di un decimo dei suoi guadagni per creare un capitale per il suo futuro e per quello della sua famiglia.

 
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LE REGOLE DELLA RICCHEZZA

Post n°9 pubblicato il 28 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 

pubblicherò a breve le regole per la ricchezza....

 
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rispondete a questa domanda

Post n°8 pubblicato il 21 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 

l'avidità è giusta?

 
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BUONE BOLLE A TUTTI!!!

Post n°7 pubblicato il 12 Agosto 2011 da bollafinanziaria

PER MEGLIO DIRE BUONE VACANZE :)

 
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La bolla speculativa

Post n°5 pubblicato il 06 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 
Foto di bollafinanziaria

Si ha una bolla speculativa quando i movimenti del prezzo di un bene diventano indipendenti dalle ragioni economiche che giustificano il livello di prezzo del bene stesso. I movimenti del prezzo (solitamente verso l'alto) sono quindi sospinti, non da ragioni economiche, ma dall'irrazionale comportamento degli operatori di mercato.

 

 
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Subprime

Post n°4 pubblicato il 06 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 
Foto di bollafinanziaria

La crisi è iniziata approssimativamente nella seconda metà del 2006, quando cominciò a sgonfiarsi la bolla immobiliare statunitense e, contemporaneamente, molti possessori di mutuisubprime divennero insolventi a causa del rialzo dei tassi di interesse.Questa crisi è compatibile con le teorie del "credit boom and busts" e delle asimmetrie informative.

La crisi diventa palpabile nel febbraio-marzo 2007[4][5], e nel settembre-ottobre 2008, bimestre in cui scompaiono le banche d'affari più note: il 15 settembre 2008 Lehman Brothersdichiara la bancarotta invocando il chapter 11, il 22 settembre Goldman Sachs e Morgan Stanley[6] diventano banche normali. Tutti gli indici borsistici mondiali flettono in maniera consistente, arrivando mediamente sui livelli della fine del XX secolo.

All'esplosione della crisi dei mutui subprime, ha fatto seguito la decisione di alcune banche di "congelare" le quote dei propri fondi di investimento, sospendendone la compravendita per impedirne un deprezzamento. In altri casi, i creditori hanno dichiarato le loro insolvenze e vi sono stati casi di fallimento, che hanno portato ad un calo dei titoli in Borsa generalizzato nei vari settori. Questo è riconducibile al ruolo del sistema creditizio per l'intera economia, al fatto che in varie Borse (come il FTSE-MIB) i titoli bancari sono quelli a massima capitalizzazione e più scambiati giornalmente, per cui un loro calo pesa molto sull'indice complessivo di Borsa, al fatto che l'insolvenza del creditore si ripercuote su tutti i suoi debitori, con la difficoltà di rinnovare prestiti in scadenza a tassi agevolati e a concedere dilazioni di pagamento, a molte industrie che hanno un debito che è un multiplo del loro capitale sociale.

Il calo di agosto delle borse americane, europee ed asiatiche ha indotto le banche centrali di tutto il mondo ad iniettare miliardi di liquidità per sostenere i corsi azionari della Borsa. In un primo momento le banche centrali, in special modo la FED, hanno agito come prestatori di ultima istanza, con interventi di aiuto mirati e in un secondo momento hanno abbassato notevolmente il costo del denaro in modo da assicurare sufficiente liquidità all'intero sistema. Questo insieme alle garanzie governative sui depositi ha evitato il fenomeno della "corsa agli sportelli" e quindi effetti ancora più devastanti sull'intera economia. Nell'area Euro si è verificato il più massiccio intervento nella storia della BCE, e si è parlato di un rischio di iperinflazione per i prossimi mesi a causa della moneta immessa in circolazione. I prestiti della Banca Centrale in un momento di vendite generalizzate servivano agli investitori a contenere le perdite o a realizzare un guadagno, impegnando sovente direttamente le banche centrali a comprare ciò che nessuno attore del sistema economico intende più acquistare, e di cui il mercato tende a disfarsi(rientra nella politica del quantitative easing).

Il continuo rialzo dei tassi di interesse ha indotto l'insolvenza di circa 2 milioni di famiglie americane, e ha spinto il Congresso all'estensione alle famiglie dell'istituto del fallimento, in precedenza concesso alle sole imprese. Una riduzione dei tassi di interesse ridurrebbe automaticamente la rata variabile di questi mutui, riportandola ai livelli precedenti la crisi e sostenibili per i redditi americani. Oltre a ridurre la percentuale di insolvenze, un abbassamento del tasso di sconto avrebbe anche l'effetto opposto di spingere alla concessione di nuovi mutui (e aggravare il numero di potenziali insolvenze in futuro). In questo senso, il tasso di interesse non è l'unica leva a disposizione delle banche centrali. Un aumento della riserva frazionaria oppure un esplicito divieto di concedere prestiti ad un tasso ribassato per ridurre le insolvenze pendenti sarebbero strumenti in grado di attenuare il problema.

Nella prima metà dell'Agosto 2007, le preoccupazioni su un possibile crollo dell'industria dei mutui subprime hanno causato una netta caduta degli indici di borsa Nasdaq e Dow Jones, con serie ripercussioni sui listini di tutto il mondo. Gli indici delle borse asiatiche ed europee hanno fatto registrare una serie di record negativi.

La situazione mutui è a rischio anche in altri Paesi. In Italia, il debito pro-capite supera i 30.000 euro l'anno e nel 2007, a fronte di 3.500.000 famiglie titolari di un mutuo, i casi di insolvenza superavano quota 500.000, con altrettante procedure avviate di pignoramento. In Europa manca una regolamentazione internazionale comune per la concessione dei mutui.

Il mutuo è un'opportunità di investimento che offre in generale un buon profilo rischio/rendimento per chi presta denaro, poiché ha rendimenti medio-alti, spesso non è soggetto a rischi legati ai tassi di interesse né al rapporto di cambio (che sono trasferiti direttamente al cliente). Il subprime è garantito da un'ipoteca su un bene, la casa, che è immobile, e non può essere sottratto ai creditori. Nonostante queste garanzie legali e del mercato, parte del sistema bancario è esposta a perdite, svalutazioni di asset e al rischio di fallimento.

I debitori sono stati naturalmente criticati per aver contratto mutui, pur ben consci di non poterli soddisfare. Al momento della forte crescita dei mutui, tuttavia, tassi di interesse ai minimi storici e stabilmente bassi da alcuni anni, lasciavano pensare che fossero convenienti mutui a tasso variabile. I contratti stessi non prevedevano espressamente un interesse massimo applicabile.

Molti rapporti sulla crisi evidenziano pure il ruolo della caduta dei prezzi degli immobili, iniziato nel 2005. Mentre i prezzi degli immobili crescevano, dal 2000 al 2005, i debitori che avevano difficoltà nell'adempiere ai pagamenti potevano sempre vendere le loro case oppure accedere più facilmente a nuovi finanziamenti. Ma, come i prezzi si sono raffreddati in molte parti della nazione americana, questa strategia non si è più resa disponibile per i mutuatari subprime.

 
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La crisi del Giappone (1990)

Post n°3 pubblicato il 06 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 

 

Sui giornali dell'11 aprile si poteva leggere che la Banca mondiale ha largamente ridimensionato le sue previsioni sul tasso di crescita dell'economia giapponese per il 2001 dal 2,1% (previsto nel dicembre scorso) allo 0,6%. Il decennio perduto negli anni '90 dall'economia giapponese, con una persistente crisi economica e il più basso tasso di crescita (meno dell'1,2% annuo) fra tutti i paesi più industrializzati, non si è quindi ancora concluso, nonostante le previsioni di ripresa, sia all'interno che all'estero.

Secondo una convinzione generale, le sofferenze (si definiscono sofferenze quei prestiti il cui rimborso è impossibile o assai improbabile) bancarie e di altre istituzioni finanziarie tormentano ancora l'economia giapponese e costituiscono una pesante eredità dello scoppio della gigantesca bolla alla fine degli anni '80. Si ritiene che il declino complessivo dell'attivo di bilancio giapponese  dovuto principalmente al tracollo del valore delle azioni e dei suoli  ammonti a un milione di miliardi di yen (circa il doppio del Pil annuo, la metà del quale consiste in beni finanziari e l'altra metà in beni immobiliari). Questa deflazione dell'attivo ha provocato un costante rischio finanziario, con varie banche e altre istituzioni finanziarie che hanno fatto bancarotta.

Inoltre, l'accordo (Basilea, 1988) della Banca dei regolamenti internazionali (Bis)  che imponeva alle banche impegnate in affari internazionali di mantenere, alla fine dell'anno fiscale 1992, il proprio capitale a una dimensione pari a più dell'8% dell'attivo totale  ha contribuito ad aggravare la crisi bancaria. Anche perché, permettendo alle banche giapponesi di includere nel proprio capitale il 45% dei loro capital gains potenziali (gli utili presunti derivanti dalla differenza tra i prezzi correnti e i valori di acquisto) sui pacchetti azionari, questo accordo ha sollecitato gli investimenti nel mercato azionario durante la bolla, e ha poi ridotto la loro capacità di prestito quando è intervenuto il processo di svalutazione delle attività. La conseguente stretta creditizia ha assestato un duro colpo alle piccole e medie imprese e alle aziende del settore immobiliare, le cui operazioni erano strettamente dipendenti dai prestiti bancari, e ha contribuito alla deflazione dell'attivo, generando un vero e proprio circolo vizioso. L'accordo di Basilea rappresenta, nella lunga storia del capitalismo, un altro esempio paradossale degli effetti destabilizzanti e incontrollati di un meccanismo di regolamentazione del mercato del denaro e delle finanze. Inoltre mal si adatta al sistema delle banche giapponesi, che tradizionalmente possono operare anche disponendo di una bassa percentuale di capitalizzazione basandosi sull'alta quota di risparmi delle famiglie. 

Non appena i capital gains potenziali sul valore delle azioni e dei suoli crollarono, diverse aziende ebbero difficoltà a espandere le proprie attività sulla base di capitale proprio o contraendo prestiti su ipoteca, e tendevano a perdere la loro capacità di resistere alla pressione deflazionistica della stretta creditizia. I fallimenti di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, sono aumentati, e continuano incessantemente ad aumentare. Nel momento in cui le aziende ridimensionavano le proprie attività, le condizioni dei lavoratori hanno cominciato a subire forti peggioramenti e i salari reali a ristagnare. Nel 1993 i salari reali sono scesi, e sono anche state ridotte le retribuzioni degli straordinari. Come risultato, il reddito reale a disposizione delle famiglie (ossia, il reddito effettivo delle famiglie meno le tasse e le spese di previdenza sociale) ha cominciato a diminuire. La domanda di consumi interni ha quindi subito un tracollo, e la recessione si è aggravata.

Per reazione alla depressione del mercato interno, le aziende giapponesi hanno cercato nuovamente di aumentare le esportazioni. Ma non appena aumentava l'attivo della bilancia commerciale, lo yen si rivalutava pesantemente, creando di conseguenza non poche difficoltà alle stesse industrie esportatrici. Il tasso di cambio dello yen rispetto al dollaro (media annuale) è aumentato dai 145 del 1990 ai 127 del 1992, fino a circa 100 alla fine del 1994. Successivamente, nel 1995, quando la fiducia nel dollaro ha subito il colpo della crisi monetaria e finanziaria del Nafta (Accordo di libero scambio del Nord America), iniziata con la crisi messicana, lo yen si è ulteriormente rivalutato rispetto al dollaro, raggiungendo in aprile un tasso di cambio di 79,75. Questa rivalutazione dello yen ha creato serie difficoltà alle industrie esportatrici e le ha incoraggiate a delocalizzare all'estero i propri impianti, provocando all'interno un processo di desertificazione industriale. Pro mente per la prima volta dalla Re razione Meiji del 1868  quando ebbe inizio la modernizzazione giapponese  il numero assoluto di lavoratori giapponesi impiegati nell'industria manifatturiera in tempo di pace ha cominciato a diminuire, un segnale evidente della tendenza di deindustrializzazione.

Inoltre, il rapido declino delle nascite e l'invecchiamento della società hanno costituito un altro importante fattore di blocco per la crescita economica giapponese. Nell'ambito del duro processo di ristrutturazione competitiva cominciato alla metà degli anni '70, le industrie giapponesi hanno impiegato sempre più donne lavoratrici a basso costo (soprattutto casalinghe part-time), grazie anche alla diffusione delle tecnologie informatiche sia nelle industrie che negli uffici. In mancanza di adeguati sostegni sociali per la cura dei figli dei lavoratori, il rapido aumento dell'impiego femminile ha provocato un netto calo del tasso di natalità media, che è sceso da 2,05 nel 1974 a 1,34 nel 1999. La popolazione giapponese comincerà a diminuire e, entro la fine del XXI secolo, potrebbe ritrovarsi dimezzata. Questa trasformazione demografica produrrà necessariamente il ridimensionamento del lungo trend di crescita dell'economia giapponese. E tenderà anche a deprimere la domanda di consumi diretti e indiretti (a favore soprattutto dei fondi pensione) per le incertezze legate al futuro.

Tutto considerato, l'economia giapponese ha al momento un trend di crescita estremamente basso rispetto a quello degli anni '70 e '80, e tanto più rispetto al periodo di elevata crescita economica prima del 1973. La depressione ha colpito l'economia giapponese per ragioni sia interne che esterne, e il paese non ha preso parte alla ripresa economica guidata dagli Stati Uniti e da altre economie avanzate dopo il 1993. 

Diversamente da quel che tuttora molti credono, il neoliberismo è diventato la linea guida delle politiche economiche anche giapponesi all'inizio degli anni '80, sulla scia di quanto avveniva negli Stati Uniti e nel Regno Unito. A differenza del keynesismo dominante fino agli anni '70, il neoliberismo prevede una riduzione del ruolo economico dello Stato, e giura sulla capacità del libero mercato di determinare un ordine economico razionale ed efficiente. Non si tratta semplicemente di una reazione al fallimento pratico del keynesismo nel far fronte alla crisi economica degli anni '70, ma di una dottrina economica che ben si sposa con il processo di ristrutturazione industriale in atto. Con l'introduzione delle nuove tecnologie informatiche, le aziende capitalistiche hanno ulteriormente intensificato la competizione di flessibilità nel mercato, moltiplicando i modelli di prodotti, delocalizzando impianti e uffici sia all'interno del paese che all'estero, sviluppando un'organizzazione del lavoro che prevede un aumento di lavoratori flessibili part-time e di attività globalizzate in vari settori.

Conformemente alla tendenza delle politiche neoliberiste di rafforzare i princìpi del libero mercato, le grandi industrie giapponesi introdussero le nuove tecnologie informatiche, `razionalizzarono' la gestione della forza lavoro, ridussero i salari reali, e intensificarono vieppiù la propria competitività internazionale. Gli sforzi delle aziende per aumentare la propria redditività ottennero la cooperazione dei lavoratori, produssero un attivo della bilancia commerciale e una rivalutazione dello yen. Il modello di management giapponese fu guardato con attenzione dal mondo intero come un modello adatto a far fronte alla crisi economica, soprattutto negli anni '80. In realtà, le grandi aziende giapponesi migliorarono la loro posizione finanziaria e accumularono grandi quantità di liquido sia grazie ai profitti accumulati che agli investimenti azionari sul mercato nazionale e su quello estero. Gli investimenti all'estero furono incrementati, e crebbero i beni giapponesi all'estero, con una conseguente espansione della capitalizzazione delle borse estere. Con la rivalutazione dello yen, il reddito pro-capite del Giappone superò, nel 1987, quello degli Stati Uniti, e la ristrutturazione neoliberista giapponese, concentrata sulle aziende, sembrava una straordinaria storia di successo.

Ma il credo neoliberista nei princìpi del libero mercato non genera affatto un ordine economico razionale, efficiente e giusto. Vaste e anarchiche fluttuazioni nei tassi di cambio esteri, insieme a enormi flussi internazionali nei fondi speculativi, hanno provocato notevoli danni economici a un gran numero di società e di lavoratori. Allo stesso tempo, la politica del profitto a ogni costo propria della ristrutturazione promossa dalle aziende in base ai princìpi del libero mercato ha provveduto a gonfiare una bolla gigantesca che, nel momento in cui è scoppiata, ha provocato seri danni. Questi episodi sono la prova della fondamentale instabilità di uno sviluppo di tipo speculativo governato dall'economia capitalista del libero mercato. Le politiche economiche di stampo neoliberista non possono evitare questi gravi effetti economici irrazionali e iniqui. Promuovono anzi un clima politico e sociale in cui la ricerca del massimo profitto speculativo delle imprese viene universalmente accettata nel nome dei princìpi del libero mercato. In questo modo si va addirittura a incoraggiare l'arricchimento privato dei politici e dei burocrati, considerato un diritto naturale connesso a ogni attività economica. Sono venuti a galla numerosi scandali di corruzione e di tangenti. I burocrati giapponesi, pur considerati i promotori per buona parte del successo dell'economia giapponese, hanno dovuto registrare, negli anni '90, un notevole ridimensionamento della propria credibilità, del proprio prestigio e delle proprie funzioni.

Il neoliberismo non è riuscito a mantenere le sue promesse e neanche a creare un contesto di politica economica coerente. Gli interventi sulle economie di mercato attraverso strumenti di politica fiscale e monetaria non sono stati eliminati. Questo conferma l'evidenza storica secondo cui anche nello stadio classico del liberismo l'economia capitalistica non riuscì a fare a meno di un certo grado di regolamentazione politica, di interventi legislativi come il Peel's Act 1 e della sua revoca discrezionale nelle fasi di crisi finanziaria. Gli interventi del governo giapponese e della Banca del Giappone sono stati più incisivi, più contraddittori, e volti anche a correggere i princìpi del libero mercato.

Per esempio, il governo giapponese e le autorità monetarie hanno promosso attivamente una politica di bassi tassi d'interesse dalla fine del 1986 in poi, e hanno aumentato ampiamente la spesa pubblica nella primavera del 1987. Questa politica è stata perseguita in parte per rispondere alla pressione del governo Usa, soprattutto dopo gli accordi del Plaza 2, in modo di favorire la domanda interna in Giappone e attenuare la concorrenza commerciale. Naturalmente in questo modo quegli accordi hanno anche contribuito a creare la bolla e a farla gonfiare. La Banca del Giappone, e il governo, hanno trascurato il pericolo di questa enorme bolla che si andava gonfiando, e hanno considerato la relativa stabilità del livello dei prezzi come una prova della validità della politica monetaria di quel periodo.

Inevitabilmente, le politica monetaria restrittiva del biennio 1989-90, che premeva per lo scoppio della bolla speculativa, produsse la battuta d'arresto. Questi interventi di politica economica, contraddittoria con il credo neoliberista, hanno nel periodo che stiamo esaminando influenzato pesantemente il funzionamento del sistema dei mercati in Giappone. E, a conti fatti, la politica non solo non è riuscita a controllare efficacemente l'instabilità distruttiva dei mercati, ma ha anche contribuito a produrla e ad amplificarla.

Nella conseguente fase di recessione degli anni '90, nonostante la pratica delle politiche neoliberiste di deregolamentazione dei rapporti di lavoro, o di riduzione del sostegno pubblico per il Welfare e per l'educazione, il governo giapponese ha continuato a intervenire in modo incisivo sui meccanismi dell'economia di mercato. Ha promosso concretamente politiche monetarie e finanziarie. In questo senso, non si può fare a meno del keynesismo, anche se è vero che le politiche keynesiane non sono sufficientemente efficaci. Dobbiamo allora chiederci perché.

Perché le politiche keynesiane non funzionano?

Nell'aggravarsi della crisi economica e finanziaria del Giappone, sono stati riproposti interventi di politica economica keynesiana di tipo emergenziale, soprattutto nella forma di un aumento della spesa pubblica. Come risultato, rispetto al Pil, la quota del capitale fisso pubblico (totale degli investimenti nei servizi pubblici, compresi gli incentivi e le infrastrutture realizzate dai governi locali, meno i costi per acquisire i suoli indispensabili) è arrivata nel 1996 al 6,9% dal 4% prima del 1970. Nel complesso, questi investimenti pubblici sono ammontati a più di 30.000 miliardi di yen nel 1996. L'incidenza sul Pil è quattro volte superiore a quella degli Stati Uniti, e tre volte a quella della Germania. Se aggiungiamo a questa quota i costi delle aziende pubbliche per acquisire i suoli necessari e realizzare la costruzione delle autostrade, gli investimenti totali nelle infrastrutture pubbliche sono aumentati fino a 50.000 miliardi di yen. Questi assorbono il 10% del Pil, una cifra vicina al totale del gettito fiscale che ammonta a 55.000 miliardi di yen l'anno. Non è un'esagerazione considerare il Giappone come una nazione dedita all'ingegneria civile e alle costruzioni. 

Per queste ragioni, il governo giapponese, in contraddizione con una posizione di formale neoliberismo, ha intrapreso una politica di interventismo pubblico su larga scala. Questo intervento non ha avuto l'obiettivo macroeconomico di ispirazione keynesiana di rilanciare la domanda. Poiché una larga parte delle esposizioni delle istituzioni finanziarie è collegata al mercato immobiliare, al business delle costruzioni, ovviamente la spesa pubblica nello stesso periodo è stata dominata dalla volontà politica di aiutare le imprese finanziarie alle prese con il pesante fardello delle sovraesposizioni. Si attendevano quindi gli effetti di una politica di espansione per risolvere le difficoltà finanziarie e limitare con la generale ripresa dell'economia il peggioramento dei valori ipotecari dei suoli e del patrimonio immobiliare.

 Mentre la crisi fiscale dello Stato si aggravava nella forma di una crescita del debito pubblico e dell'emissione di titoli obbligazionari da parte del governo, nel 1997 aumentavano sia le tasse sui consumi sia i costi per l'assistenza medica, il che anticipava per il futuro una tendenza contraria a uno Stato sociale attento ai bisogni di tutti. In terzo luogo, i lavori di costruzione e manutenzione stradale oggi hanno, rispetto agli anni passati, un impatto decisamente inferiore sulle vendite interne di automobili. Gli effetti degli investimenti pubblici sull'occupazione si sono sempre più ridotti poiché i settori dell'edilizia e dell'ingegneria civile hanno introdotto macchinari sempre più tecnologicamente progrediti proprio per ridurre i costi del lavoro. Così l'effetto moltiplicatore dei pubblici investimenti sull'industria edilizia è nel complesso notevolmente diminuito. A questo riguardo, e ammesso che la politica della spesa pubblica sia realmente efficace, i suoi contenuti reali contano.

Oltre alla politica della spesa pubblica, è stato applicato anche un altro strumento del keynesismo: l'intervento sulla moneta. La Banca del Giappone ha ridotto il tasso di sconto ufficiale dal 6% del 1990 all'1,75 del 1993 fino allo 0,5 % del settembre 1995. Ha poi mantenuto questo tasso d'interesse senza precedenti per più di cinque anni per poi ridurlo ulteriormente allo 0,35 % nel febbraio di quest'anno, e allo 0,25 % nel marzo. Questa politica monetaria è stata sicuramente orientata a generare uno stimolo che incentivasse in generale gli investimenti di capitale reale in modo da superare la fase di depressione economica. Ma nello stesso tempo aveva anche l'obiettivo specifico di risolvere la crisi delle banche e delle altre istituzioni finanziarie. Con la semplice operazione di investire in obbligazioni statali, con l'interesse del 2%, il denaro che la Banca del Giappone rendeva disponibile a un così basso tasso, le banche hanno potuto realizzare in tutta sicurezza enormi profitti per compensare parte delle perdite dovute alla cancellazione dei prestiti in sofferenza. È interessante scoprire quanto questi interventi sulla moneta e quelli sulla spesa pubblica siano stati inefficaci nel risolvere la crisi economica giapponese. E dovremmo ancora esaminarne le ragioni.

Innanzitutto, la difficoltà basilare di dar luogo a un'accumulazione di capitale reale in presenza di un eccesso di capacità produttive, lo stallo della domanda dei consumi dovuta a un diffuso clima d'incertezza sul futuro, e la svalutazione patrimoniale hanno creato un circolo vizioso molto duro da spezzare. La crescita delle importazioni a basso prezzo dai vicini paesi asiatici, compresi quelle dei beni prodotti da marche giapponesi, ha aggiunto un'ulteriore sfida di competitività spingendo tendenzialmente verso il basso il prezzo dei prodotti. Inoltre, tassi d'interesse sempre più bassi non potevano stimolare i fornitori interni di credito. Il capitale monetario inattivo è stato congelato senza trovare una via di sbocco redditizia all'interno dell'economia. Dai keynesiani questa sarebbe chiamata una crisi con una «trappola di liquidità». D'altra parte, una politica monetaria di questo genere, tesa a mantenere un tasso d'interesse estremamente basso, ha avuto in realtà l'effetto di spingere costantemente un'enorme massa di moneta giapponese verso l'estero  specialmente verso l'Asia e gli Stati Uniti  in cerca di rendimenti più alti o di impieghi più redditizi. Essa ha contribuito così ai boom drogati dei vicini paesi asiatici, poi alla bolla borsistica di New York e più in generale degli Stati Uniti. In una prospettiva di economia nazionale, quest'aspetto della globalizzazione dell'economia, con i suoi effetti dispersivi, rende apparentemente nulla una politica monetaria di stampo keynesiano. Da ultimo, mentre Keynes metteva in conto l'eutanasia della classe dei rentiers attraverso gli strumenti di una politica monetaria e fiscale reflazionistica, nella realtà del Giappone un tipo di classe del genere non esiste; c'è piuttosto una massa di lavoratori, e soprattutto di persone anziane, pensionati, che sono stati duramente colpiti da una caduta così drastica dei tassi d'interesse. Dato che la maggiore fonte di risparmi sono le famiglie e i maggiori creditori sono le grandi aziende, la riduzione dei tassi d'interesse ha un'effettiva funzione di redistribuzione del reddito tra questi due settori, provocando così un effetto di crisi sulla domanda per consumi.

L'aumento dell'ineguaglianza sociale Visto che le politiche fiscali e monetarie keynesiane non hanno ottenuto risultati sufficienti nel compensare la tendenza depressiva dell'economia e la conseguente crisi del settore finanziario, è stato attuato un nuovo intervento politico: l'immissione di denaro pubblico nelle banche e nelle altre istituzioni finanziarie. Questa misura è stata, all'inizio, introdotta nel 1996 per il caso del fallimento di sette società finanziarie immobiliari specializzate (jusen). L'operazione fu considerata una pratica scorretta messa in atto per proteggere politicamente le Cooperative agricole e i loro manager a danno dei loro clienti. Perciò, quando si verificò il fallimento della Hokkaido Takushoku Bank (Hokutaku), della Yamaichi Securities e di altre due banche, non venne utilizzato denaro pubblico. Dato che la Hokutaku era la decima banca della città e di gran lunga la banca principale della regione di Hokkaido, il suo fallimento provocò a catena una serie di situazioni di difficoltà economiche, compreso il fallimento di molte attività in quella regione, e diffuse un'inquietudine finanziaria in tutto il sistema economico. Nel 1998 fu perciò stanziato denaro pubblico per 30.000 miliardi di yen sia per proteggere i risparmiatori sia per fornire un'iniezione di capitale alle banche `sane' in crisi di liquidità. La somma venne poi aumentata fino a 60 e poi fino a 70.000 miliardi di yen.

La politica di fornire un'iniezione di capitale alle banche è definita «Troppo grande per fallire o per essere liquidata». È difficile rintracciare un suo fondamento teorico sia nel keynesismo tradizionale che nelle teorie economiche neoliberiste. È chiaro che gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno fortemente premuto per questo strumento d'intervento allo scopo di evitare che una crisi finanziaria mondiale si scatenasse sulla scia della recessione giapponese. È anche difficile che l'adozione di questa misura possa essere considerata un esempio di politica coerente ed equanime, tranne che per l'eventuale funzione di parziale protezione dei risparmiatori. Per esempio, alla fine del 1998, 7.000 miliardi di yen di denaro pubblico furono riversati nell'Istituto di credito a lungo termine del Giappone, già fallito e nazionalizzato. E poco tempo dopo questo istituto di credito fu generosamente venduto con tutto il suo patrimonio di 10.000 miliardi di yen a una banca americana, la Lipplewood Investment Bank, per un miliardo di yen.

Dal punto di vista della maggior parte della gente che subisce l'aumento delle tasse e la manomissione del sistema previdenziale, questo modo di spendere il denaro pubblico sembra uno spreco che va a proteggere soltanto i settori finanziari, le grandi attività economiche e le persone più ricche come creditori e debitori. In effetti, attraverso tutti questi interventi sull'economia poco coerenti fra di loro, appare una certa tendenza che favorisce chi è dalla parte del capitale e gli strati più ricchi, poiché distribuisce il peso della ricostruzione dell'economia sempre più tra la popolazione. L'orientamento neoliberista è stato applicato non ai problemi delle banche e delle società operanti nel settore immobiliare, ma alla riduzione del Welfare, insistendo esclusivamente sull'autotutela individuale nell'economia di mercato. Nel 1989 l'attacco neoliberista al combattivo movimento sindacale è riuscito, attraverso il processo di privatizzazione di tre società pubbliche, a smantellare il Sohyo (il Consiglio generale dei sindacati), centro nazionale dei sindacati di sinistra. Il colpo ha indebolito il tradizionale retroterra sociale del Partito socialista giapponese (Psg). Dopo aver occupato a lungo circa un terzo del Parlamento, il Psg ha continuato a perdere seggi. Nel 1996 ha cambiato il suo nome in Partito socialdemocratico giapponese (Psdg), e nel 1998 ha ottenuto soltanto 14 seggi sui 500 della Camera dei rappresentanti. La trasformazione della distribuzione dei collegi, da aree di media grandezza a aree più piccole, è stato un altro elemento che ha giocato a sfavore del Psdg. Anche se nello stesso anno il Partito comunista giapponese è arrivato a conquistare 26 seggi nella Camera dei rappresentanti, la verità è che tutto lo scenario politico giapponese si è chiaramente spostato verso una posizione conservatrice, subalterna alle imprese.

Nonostante questi fenomeni, è giusto riconoscere che l'economia giapponese non ha dato luogo a una catastrofica crisi economica e finanziaria. La recessione giapponese degli anni '90 è stata prolungata e resa relativamente stabile almeno in parte grazie agli effetti delle politiche economiche. Tuttavia, la relativa stabilità dell'economia giapponese non è stata affatto assicurata soltanto dalle politiche economiche. Queste politiche di emergenza, comprese le iniezioni di denaro pubblico, sono state rese possibili perché si è potuto far pesare una gran parte dei costi, direttamente o indirettamente, sulla popolazione lavoratrice attraverso gli aumenti delle imposte sui consumi o i tagli alla spesa sociale. L'indice costantemente alto del risparmio della popolazione giapponese, insieme alla regolarità dei rientri per la maggior parte dei prestiti ai consumi e dei mutui immobiliari, sono stati altri fattori che hanno contribuito alla relativa stabilità del sistema finanziario.

In ogni modo, attraverso questo processo di riforma economica e di ristrutturazione politica che ha l'obiettivo di creare un mercato sempre più competitivo all'interno di un sistema neoliberista, la società giapponese sta rafforzando la sua natura capitalistica di paese dipendente dalla grande impresa: una nazione che, per realizzare questi obiettivi, tende a opprimere le masse di lavoratori, combinando un mercato del lavoro sempre più competitivo a un sindacato sempre più debole. E se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato una tendenza a realizzare un sistema di eguaglianza sociale economica, è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca, della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle altre istituzioni finanziarie. In una ricerca statistica del 1998 Tachibanaki rivelava che l'indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito in Giappone era cresciuto rapidamente tra gli anni '80 e '90, e aveva superato sorprendentemente quello degli Stati Uniti. Questa trasformazione sociale del Giappone verso una crescita delle diseguaglianze sarà controproducente per la ripresa economica, anche se può essere considerato in un certo senso il risultato paradossale della riuscita ristrutturazione di un'economia capitalistica di mercato competitiva.

Sebbene la globalizzazione sia per diversi aspetti inevitabile, nel mondo attuale le possibilità fondamentali che gli interventi politici siano all'altezza di questa sfida possono essere e sono diverse. Per il futuro del Giappone, le scelte politiche desiderabili per le masse popolari al fine di garantire un'economia più sana dovrebbero essere proposte molto più energicamente, anche se la tendenza a una crescita economica rallentata continuasse per lungo tempo prima di invertirsi. Il compito attuale più importante, ma anche più difficile da perseguire per il futuro, è quello di ricreare nella politica giapponese, sulla base dei movimenti di lavoratori e di cittadini, un tipo di legame sociale generale per le masse della popolazione. 

 

 
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Il crack della Borsa di New York (1929)

Post n°2 pubblicato il 06 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 
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La crisi del 1929 in America arriva improvvisa dopo dieci anni di ricchezza e di ottimismo. Dal 1920 il valore delle azioni non ha fatto che salire e sembra non ci siano confini al mondo di carta dei titoli azionari e ai guadagni crescenti. Limpressione di vivere in una situazione di ricchezza permanente è molto diffusa. Anche se solo una piccola parte dei cittadini americani ha investito in borsa il mercato è entrato a far parte della cultura diffusa del paese.



Tutti gli occhi sono puntati su Wall Street, la sede della Borsa di New York. Guardare scendere e salire le azioni è diventato uno sport popolare e il linguaggio del mercato azionario è entrato a far parte del gergo comune. Cè chi, come Jesse Livermore ha creato una fortuna dal nulla, un impero di carta, solo giocando in borsa, ma cè anche chi, come il fondatore della General Motors William Durant, è partito da una ricchezza creata su base industriale per poi passare alla speculazione finanziaria. Nuovi ricchi si affermano; il loro è un modo totalmente nuovo di fare fortuna, non legato come in passato alle costruzione di acciaierie o allestrazione del petrolio, sono uomini che accumulano grosse somme di denaro solo comprando e vendendo azioni. Banchieri e speculatori conducono vite da re, ma anche per i piccoli risparmiatori la tentazione della ricchezza appare irresistibile. 

Leconomia americana sta cambiando, la rivoluzione dei consumi è alle porte e iniziano a diffondersi su vasta scala pratiche nuove come la vendita a rate. 

Nel frattempo cordate di investitori, aiutati da informatori allinterno dellazienda (i cosiddetti insiders) si mettono daccordo per comprare un titolo, gonfiarne il prezzo e poi rivenderlo, altissimo, ad investitori ignari. Si crea una vera bolla speculativa, in una situazione completamente priva di regole. Ad arricchirsi sono soprattutto quelli che non hanno scrupoli e speculano sulla borsa falsando il mercato. Gli osservatori che mettono in guardia dai rischi di un simile boom vengono tacciati di antipatriottismo e di voler sminuire limmagine dellAmerica. 


Lunedì 25 marzo 1929: gli investitori cominciano a vendere, le blue chips crollano. Il giorno dopo, unaltra ondata si abbatte sul mercato. A farne le spese sono soprattutto coloro che hanno comprato a credito. Hanno dovuto versare un acconto del 10 per cento, ma dopo il crollo dei titoli i loro soldi si sono volatilizzati. Moltissimi piccoli risparmiatori si trovano ad esser costretti a vendere le azioni, e così i titoli, svalutandosi, innescano una reazione a catena al ribasso. Lillusione dei soldi facili sembra svanire. Chi non vende si trova, proprio come un giocatore dazzardo, a dover chiedere altri soldi in prestito. E a quel punto che la Federal Reserve decide di "raffreddare" il mercato ed alza il tasso di interesse. Avere del denaro in prestito dallo Stato costerà molto di più, una mossa che non piace alle banche, che vogliono tenere il mercato alto per continuare la loro speculazione. 

Charles Mitchell, presidente della National City Bank, annuncia che la sua banca fornirà nelle successive 24 ore 25 milioni di dollari di credito. Nellarco di quelle 24 ore i tassi di interesse scendono dal 20 all8 per cento. Un escamotage che, almeno per qualche tempo, serve a far rientrare il panico. 


Ma leconomia americana segna in primavera una battuta darresto; la produzione dellacciaio rallenta, il settore delle costruzioni è fermo, il mercato delle automobili crolla. E sempre più difficile trovare nuovi clienti, e a causa della facilità con cui si è fatto credito molte persone sono indebitate fino al collo. Ampie fasce di popolazione diventano sempre più povere. Ora che leconomia dà segnali di crisi ci si aspetta che anche la borsa freni la sua corsa al rialzo, ma non è così. Il mercato continua a salire e i prezzi delle azioni non hanno più nulla a che vedere con i profitti delle aziende. La bolla speculativa, disancorata dalleconomia, vive ormai di vita propria. La crisi recente della borsa sembra essere stata presto dimenticata e Wall Street vive un nuovo momento di euforia. Il picco massimo del mercato azionario, dopo unestate di crescita, viene toccato ai primi di settembre del 1929. 

Roger Babson, il commentatore americano che per primo ha dato lallarme, torna a ripetere che la crisi è molto più vicina di quanto la gente immagini e che le conseguenze saranno disastrose. Eppure i grandi finanzieri sono ottimisti come non mai. Soltanto cinque giorni prima del crack Thomas Lamont, a capo della Morgan Bank, scrive al presidente Hoover per rassicurarlo: "Il futuro è brillante, i titoli americani sono i più richiesti nel mondo". 


Arriva il 23 ottobre, le contrattazioni sono deboli e molti iniziano a pensare che sia prudente tirarsi fuori dal mercato. Il giorno successivo, il primo giovedì nero della storia, il mercato comincia a precipitare, in caduta libera. Scatta il panico. Una folla minacciosa e rumorosa si raccoglie fuori dalla Borsa. Ma anche in quel giovedì nero sembra ci sia un barlume di speranza. Gli occhi sono tutti puntati su un palazzetto poco distante, la House of Morgan, e sul capo di quella banca, Thomas Lamont. I banchieri si riuniscono e decidono unaltra volta di immettere una gran quantità di denaro sul mercato per sostenere la borsa. Alle 13 e 30, con il panico alle stelle, il vice presidente della Borsa di New York, Richard Whitney, attraversa la sala della Borsa e ordina diecimila azioni della US Steel ad un prezzo molto più alto dellultima offerta e poi, strillando le sue offerte, compra pacchetti di azioni di tutti i titoli principali. Il segnale deve servire a calmare il panico e per quel giorno il rimedio riesce. Molti pensano che se i banchieri investono il loro denaro vuol dire che la crisi è stata scongiurata. Ma il lunedì successivo, dopo la pausa di riflessione del week end, le cose vanno male durante lintera seduta. 

Il giorno dopo, martedì 29 ottobre, è il giorno del crack. Impossibile arrestare gli eventi, tutti vogliono vendere, il valore delle azioni crolla verticalmente. Lillusione che aveva contagiato lintero popolo americano svanisce in pochi istanti. 

 
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TULIPOMANIA

Post n°1 pubblicato il 06 Agosto 2011 da bollafinanziaria
 
Foto di bollafinanziaria

La Bolla dei tulipani (in inglese anche tulipomania) è stata probabilmente la prima bolla speculativa documentata nella storia del capitalismo. Nella prima metà del XVII secolo, nei Paesi Bassi la domanda di bulbi di tulipano raggiunse un picco così alto che ogni singolo bulbo di tulipano raggiunse prezzi enormi.

Il tulipano, introdotto in Europa nella metà del XVI secolo,

I tulipani arrivarono in Olanda nel 1562, con un carico giunto da Costantinopoli. (il nome occidentale è una corruzione del turco tulband, che significa turbante). Linteresse per questo fiore dalle diverse colorazioni (ne esistono circa 160) divenne una vera e propria mania che negli anni si trasformò in una smodata e insensata ricerca degli esemplari più  rari. Maturò lidea che tali fiori fossero pregiati, e qualcuno cominciò a suggerirne lacquisto in unottica speculativa, considerato che il prezzo andava aumentando col tempo (un po come avviene per i metalli preziosi o gli oggetti darte).

Pare che gran parte della speculazione fosse dovuta a delle vere e proprie opzioni sui tulipani: i commercianti compravano i diritti di aumentare le loro giacenze a un prezzo prefissato e i coltivatori, per proteggersi da cadute dei prezzi, pagavano per assicurarsi di poter vendere alla controparte a un certo prezzo.

 ebbe una crescente popolarità in Olanda, scatenando la "gara" fra i membri della middle class a superarsi l'un l'altro nel possesso dei tulipani più rari. I prezzi arrivarono a livelli insostenibili. La coltivazione del tulipano fu presumibilmente iniziata nei Paesi Bassi nel 1593. Questo fiore divenne rapidamente una merce di lusso e uno status symbol. I bulbi di tulipano più rari erano già quotati alla Borsa di Amsterdam, che era appena stata fondata, nel 1613.

Alle varietà di tulipano erano assegnati nomi esotici, a volte venivano chiamate con nomi di ammiragli olandesi. Nel 1623, un singolo bulbo di una specifica qualità di tulipano poteva costare anche un migliaio di fiorini olandesi (il reddito medio annuo dell'epoca era di 150 fiorini). I tulipani erano scambiati anche con terreni, animali vivi, e case. Presumibilmente, un buon speculatore poteva anche guadagnare seimila fiorini al giorno.

Chrispijn Munting, cronista della Gazzetta di Harlem ( Amsterdam), così raccontava un fatto al quale aveva assistito un giorno del 1635:

"Oggi un contadino ha acquistato un singolo bulbo del raro tulipano chiamato Vicerè, pagando per esso: otto maiali, quattro buoi, dodici pecore, due carichi di grano, quattro carichi di segale, due botti di vino, quattro barili di birra, due barilotti di burro, mille libbre di formaggio, un letto completo di accessori, un calice d'argento e un vestito, per un valore totale di 2.500 fiorini". La somma che il contadino pagò per quel bulbo, al valore attuale, è di poco inferiore ai 30.000 euro.

Nel 1635 fu registrata una vendita per 100,000 fiorini. Per paragone, una tonnellata di burro costava circa 100 fiorini e "otto maiali grassi" costavano 240 fiorini. Un prezzo record fu pagato per il bulbo più famoso, il Semper Augustus, che era monopolio di Adriaen Pauw, borgomastro  e condirettore della Compagnia delle Indie che ne centellinava le vendite:  venduto ad Haarlem per 6000 fiorini. quota 6000 fiorini, che a quel tempo rappresentava il valore di circa 20 case di medie dimensioni. 1637 (circa 312.000 euro di oggi!).

Alcuni commercianti vendevano bulbi che erano stati appena piantati o quelli che avevano intenzione di piantare (sostanzialmente dei futures sui tulipani). 

Si creava così lingrediente base della bolla speculativa: la leva, un effetto moltiplicativo che consente di scommettere tanto impegnando poco denaro. Alla consegna nessun compratore avrebbe avuto il denaro per saldare tutti i conti ma, gli stessi compratori non intendevano richiederne la consegna: compravano i bulbi solo per rivenderli e lucrare sul prezzo. Un editto statale del 1610 aveva reso illegale questa pratica, definendola commercio del vento e rifiutandosi di riconoscere questo genere di contratti, ma la legislazione non riuscì comunque a far cessare questa attività. 

Si finì così per commerciare " tulipani di carta", vale a dire solo gli atti di acquisto, secondo il ben noto e rischioso gioco di Borsa. Le frodi, poi, erano all'ordine del giorno in quanto non si poteva certo stabilire dall'aspetto del bulbo se il tulipano sarebbe stato quello della qualità e specie dichiarati dal venditore.

el 1636, i tulipani erano scambiati nelle borse valori di numerose città olandesi. Questo incoraggiò tutti i membri della società al commercio di tulipani, molte persone vendevano e compravano immobili o altri possedimenti per poter speculare sul mercato dei tulipani. Alcuni speculatori fecero grandissimi profitti.

A settembre del 1636 i prezzi iniziarono a salire vertiginosamente. Landamento rialzista proseguì nei mesi di novembre, dicembre e gennaio raggiungendo valori esorbitanti. Il crollo arrivò nel febbraio del 1637. A quel punto i commercianti di tulipani cominciarono a vendere, non tanto per una previsione di tipo ribassista sul futuro andamento del prezzo di mercato, quanto per lesigenza, finalmente, di monetizzare il loro investimento. Daltronde, i prezzi dei tulipani avevano raggiunto livelli tali da scoraggiare la maggior parte (se non tutti) gli investitori dallentrare sul mercato. Si incominciò a pensare che la domanda di tulipani non avrebbe potuto più mantenersi a quei livelli, e questa opinione si diffuse man mano che aumentava il panico e quindi le vendite. Nel breve volgere di sei settimane i prezzi crollarono del 90%

i bulbi di tulipano presto scesero a meno di un euro cadauno. Immaginate di aver speso 50.000 euro per un bulbo e di vedere ridursi il suo valore a un solo euro nel giro di pochi giorni!.

Alla fine alcuni detenevano contratti per comprare tulipani a prezzi dieci volte maggiori di quelli di mercato, mentre altri possedevano bulbi che valevano un decimo di quanto li avevano pagati. Centinaia di olandesi, inclusi uomini di affari e dignitari, erano finanziariamente rovinati. Il governo olandese fece dei tentativi di risolvere la situazione che accontentassero le varie parti in causa, ma non ebbero alcun successo. In sostanza ciascuno rimase nella situazione finanziaria in cui si trovava alla fine del crollo e nessuna corte poteva esigere che i contratti venissero onorati, perché non legali.

Le grandi bolle speculative necessitano di un particolare clima per svilupparsi. La crisi dei tulipani esplode in concomitanza di due tragici eventi. Il primo è la guerra; infatti, la crisi scoppia poco dopo la conclusione della guerra di indipendenza olandese dalla Spagna. Il secondo tragico evento è la peste, che falcidia la popolazione. Queste due tragedie comportano, da una parte, lottimismo per la fine della guerra che determina una grande predisposizione alla speculazione e, dallaltra parte, il fatalismo indotto dallepidemia di peste che aggiunge una minore avversione al rischio al quadro generale.

Inoltre, in questo periodo, vengono introdotte delle innovazioni nel campo marittimo che portano lOlanda, teatro della crisi, tra il 1620 e il 1645, a diventare lindiscusso leader del commercio internazionale grazie alla sua imponente flotta. Lenorme massa di denaro ricavato dal commercio necessitava quindi di qualcosa (forse qualsiasi cosa) nella quale essere investito.La bolla dei tulipani viene considerata la prima grande bolla di cui abbiamo ricostruzioni ed analisi certe. Si tratta di una bolla che ha lasciato nelleconomia unimpronta estremamente profonda. Dopo la grande crisi del 29, quanto ad importanza, viene la crisi dei tulipani. Come spesso accade, ogniqualvolta si verifica una crisi finanziaria di notevoli dimensioni, essa entra nel sentimento delle persone e da questo scaturiscono poi dei romanzi simbolo della crisi stessa. Ne è un esempio calzante Il Tulipano Nero di Alexandre Dumas padre. Nel romanzo lo scrittore narra la situazione della popolazione colpita molto duramente dalla crisi.

Ogni crisi matura in un ambiente generale particolare; la crisi del 29 avviene al momento culminante di una psicosi collettiva americana, così come anche la più recente crisi del Nasdaq.

La crisi dei tulipani avviene allintersezione e al sovrapporsi di due tragici eventi che creano una forma ambivalente della psiche umana. Il primo evento che provoca tale fenomeno è la guerra; infatti, la crisi scoppia poco dopo la conclusione della cosiddetta Guerra dei Centanni e di unaltra guerra di religione chiamata Guerra dei Trentanni. Il secondo tragico evento, che porta anche una certa ventata di fatalismo, è lavvento della peste che falcidia la popolazione. Lintersezione di queste due tragedie, oltre a ridurre sensibilmente la popolazione, comporta la manifestazione di due psiche contrapposte, da una parte lottimismo per la fine della guerra e dallaltra parte il pessimismo condito da fatalismo indotto dallepidemia di peste. Lottimismo determina una grande predisposizione alla speculazione; lottimismo è già di per sé una miscela che porta ad una esaltazione dello spirito speculativo, ma se ad essa si aggiunge la componente fatalistica si determina anche una minoreavversione al rischio.

In questo periodo vengono introdotte delle innovazioni nel campo marittimo che portano lOlanda, teatro della crisi, ad essere la superpotenza commerciale mondiale. Il 1600 è il secolo doro per lOlanda; in questo periodo lOlanda ha un impero commerciale che è più grande di quello complessivamente ottenuto unendo tutti quelli degli altri Paesi. Tra il 1620 e il 1645 diventa lindiscusso leader del commercio internazionale grazie alla sua imponente flotta.

Ecco alcune date significative della storia olandese:

1602: lOlanda crea la prima grande società per azioni, la Compagnia olandese delle Indie orientali;

1609: viene fondat la Banca centrale;

1622: viene creata la Compagnia olandese delle Indie occidentali;

1631: si inaugura il nuovo palazzo della Borsa di Amsterdam.

Vennero fatti tentativi di risolvere la situazione che accontentassero entrambe le parti, ma furono un insuccesso. In sostanza ciascuno rimase nella situazione finanziaria in cui si trovava alla fine del crollo: nessuna corte poteva esigere che i contratti venissero onorati, perché i giudici considerarono questi debiti come quelli contratti per gioco d'azzardo, e non erano esigibili con la forza sotto autorizzazione della legge.

Simili bolle dei tulipani ci furono anche in altri paesi d'Europa, ma mai di una dimensione pari a quella olandese. In Inghilterra nel 1800, il prezzo di un singolo bulbo di tulipano era di quindici ghinee. Somma che bastava ad assicurare ad un lavoratore e alla sua famiglia cibo, vestiti e alloggio per sei mesi.

Tale bolla è anche citata nel film del 2010 Wall Street: il denaro non dorme mai di Oliver Stone.


Ma quale correlazione sussiste tra la bolla dei tulipani e la crisi strutturale delleuro? Ebbene, la correlazione cè ed è data dal fatto che il circuito dellamoneta unica racchiude Paesi differenti tra di loro in termini non solo di tradizioni, ma anche di visione delleconomia, con la conseguenza che negli ultimi dieci anni, sfruttando proprio lombrello delleuro, si è andata a creare una sorta di bolla del benessere che ha interessato la Grecia, lIrlanda, la Spagna, ilPortogallo, e per molti aspetti anche il nostro Paese.


I greci, gli irlandesi, gli spagnoli ed i portoghesi negli ultimi due lustri hanno sfruttato la rete di protezione delleuro per poter vivere al di sopra delle proprie possibilità. Adesso in questa rete cè un buco, che si allarga sempre di più; i pesci che stanno scappando sono i grandi investitori, che preferiscono vendere il debito pubblico dei Paesi dellarea euro periferici per comprare il Bund, ma anche materie prime e metalli preziosi, dalloro allargento e passando per tutti quelli che sono i beni rifugio quando è scattato lallarme rosso.

 
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