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« la metà che manca

un saluto tra le mani

Post n°6 pubblicato il 05 Luglio 2006 da Be.Side
Foto di Be.Side

Un giorno di giugno ti ha portato via. Prima del mio saluto. Prima del mio prepararmi al non pensarti più qui.
Le tue gambe ormai così pesanti ti hanno regalato il passo più lungo.
Finche le persone non se ne vanno si ha l’illusione di poter ancora accedere al ricordo. Fino a quando la morte non lo consacra e lo allontana dal ritorno.

Il fresco delle tue stanze arredate di antico, le mie piccole dita a consumare i tasti della stessa canzone. Da quel pianoforte appoggiato al muro di un vecchio benessere, lo storpio delle mie note si univa al genuino dei tuoi fornelli, al cinguettare dei mille colori che raccoglievi in una gabbia. E l’estate fuori. Senza scuola e senza città.

Ti chiamavo zia. Non la mia ma di qualcuno più su di me nella genealogia diluita dagli anni. Lontana nel tempo vicina nel cuore, eri la zia dei nipoti che non hai mai avuto.

Il nostro parco giochi, trastullo di un branco di pesti, fatto di chiasso e di ginocchia sbucciate. Cresciuti sull’asfalto, assetati di un orizzonte tutto intero. Di un gioco all’aria aperta, nell’aia di un podere rosso di tufo. Terra da grattare alla terra.
Tu a coltivarla. A colmarne i vasi.
Noi a riempirci dei buffi sandali, bucati nel posto sbagliato.
Quando la morsa del caldo liberava qualche ora del pomeriggio, aspettavamo la gioia del clacson che prelude alla gita. Una giardinetta verde dal tetto ammainato era l’astronave per lo svago del giorno.

Tu ci insegnavi le piante. Noi il gioco.
Fatto di niente perché niente serviva alla fantasia. A noi cavalieri, astronauti, ammiragli. Un esercito di eroi dai pantaloncini corti.
Vestivi i fiori delle donne di un tempo. Ruvida di mani e di modi.
Il rosso allegro delle tue guance. Il bianco ed il nero dei tuoi capelli. Più un fastidio che un vezzo per le faccende del giorno. Il blu arrampicato sulle gambe di un sangue che già faticava a scendere. Pressata verso il basso scoppiavi nelle gambe per svuotarti il peso delle braccia. Dove la pelle avanzava a coprire l’osso.

Il sorriso pieno. Come il tuo viso dagli occhi piccoli e veloci. La voce tonda di un dialetto mai addomesticato e raccontato a noi deportati di città.
Tu e le tue primizie. Ci riempivi la bocca e ci guidavi il gusto per quei tesori dell’orto.

Arrivavi col profumo del tiglio, ma te ne sei andata prima della ginestra. Dondolando i tuoi passi incerti hai attraversato il solco che divide da chi resta.
Qui.
Con un saluto tra le mani.

 
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