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il lavoro educativo/1

Post n°14 pubblicato il 23 Settembre 2007 da Gipippa
 

“La mia identità
dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri.” 
(Taylor, 2005)*



 



 



La semplicità di questa frase stupisce quanto la sua
concretezza nell’ esperienza umana di ogni giorno. Con la forza di una verità
rivelata, ci mostra l’ovvietà del nostro essere esseri sociali, svelandoci una
delle chiavi di lettura più efficaci del nostro lavoro nel progetto
Biriciclabile, e in generale, dei rapporti che si costruiscono nella vita di
tutti i giorni.



La nostra esperienza ci ha mostrato come la connotazione
amicale del nostro gruppo (le persone abili e disabili che hanno iniziato questo
lavoro e ne fanno parte ad oggi) abbia significato la possibilità di creare
relazioni particolari, basate sullo scambio e la condivisione delle dinamiche di
gruppo. Basta pensare per esempio a questioni pratiche come il regolamento
interno scritto tutti insieme, la scelta dei turni o l’organizzazione di
incontri come nel caso del lavoro con gli Scout locali. Ma ancora di più, il
rapporto amicale diventa un valore aggiunto, nel confronto quotidiano con i
piccoli grandi problemi della scuola, delle relazioni amorose, i litigi, i
problemi, l’aiuto reciproco. Riconoscere a questi ragazzi il diritto di essere
normali, ha implicitamente valorizzato la fiducia sulla quale si sono costruiti
i rapporti. E questo a sua volta ci ha dato la possibilità di un confronto
dialogico, nel quale la messa in discussione delle categorie date, dei
comportamenti accettati e dei valori condivisi, hanno attivato un processo di
educazione informale continuo ed estremamente pratico. La partecipazione attiva
a questo percorso, ha restituito ad ognuno la possibilità di rielaborare la
propria identità, a partire dal proprio lavoro. La possibilità concreta di
mettersi alla prova, in un contesto in cui lo spazio e il tempo diventavano
funzionali alla persona, e non il contrario, ha restituito una dimensione
propria del vivere. In poche parole ha permesso ad ognuno di trovare il proprio
modo di essere e di esprimersi. Naturalmente questo va poi rivalutato alla luce
del peso di questa esperienza su ogni ragazzo, a partire dall’incisività
dell’intervento stesso, data dal rapporto quantitativo del tempo speso nel
progetto, con quello vissuto in altri contesti, e dalla particolare esperienza
biografica di ognuno, che modificano in modo importante le risposte
individuali. Ma anche il fatto di poter lavorare settimanalmente per un tempo
relativamente breve, ha rafforzato il carattere di gruppo e ha permesso di
valorizzare la diversità del nostro lavoro. La novità di potersi sentire
coinvolti e responsabili è diventata un appuntamento da non perdere. E la
partecipazione e la condivisione sono diventati i veri strumenti di
un’educazione alla normalità, che ha coinvolto tutte le persone che hanno
orbitato nel progetto. Perché come ho sentito dire da più parti, visto da
vicino nessuno è normale. Ma come aggiungerei io, visti da vicino tutti abbiamo
il desiderio di sentirci normali, accettati e soddisfatti di noi stessi.



 



Ora vorrei aprire in qualche modo la discussione chiedendo
se noi possiamo o meno definirci educatori, e in che senso. Personalmente
ritengo che tutte le persone che hanno gestito l’officina e il servizio di
prestito, abbiano ricoperto questo ruolo, in quanto esempio, riferimento, ma
allo stesso tempo facilitatori, giudici e arbitri delle dinamiche di gruppo. Il
fatto di avere in mente un percorso, di conoscere i limiti e le difficoltà dei
ragazzi, e di mettere alla prova sé stessi e loro, di sfidare il concetto
proprio di normalità, di mettere in discussione le categorie e il metro di
giudizio, ci ha resi molto più educatori di quanto magari non avremmo voluto.
Naturalmente poi ognuno ha avuto un ruolo diverso nei confronti dei ragazzi, e
quindi una diversa presa su di loro, il che ha fatto variare notevolmente
l’efficacia degli interventi. Ma ciò in fondo succede anche all’interno di un
gruppo di amici, come di una famiglia. Per cui la mia risposta è si, siamo
educatori fin dove lavoriamo e ci impegniamo per costruire un vivere comune,
delle regole e dei valori nei quali rispecchiarci. Questo non vuol dire che
salveremo qualcuno o che possiamo guarire qualcun altro, ma al limite che
cercheremo di trovare il modo per farlo sentire un po’ più normale.   



 



*Taylor, 2005, Multiculturalismo - Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli

 
 
 
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