Creato da penelope3000 il 12/07/2008

MONDO GATTO

A PASSEGGIO TRA I GATTI NEI SECOLI

 

Greta Garbo

Post n°13 pubblicato il 01 Agosto 2010 da penelope3000
 

Greta Lovisa Gustafsson, vero nome di Greta Garbo, nasce il 18 settembre 1905 a Stoccolma. Bambina timida e schiva, predilige la solitudine e, benché integrata e piena di amici, preferisce fantasticare con la mente, tanto che alcuni giurano averla sentita affermare, già in tenera età, che fantasticare fosse "molto più importante che giocare". Lei stessa in seguitò affermerà: "Un momento ero felice e l'attimo dopo molto depressa; non ricordo di essere stata davvero bambina come molti miei altri coetanei. Ma il gioco preferito era fare teatro: recitare, organizzare spettacoli nella cucina di casa, truccarsi, mettersi addosso abiti vecchi o stracci e immaginare drammi e commedie".
A quattordici anni la piccola Greta è costretta ad abbandonare la scuola per via di una grave malattia contratta dal padre. Nel 1920, poco prima della morte del genitore, Greta lo accompagna in ospedale per un ricovero. Qui è costretta a sottostare ad una serie estenuante domande e di controlli, volti ad accertare che la famiglia fosse in grado di pagare la degenza. Un episodio che fa scattare in lei la molla dell'ambizione. In una chiacchierata col commediografo S. N. Bherman, infatti, confesserà: "Da quel momento decisi che dovevo guadagnare tanti soldi da non dover mai più essere sottoposta a una umiliazione simile".
Dopo il decesso del padre la giovane attrice si ritrova in ristrettezze economiche non indifferenti. Pur di tirare a campare fa un po' di tutto, accettando quello che capita. Lavora in un negozio di barbiere, mansione tipicamente maschile, ma resiste poco. Abbandonato il negozio trova un impiego come commessa ai grandi magazzini PUB di Stoccolma dove, è proprio il caso di dirlo, il Destino era in agguato.
Nell'estate del 1922 il regista Erik Petschler entra nel reparto di modisteria per acquistare cappelli per il suo prossimo film.  E' la stessa Greta a servirlo, grazie ai modi gentili e disponibili della Garbo, i due entrano subito in sintonia e diventando amici. Inutile dire che da subito la Garbo chiede di poter partecipare in qualunque modo ad uno dei film del regista, ricevendone un assenso inaspettato. Domanda così alla direzione dei PUB un anticipo di ferie che le viene però negato; decide allora di licenziarsi, pur di seguire il suo sogno.
Certo, gli inizi non sono entusiasmanti, dopo una serie di fotografie pubblicitarie, la sua prima apparizione cinematografica la vede in una modesta parte di "bellezza al bagno" nel film "Peter il vagabondo", passando praticamente inosservata, ma la Garbo non si arrende. Si presenta invece all'Accademia Regia di Norvegia con la speranza di passare il difficile test di ingresso che permette di studiare gratis tre anni drammaturgia e recitazione.
Il provino riesce, entra nell'Accademia e dopo il primo semestre è scelta per un provino con Mauritz Stiller il più geniale e famoso regista svedese del momento. Notevolmente eccentrico e trasgressivo, Stiller sarà il maestro e il mentore, il vero e proprio pigmalione che lancerà la Garbo, esercitando una profonda influenza e una altrettanto profonda presa emotiva su di lei. La spiegazione risiede anche nella differenza di età, quasi vent'anni. La giovane attrice ha infatti poco più di diciotto anni, mentre Stiller ha superato la quarantina. Fra l'altro, risale a questo periodo il cambiamento di nome dell'attrice che, sotto la spinta sempre di Stiller, abbandona il difficile cognome Lovisa Gustafsson per diventare definitivamente Greta Garbo.
Con il nuovo pseudonimo si presenta a Stoccolma per la prima assoluta di "La Saga di Gosta Berlin", pièce tratta dal romanzo di Selma Lagendorf, rappresentazione che riscuote un buon apprezzamento da parte del pubblico ma non altrettanto dalla critica. Il solito, vulcanico, Stiller però non si arrende, decide di farne una prima rappresentazione anche a Berlino dove raccoglie finalmente un consenso unanime.
A Berlino Greta è apprezzata da Pabst che si accinge a girare "La via senza gioia". Il celebre cineasta le offre una parte, che rappresenta il definitivo salto di qualità: il film diventerà uno dei classici da antologia del cinema e proietta, di fatto, la Garbo verso Hollywood.
Una volta sbarcata in America, però, si metterà in moto un meccanismo perverso, alimentato soprattutto dai primi film, che tenderà ad etichettarla come "femme fatale" e ad inquadrare la sua personalità in schemi troppo rigidi. Da parte sua l'attrice chiedeva a gran voce ai produttori di essere svincolata da quell'immagine riduttiva, chiedendo ad esempio ruoli da eroina positiva, incontrando rigide e sarcastiche opposizioni da parte dei tycoon hollywoodiani. Questi erano convinti che l'immagine da "brava ragazza" non si addicesse alla Garbo, ma soprattutto non si addicesse al botteghino (un'eroina positiva, stando alle loro opinioni, non avrebbe attirato il pubblico).
Dal 1927 al 1937, dunque, la Garbo interpreta una ventina di film in cui rappresenta una seduttrice destinata a una fine tragica: spia russa, doppiogiochista e assassina in "La donna misteriosa", aristocratica, viziata ammaliatrice che finisce per uccidersi in "Destino", donna irresistibile e moglie infedele in "Orchidea selvaggia", o "Il Bacio". Ancora, prostituta in "Anne Christie" ed etèra di lusso in "Cortigiana" e "Camille" (in cui interpreta il celebre e fatale personaggio di Margherita Gauthier). Finisce suicida in "Anna Karenina", fucilata come pericolosa spia e traditrice in "Mata Hari
". Sono ruoli di seduttrice fatale, misteriosa, altera e irraggiungibile, e contribuiscono in modo determinante a creare il mito della "Divina".
Ad ogni modo, la creazione della sua leggenda si è plasmata anche grazie ad alcuni atteggiamenti tenuti dall'attrice stessa ed assecondati, se non alimentati, dal mentore Stiller. Il set, ad esempio, era estremamente protetto, inaccessibile per chiunque (con la scusa di difendersi da voyeurismi e pettegolezzi), tranne che per l'operatore e gli attori che dovevano partecipare alla scena. Stiller arrivava al punto di recintare il set con una tenda scura.
Queste misure di protezione saranno poi sempre mantenute e pretese dalla Garbo. I registi, poi, in genere preferivano lavorare davanti alla macchina da presa e non dietro, ma la Garbo esigeva che stessero ben nascosti dietro la cinepresa.
Nei luoghi di ripresa non erano ammessi neppure grandi nomi dell'epoca o i capi della produzione. Inoltre, appena si accorgeva che qualche estraneo la guardava smetteva di recitare e si rifugiava nel camerino. Di certo non sopportava lo "Star System", a cui non si sarebbe mai piegata. Detestava la pubblicità, odiava le interviste e non sopportava la vita mondana. In altre parole, seppe proteggere con caparbietà la sua vita privata fino alla fine. Proprio la sua riservatezza, quel qualcosa di misterioso che la circondava e la sua bellezza senza tempo, fecero nascere la leggenda Garbo.
Il 6 ottobre 1927 al Winter Garden Theatre a New York il cinema, che fino a quel momento era stato muto, introduce il sonoro. Il film che si proietta quella sera è "Il cantante di jazz". I soliti profeti di sventura profetizzano che il sonoro non durerà, e tanto meno la Garbo. In effetti, dopo l'avvento del sonoro la Garbo interpreterà ancora sette film muti, perché il direttore della Metro era un conservatore ostile all'introduzione delle nuove tecnologie, e quindi ostile anche al sonoro.
La "Divina" tuttavia si ostina ugualmente a studiare l'inglese e a migliorare il suo accento, nonché ad arricchire il suo vocabolario.
Eccola infine comparire in "Anna Cristie" (da un dramma di O'Neill), del 1929, il suo primo film sonoro; si racconta che quando nella famosa scena, Greta/Anna entra nello squallido bar del porto, stanca e sorreggendo una sgangherata valigia, pronunciando la storica frase "...Jimmy, un whisky con ginger-ale a parte. E non fare l'avaro, baby...", tutti trattennero il respiro, compresi elettricisti e macchinisti, tale era il seducente alone di mistero che ammantava la "Divina".
Nel 1939 il regista Lubitsch cercando di valorizzarla maggiormente sul piano artistico, le affida il ruolo della protagonista in "Ninotchka", un bellissimo film in cui, fra l'altro, l'attrice per la prima volta ride sullo schermo (la pellicola è infatti lanciata con scritte a caratteri cubitali sui cartelloni in cui si prometteva "La Garbo ride"). Scoppiata la guerra l'insuccesso di "Non tradirmi con me", di Cukor
(1941) l'induce, a soli 36 anni ad abbandonare per sempre il cinema, in cui è tuttora ricordata come il prototipo leggendario della diva e come un eccezionale fenomeno di costume.
Vissuta sino a quel momento nel più assoluto riserbo e nella più totale distanza dal mondo, Greta Garbo muore a New York, il 15 aprile 1990, all'età di 85 anni.
Da segnalare il memorabile saggio che il semiologo Roland Barthes ha dedicato al volto di Greta Garbo, contenuto nella sua silloge di scritti "Miti d'oggi", una delle prime e più acute ricognizioni di quello che si cela dietro i simboli, i miti e i feticci costruiti da e per i media (e non solo).


 

 
 
 

ONDINE

Post n°12 pubblicato il 20 Luglio 2010 da penelope3000
 

 

“Ondine” o “La Naiade” è un balletto in sei scene che nasce dalla fantasia della coppia Jules Perrot e Fanny Cerrito e non ha niente a che fare con il racconto di De la Motte Fouqué , “Undine”, che invece ispirò il balletto di Ashton. Messo in scena per la prima volta il 22 giugno 1843 fu celebrato non solo per la grazia delle musiche ma soprattutto per la drammaticità e il virtuosismo interpretativo della Cerrito, che eccelleva nel “pas de l’Ombre”.

Nel 1851 il balletto fu riallestito da Perrot in Russia, a Peterhof presso la residenza dello Zar, con Carlotta Grisi come protagonista. In quell’occasione il palcoscenico fu allestito sulle acque del lago e le Naiadi facevano la loro comparsa sulla scena avanzando su barche a forma di conchiglia.

Nel 1874 e in seguito nel 1892 fu Marius Petipa a riproporre il balletto modificando progressivamente la coreografia originale e assegnando il ruolo di Ondine all’ultima grande interprete: Mathilda Kshessinkaja. Recentemente Pierre Lacotte ha riproposto la sua versione di Ondine al Teatro Marinsky dando vita a una coreografia che poco ha potuto attingere dalle versioni di Perrot e Petipa per mancanza della documentazione originale, ma ha preso spunto dalle atmosfere di Bournonville ricostruendo un balletto che mescola stili e variazioni che spaziano dalle tarantelle in stile napoletano dei pescatori a quelle romantiche ed eleganti delle Naiadi.

La trama vuole che su una spiaggia siciliana paesani e pescatori stiano preparandosi a festeggiare la Madonna: Matteo, giovane pescatore innamorato di Giannina con la quale convolerà a nozze il giorno successivo alla festa, invita tutti gli amici al matrimonio. Dopo i complimenti agli sposi e una danza festosa tutti partono per il paese dove si terrà la festa religiosa, solo Matteo si trattiene sulla spiaggia per pescare un pesce per la cena. Quando lancia la sua rete in mare, dall’acqua emerge una conchiglia al cui interno si cela una bellissima creatura che spesso Matteo aveva visto nei suoi sogni.
E’ una Naiade: il suo nome è Ondine, è innamorata del giovane pescatore e
a lui si palesa per chiederne l’amore. Matteo la respinge ma questa lo seduce con una danza e lo spinge a seguirla fin su un’alta roccia da cui, buttandosi giù, lo invita a fare altrettanto. L’intervento di alcuni pescatori che trattengono Matteo, però, spezza l’incantesimo. In paese, intanto, Giannina e sua madre Teresa sono in attesa di Matteo nella sua capanna. Quando questi torna, racconta la sua esperienza con la Naiade: Giannina, rattristata, sta filando la seta aiutata dal giovane quando, all’improvviso, si spalanca la finestra come aperta da un forte vento ed entra Ondine.

Ondine, stizzita dall’amore del giovane per Giannina, si è resa visibile solo a Matteo e tenta di sedurlo convincendolo a gettarsi con lei dalla finestra aperta ma Giannina, accortasi del cambiamento del giovane rimprovera il fidanzato di incostanza proprio il giorno antecedente le loro nozze. Solo Teresa riesce a mettere pace tra i due giovani. Rimasto solo Matteo si addormenta in poltrona e Ondine, decisa a conquistarlo ad ogni costo gli appare in sogno per mostrargli il meraviglioso mondo marino cui appartiene.

La scena onirica si svolge all’interno di una caverna sottomarina: Ondine compare in mezzo tra Naiadi con i capelli sciolti, vestite con abiti azzurri su cui spiccano splendidi monili di corallo e danza per lui in un “pas de six”. Sicura di averlo conquistato si getta ai suoi piedi quando Hidrola, sua madre e regina delle acque, la ammonisce circa la fragilità umana cercando di dissuaderla dal proposito, ma Ondine cogliendo una rosa le risponde che preferirebbe appassire prima di rinunciare al suo amore per Matteo. Intanto si è giunti alla vigilia delle nozze: in paese la festa è al culmine e dopo le preghiere tutti danzano un’animata tarantella che s’interrompe solo al suono della campana del Vespero che riporta tutti alla preghiera. Mentre tutti sono inginocchiati, assorti nella preghiera, Ondine emerge dalla fontana posta accanto all’altare; Matteo tenta di raggiungerla ma Giannina che nota la sua agitazione lo riprende esortandolo a pregare. La festa prosegue fino al tramonto poi i due giovani tornano a casa: stanno per mettere la barca al riparo quando Ondine getta Giannina nell’acqua prendendone il posto e le sembianze.

Qui si apre la danza del celebre “pas de l’ombre” che Ondine balla dopo aver guardato il riflesso della sua nuova ombra umana sul terreno. Giannina, però, non è morta: soccorsa dalle Naiadi è stata portata al palazzo della regina Hidrola. Ondine/Giannina nel frattempo dorme e Hidrola di soppiatto la veglia con tristezza, svanendo nel momento in cui la giovane apre gli occhi: Ondine si sveglia stanca, esausta. Non è abituata al nuovo corpo e prega sua madre: questa la esorta a lasciare il suo stato mortale prima che sia troppo tardi ma al rifiuto della giovane sparisce di nuovo.

Il giorno delle nozze è giunto: Teresa e Matteo raggiungono Ondine a casa e qui i due giovani sposi danzano il “pas de la rose fletrie” una vivace tarantella. La danza porta Ondine, già molto affaticata, allo stremo delle forze tanto che Matteo si dichiara preoccupato di sposare una ragazza troppo debole.

Inizia il corteo nuziale ma la Naiade, sempre più debole, cammina con difficoltà aiutata da Matteo. Hidrola e le Naiadi cercano di salvare Ondine restituendo il proprio corpo a Giannina e Matteo riconoscendola finalmente come la vera amata è nuovamente felice mentre Ondine , tornata immortale, viene portata in trionfo dalle Naiadi nella sua casa sotto il mare.

 

 
 
 

Helene Louise d'Orlénas

Post n°11 pubblicato il 20 Luglio 2010 da penelope3000
 

Era la terza degli otto figli del Principe Filippo, Conte di Parigi e di Maria Isabella d'Orléans. Elena era sorella tra gli altri di Amelia, Regina di Portogallo, Isabella d'Orléans, Duchessa di Guisa e di Ferdinando, duca di Montpensier. Suo padre era nipote di Luigi Filippo di Francia, ed era stato erede dal 1842 al 1848. I genitori di Elena speravano che ella avrebbe sposato un erede al trono. I suoi fratelli avevano fatto buoni matrimoni: compreso Amelia, Regina di Portogallo, Isabella d'Orléans, Duchessa di Guisa. Ci furono voci rampante di vari corteggiatori che portano al suo eventuale matrimonio nel 1895.

I suoi pretendenti furono senza dubbio incoraggiati dal fatto che Elena era considerata una grande bellezza per quei giorni. Una fonte contemporanea ha dichiarato che era "la personificazione della salute e della bellezza femminile, che si distingue come un atleta grazioso e affascinante linguista". Elena era innamorata del Principe Alberto Vittorio, duca di Clarence e Avondale (figlio maggiore del futuro Edoardo VII, e nipote dell'allora regnante monarca la Regina Vittoria), ma furono costretti a porre fine alla loro relazione a causa della disapprovazione di varie parti coinvolte. In un primo momento la regina Vittoria si oppose a qualsiasi fidanzamento perché Elena era cattolica. Vittoria scrisse a suo nipote suggerendo, come una valida alternativa, un'altra dei suoi nipoti, la Principessa Margherita di Prussia, ma nulla ne fece il suo suggerimento. Una volta che la coppia le confessò il proprio amore, la regina cedette e appoggiò il matrimonio. Elena offrì di convertirsi e Alberto Vittorio offrì di rinunciare ai suoi diritti di successione per sposarla. Sua madre la Principessa di Galles simpatizzava per la loro difficile situazione e approvò il loro rapporto. Per la delusione della coppia, il padre di Elena rifiutò di dare il suo consenso al matrimonio. Egli fu irremovibile che non poteva convertire. Elena si recò personalmente per intercedere presso Papa Leone XIII, ma questi confermò il verdetto di suo padre e l'affare fu chiuso.

Alberto Vittorio in seguito si fidanzò con la Principessa Mary di Teck, ma morì prima che il matrimonio potesse aver luogo. Successivamente fu lo zar Alessandro III di Russia ad interessarsi di Elena come possibile moglie per suo figlio Nicola, ma quest'ultimo era già innamorato di Alice d'Assia e del Reno e rifiutò. Vi erano grandi speranze che Elena avrebbe sposato il figlio ed erede di Umberto I di Italia, il principe di Napoli. Alcuni anni prima del suo matrimonio con il Duca d'Aosta, Elena si recò a Napoli con la speranza di attirare l'attenzione del re e regina. Nessuna corrispondenza si è verificato comunque, e Umberto si fidanzò con la principessa Elena del Montenegro nel 1896. Il 25 giugno 1895 Elena sposò Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Ebbe due figli:

Amedeo di Savoia, terzo duca d'Aosta

Aimone di Savoia, quarto duca d'Aosta

Durante la prima guerra mondiale fu ispettrice generale delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana, ricevette una medaglia d'argento al valor militare, tre croci al merito di guerra ed il suo operato ispirò a Gabriele d'Annunzio la sesta delle Canzoni d'Oltremare ("La canzone di Elena di Francia"): "...E quegli ch'ebbe stritolato il mento/dalla mitraglia e rotta la ganascia,/e su la branda sta sanguinolento/e taciturno, e i neri grumi biascia,/anch'egli ha l'indicibile sorriso/all'orlo della benda che lo fascia,/quando un pio viso di sorella, un viso/d'oro si china verso la sua guancia,/un viso d'oro come il Fiordaliso./Sii benedetta, o Elena di Francia,/nel mar nostro che vide San Luigi/armato della croce e della lancia". Successivamente, Elena fondò l'Opera Nazionale di Assistenza all'Italia Redenta e viaggiò a lungo in Africa, Asia, ed Australia. Dai suoi viaggi intorno al mondo trasse l'ispirazione per molti libri: "Viaggi in Africa", "Verso il sole che si leva", "Vita errante", "Attraverso il Sahara". Soggiornò a lungo col marito nella Reggia di Capodimonte a Napoli, influendo notevolmente sulla vita intellettuale della città partenopea. Rimasta vedova, visse ritirata sempre a Capodimonte. Morì a Castellammare di Stabia nel 1951. È sepolta nella Basilica dell'Incoronata Madre del Buon Consiglio di Napoli insieme alla nuora Anna d'Orléans, moglie del suo figliolo primogenito, Amedeo. Il suo funerale, tanta fu la partecipazione dei napoletani, si trasformò in un trionfo di popolo.

Il cognato Luigi Amedeo di Savoia-Aosta battezzò in suo onore una delle cime delle Grandes Jorasses, salita nel 1898.

La città di Napoli ha intitolato alla principessa l'Asilo infantile "Elena d'Aosta" e l'ospedale "Elena d'Aosta".


 
 
 

PAPA PIO VII

Post n°10 pubblicato il 13 Luglio 2010 da penelope3000
 

Nacque a Cesena, penultimo figlio del conte Scipione Chiaramonti e di Giovanna Coronata dei marchesi Ghini, donna di profonda religiosità che entrerà in seguito tra le monache carmelitane a Fano. Al contrario dei suoi fratelli, non completò gli studi nel Collegio dei nobili di Ravenna ma, all'età di 14 anni, entrò nel monastero benedettino di Santa Maria del Monte nella sua città natale, prendendo il nome di Gregorio. I suoi superiori, resisi conto delle capacità del giovane, lo inviarono prima a Padova e successivamente a Roma al collegio di Sant'Anselmo, nell'abbazia di San Paolo fuori le mura, perché si perfezionasse nello studio della teologia. Divenuto professore di teologia, cominciò a insegnare nei collegi dell'ordine a Parma e a Roma. Nel febbraio 1775, con l’elezione a papa del concittadino Angelo Braschi, fu nominato priore dell’Abbazia benedettina di San Paolo a Roma. Il 16 dicembre 1782, Pio VI lo nominò vescovo di Tivoli. Il 14 febbraio 1785, per l'eccellente condotta tenuta in questa carica, ricevette la porpora cardinalizia e l'episcopato di Imola. Qui venne ricordato soprattutto per il suo carisma personale e per il suo amore per la cultura. Chiaramonti non faceva mistero di possedere nella sua biblioteca perfino l’Enciclopedia di d'Alembert, del resto erano note le sue aperture alle idee moderne.  Nel 1797 suscitò scalpore una sua omelia, pronunciata nella cattedrale di Imola, in cui sosteneva la conciliabilità del Vangelo con la democrazia: “Siate cristiani tutti d’un pezzo e sarete anche dei buoni democratici”. Alla morte di Pio VI, il Sacro Collegio convocato dal decano cardinal Giuseppe Albani, si riunì in conclave a Venezia sotto ospitalità austriaca, poiché in quel periodo Roma era occupata dalle truppe francesi. Prima ancora che iniziasse il conclave, la situazione politica a Roma era mutata. Il 19 settembre 1799 i francesi avevano abbandonato l'Urbe; il 30 settembre la città era stata occupata dai napoletani, che avevano posto fine alla Repubblica Romana. I cardinali, appena 35, quasi tutti italiani, si riunirono il 30 novembre 1799 nel monastero di San Giorgio. Ben presto i voti si concentrarono su due candidati: il card. Mattei, arcivescovo di Ferrara, anti-francese, e il card. Bellisomi, vescovo di Cesena, la cui posizione era più conciliante. Passarono tre mesi interi senza che si delineasse una soluzione. Per uscire dall'empasse, monsignor Ercole Consalvi, il segretario del conclave, propose un terzo candidato: il vescovo di Imola, Barnaba Chiaramonti. In poco tempo i voti convogliarono su di lui. Anche il cardinale e arcivescovo francese Maury ebbe un ruolo decisivo nella sua elezione. Il 14 marzo 1800 Chiaramonti fu eletto papa all'unanimità. L'imperatore d'Austria chiedette al nuovo pontefice la cessione delle Legazioni di Bologna, Ferrara Imola e Ravenna. Pio VII rispose negativamente alle pretese imperiali; decise peraltro di conservare il titolo di vescovo di IMola. Francesco II, contrariato, vietò l'incoronazione del papa nella basilica di San Marco. Pio VII fu incoronato nella Basilica di San Giorgio Maggiore. Il nuovo pontefice si trattenne nel Veneto per alcuni mesi, durante i quali visitò quasi tutte le chiese e ricevette l'omaggio di tutte le congregazioni religiose; durante tale periodo effettuò una visita a Padova, dove era stato da giovane a Santa Giustina. Malgrado la contrarietà dell'imperatore d'Austria, si impose a questi nel suo desiderio di indipendenza e di andare a Roma. Fatta rotta da Venezia a Pesaro sulla fregata austriaca "Bellona", raggiunse la città eterna seguendo il percorso della via Flaminia. A Fano rese omaggio alle spoglie di sua madre nel Carmelo. In luglio il pontefice fece finalmente il suo ingresso a Roma, accolto dalla nobiltà romana e dal popolo in tripudio. Trovò le casse dello stato vuote: il poco che i francesi avevano lasciato era stato finito dai napoletani. In agosto nominò Consalvi, cui in gran parte doveva la tiara, Cardinale diacono e Segretario di stato, per poi iniziare ad occuparsi alacremente delle riforme amministrative, divenute ormai improrogabili. Nella scelta del nuovo segretario Pio VII non si fece influenzare dalle potenze straniere, specialmente dall'Impero austriaco, che voleva fosse nominato un prelato di suo gradimento. La sua attenzione si concentrò subito sullo stato di anarchia in cui versava la chiesa francese la quale, oltre ad essere travagliata dal vasto scisma causato dalla costituzione civile del clero, aveva a tal punto trascurato la disciplina che gran parte delle chiese era stata chiusa, alcune diocesi erano prive di vescovo, mentre altre ne avevano addirittura più di uno, mentre il giansenismo e la pratica del matrimonio degli ecclesiastici si stavano diffondendo, e fra i fedeli serpeggiavano l'indifferenza se non, addirittura, l'ostilità. Incoraggiato dal desiderio di Napoleone di ristabilire il prestigio della Chiesa cattolica in Francia, Pio VII negoziò il famoso Concordato del 1801, sottoscritto a Parigi il 15 luglio e successivamente ratificato il 14 agosto 1801. L'importanza di questo accordo fu tuttavia notevolmente stemperata dai cosiddetti articoli organici aggiunti dal governo francese l'8 aprile 1803. La Francia, comunque, ritrovò la libertà di culto che la rivoluzione aveva soppresso. Nel 1804 Napoleone iniziò a trattare con il papà la propria formale e diretta investitura come Imperatore. Dopo alcune esitazioni Pio VII si lasciò convincere a celebrare la cerimonia nella cattedrale di Notre Dame e a prolungare la sua visita a Parigi per altri quattro mesi ma, contrariamente alle sue aspettative, ne ricevette in cambio solo pochissime concessioni, e di secondaria importanza. Rientrato a Roma il 16 maggio 1805, fornì al collegio cardinalizio, convocato allo scopo, una versione ottimistica della sua visita. A proposito di questo episodio, riferendosi alla morte in cattività di Pio VI, Pasquino commentò: per mantener la fede un Pio perdé la Sede, per mantener la Sede un Pio perdé la fede. Nonostante ciò lo scetticismo prese presto il sopravvento quando Napoleone cominciò a non rispettare il concordato del 1803, arrivando al punto di pronunciare d'autorità lui stesso l'annullamento del matrimonio del fratello Girolamo con la moglie, un'americana di Baltimora. L'attrito fra la Francia ed il Vaticano montò così rapidamente che il 2 febbraio 1808 Roma fu occupata dal generale Miollis e, un mese più tardi, le province di Ancona, Macerata, Pesaro e Urbino furono annesse al Regno d'Italia. Rotte le relazioni diplomatiche fra Napoleone e Roma, con un decreto emesso a Schönbrunn l'11 maggio 1809 l'imperatore annetteva definitivamente tutti i territori dello Stato Pontificio. Per ritorsione, Pio VII, pur senza nominare l'imperatore, emise una bolla di scomunica contro gli invasori; nel timore di un'insurrezione popolare il generale Miollis, di propria iniziativa, come sostenne Napoleone in seguito o, più probabilmente, per ordine del generale Radet, prese in custodia il papa stesso. Nella notte del 5 luglio il Palazzo del Quirinale fu aperto con la forza e, in seguito all'ostinato rifiuto di annullare la bolla di scomunica e di rinunciare al potere temporale, il Pontefice fu arrestato e tradotto prima a Grenoble ed in seguito, passando per il colle di Tenda, Cuneo e Mondovì, a Savona. Qui egli si rifiutò con fermezza di convalidare l'investitura dei vescovi nominati da Napoleone e, quando i francesi scoprirono che il papa intratteneva segreti scambi epistolari, gli fu addirittura proibito di leggere e scrivere. Alla fine, con i nervi scossi dall'insonnia e dalla febbre, gli fu estorta la promessa verbale di riconoscere l'investitura dei vescovi francesi. Nel maggio 1812 Napoleone, con il pretesto che gli inglesi avrebbero potuto liberare il papa se questi fosse rimasto a Savona, obbligò il vecchio e infermo pontefice a trasferirsi a Fontainebleau, vicino a Parigi; il viaggio lo provò a un punto tale che al passo del Moncenisio gli fu impartita l'estrema unzione. Superato il pericolo e giunto in salvo a Fontainebleau, fu alloggiato con tutti i riguardi nel castello per aspettarvi il ritorno dell'imperatore da Mosca. Appena rientrato, Napoleone intavolò immediatamente una serrata trattativa col papa che, il 25 gennaio 1813, accettò un concordato a condizioni tanto umilianti che non riuscì a darsi pace. Tanto che, su consiglio dei cardinali Bartolomeo Pacca e Ercole Consalvi lo rigettò tre giorni dopo, comunicando la sua decisione per iscritto all'Imperatore (che la tenne segreta) e, in seguito, pubblicamente il 24 marzo dello stesso anno. Nel mese di maggio, infine, osò sfidare apertamente il potere dell'imperatore dichiarando nulli tutti gli atti ufficiali compiuti dei vescovi francesi.

Dopo la sconfitta di Lipsia (19 ottobre 1813) e la conseguente entrata in territorio francese degli eserciti della coalizione nel gennaio 1814, Napoleone ordinò che il papa fosse ricondotto nella più sicura Savona, dove giunse il 16 febbraio. Il precipitare degli eventi e l'abdicazione del 17 marzo lo costrinsero il giorno stesso a liberarlo definitivamente ed a consentirgli di rientrare nello Stato Pontificio. Durante il rientro verso Savona, il papa soggiornò in diverse città, tra cui San Remo (in provincia di Imperia), dove fu ospite dei Marchesi Borea d'Olmo. Il 19 marzo Pio VII lasciò Savona e il 24 maggio fu accolto nella Città Eterna da una folla esultante. Il 7 agosto 1814, con la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum, il papa ricostituì la Compagnia di Gesù, mentre il Segretario di stato Consalvi, al Congresso di Vienna, si assicurava la restituzione di quasi tutti i territori sottratti allo Stato della chiesa. Successivamente veniva soppressa nello Stato pontificio la legislazione introdotta dalla Francia e venivano reintrodotte le istituzioni dell'Indice e dell'Inquisizione. A Roma, gli ebrei, che erano stati liberati dai francesi, vennero di nuovo confinati entro il perimetro del Ghetto, e vi dovettero restare fino al 1870. Al suo ritorno da Vienna, il Consalvi introdusse un'amministrazione più snella ed altamente centralizzata, basata in gran parte sul Motu Proprio Quando per ammirabile disposizione, emanato il 6 luglio 1816 da Pio VII.  Le novità più rilevanti riguardavano il sistema catastale e la nuova ripartizione territoriale dello Stato, suddiviso in tredici delegazioni e quattro legazioni, oltre al Distretto di Roma ribattezzato Comarca. Nonostante ciò, le casse dello stato erano in condizioni disastrose, mentre il malcontento si aggregava principalmente intorno alla Società segreta, di ispirazione liberale, dei Carbonari, messa all'indice dal papa nel 1821. Il capolavoro diplomatico del Consalvi fu una serie di concordati stipulati a condizioni particolarmente vantaggiose con tutti gli Stati di religione cattolica, ad eccezione dell'Impero austriaco. Negli ultimi anni del pontificato di Pio VII la città di Roma fu molto ospitale verso tutte le famiglie regnanti, i cui rappresentanti si recarono spesso a Roma; il pontefice fu particolarmente benigno verso i sovrani in esilio, dimostrando una notevole e singolare magnanimità anche nei confronti della famiglia di Napoleone. Notevole fu anche l'accoglienza riservata ai maggiori artisti dell'epoca, fra cui molti scultori. Un anno prima della morte eresse sul Pincio l’obelisco, rinvenuto nel XVI secolo e mai innalzato, che l’imperatore romano Adriano aveva fatto scolpire per l’amato e idolatrato Antinoo, annegato a vent’anni ed in seguito divinizzato.

Lo scultore protestante Thorvaldsen fu colui che costruì lo splendido mausoleo in cui furono deposte le spoglie dello stesso pontefice, che spirò il 20 agosto del 1823. I costi furono sostenuti dal Cardinal Consalvi e l'iscrizione ricorda l'affetto del porporato per il "suo" Papa: PIO VII  CLARAMONTIO CAESENATI PONTIFICI MAXIMO HERCULES CARD CONSALVI ROMANUS AB EO CREATUS.

  

 

 

 
 
 

MARIA DE' MEDICI (FRANS POURBUS IL GIOVANE)

Post n°9 pubblicato il 13 Luglio 2010 da penelope3000
 

 

 

Maria de’ Medici, figlia del granduca di Toscana Francesco I e di Giovanna d’Austria, nacque a Firenze il 26 aprile del 1573.  
Nel 1600 all’età di 27 anni, andò sposa al re di Francia, Enrico IV, vivente ancora la prima moglie, Margherita di Valois , donna bellissima e piena di fascino che dopo aver rifiutato lo scioglimento del matrimonio a favore di Gabrielle d’Estrées, amante di Enrico, lo accordò nel 1599 a favore di Maria.
Fu il Sully, ministro di Enrico IV e uomo non facile, l'artefice del matrimonio fu il primo ministro di Enrico IV, il protestante
Sully, che si rivolse al Papa per avere consiglio sulla scelta della futura regina solo per ingraziarsi i rapporti con la Chiesa, che dubitava della conversione del Re al cattolicesimo, e per contrastare l’intenzione del Re di sposare una delle sue amanti, Henriette d’Entragues, in cambio di un figlio. Il matrimonio era una faccenda di Stato, e doveva servire a qualcosa: la proposta del Pontefice fu Maria de’ Medici.
Il matrimonio si effettuò per procura a Firenze e solo successivamente Enrico incontrò Maria a Lione: la trovò troppo alta, troppo grossa e troppo autoritaria.
Nonostante ciò ebbero insieme sei figli, di cui uno morì molto presto: Luigi XIII, futuro erede al trono; Elisabetta, che sposò il re Filippo IV di Spagna; Maria Cristina che sposò Vittorio Amedeo I di Savoia; Gastone duca d’Orleans; ed Enrichetta Anna sposa del re Carlo I d’Inghilterra.
Quello di Maria non fu un matrimonio felice a causa delle innumerevoli infedeltà di Enrico che, nel frattempo, meditava una guerra contro gli Asburgo schierato dalla parte dei protestanti tedeschi, per una complicata successione nel piccolo principato di Clèves in Germania (guerra dei Trent'anni).
Nel maggio del 1610 il Re affidò la reggenza del trono a Maria per raggiungere l’esercito in guerra ma, pugnalato dal monaco Ravaillac un fanatico istigato probabilmente dai gesuiti, morì.
L’opera pacificatrice svolta da Enrico IV, guerriero insolente e libertino ma amato dal popolo,  e la sua morte improvvisa gettarono la Francia nella più completa divisione religiosa e Maria si trovò ad affrontare le stesse situazioni di Caterina de’ Medici, che l’aveva preceduta, senza averne le qualità, con un figlio di nove anni e con consiglieri sbagliati.
Il ministro Sully tentò di difendere l’ordine e il Tesoro ma senza riuscirvi, quindi si ritirò.
Maria dal canto suo cercò di condurre una politica filocattolica, spingendo sull’alleanza con la Spagna con la quale strinse dei legami di sangue combinando due matrimoni, quelli dei suoi due figli: Luigi XIII con l’Infanta di Spagna Anna d’Austria, ed Elisabetta con il futuro Filippo IV; tenne però lontano dagli affari di Stato il principe ereditario, anche quando questi raggiunse la maggiore età.
Luigi XIII non somigliava in nulla a suo padre e cresceva male, tribolato da mille afflizioni. Il rapporto tra Maria e il figlio fu sempre molto teso: Luigi covava dei rancori nei confronti della madre che lo considerava uno stupido e che riservava il suo affetto al secondogenito Gastone.
La Regina nel frattempo era in balia dei sui favoriti Concino Concini ed Eleonora Dori detta la “Galigai”. I due, marito e moglie, avevano fatto parte del seguito italiano della Regina all’epoca del suo matrimonio e a corte, dopo la morte di Enrico IV, erano diventati onnipotenti. In questo modo si erano attirati molte antipatie da parte dell’alta nobiltà. Eleonora soprattutto, dama di palazzo e intima amica della Regina, aveva un fortissimo ascendente su Maria; erano sorelle di latte e a Firenze erano cresciute insieme.
Luigi XIII, che intanto aveva raggiunto da tempo la maggiore età ma non aveva alcuna voce in capitolo, debuttò in politica, nel 1617, eliminando i due cortigiani: fece assassinare il Concini, e decapitare con l’accusa di stregoneria la Galigai, il cui corpo venne poi bruciato. Maria invece venne estromessa completamente dagli affari di governo e confinata nel castello di Blois, perché in urto con il favorito del Re e suo amante, il duca di Luynes.
Quando Luigi XIII, ruppe la tregua con gli ugonotti e mosse con l’esercito contro di loro senza riuscire ad espugnare La Rochelle, la Francia corse il rischio di dividersi di nuovo. Un gruppo di nobili fedeli a Maria de Medici, che intanto era “evasa dalla sua prigione” grazie ad una congiura  che ella stessa aveva organizzato, costrinse il Sovrano a richiamare in servizio un certo Richelieu, l’unico che potesse riconciliarlo con la madre e i nobili ribelli.
Richelieu all’epoca era un vescovo. Era stata Maria assieme al Concini, a “scoprirlo” e a portarlo giovanissimo alla Segreteria di Stato. Quando il Concini venne assassinato e la Regina confinata, anche Richelieu perse il posto; ora gli veniva servita su un piatto d’argento la possibilità di tornare in scena e dimostrare le sue non comuni doti diplomatiche e di governo.
Questi si prodigò per il trattato di Angers (1620) e successivamente fece riconciliare la Regina Madre con il Re.
Maria potè riavvicinarsi al figlio: riottenne diritti e privilegi e tornò a far parte del Consiglio di Stato, riprendendo enorme prestigio politico soprattutto con l’ascesa di Richelieu, che nel frattempo aveva ottenuto dal Papa la veste cardinalizia.
Debellata la dissidenza religiosa il Cardinale affrontò quella politica provocando un rovescio di alleanze e mandando a monte la politica filo spagnola, fortemente voluta dalla Regina, perchè ormai non gli era più utile.
Maria corse quindi ai ripari: alcuni nobili a lei devoti e contrari alla
politica di Richelieu si coalizzarono e guidati dalla Regina e dal suo
secondogenito Gastone, riuscirono a strappare al Re la promessa di allontanare il cardinale dagli affari di governo.
Il 10 novembre 1630 fu un giorno che passò alla storia come “Journée des dupes” (la giornata degli ingannati): era il giorno fissato per il congedo del Cardinale. Ufficialmente Richelieu non avrebbe dovuto sapere ciò che lo aspettava ma nei fatti era al corrente di tutto. Quel giorno era atteso da Luigi XIII e da Maria nel palazzo del Lussemburgo ma, al momento del congedo dal Re, Richelieu riuscì con parole giuste a far cambiare idea al Sovrano riacquistando la massima influenza a Corte e la nuova caduta in disgrazia di Maria.
L’intrigo si chiuse con la definitiva capitolazione della Regina e la
destituzione dei più accaniti avversari del cardinale. Maria perse ogni autorità. Fu confinata a Compiègne e poi a Bruxelles. Trattata con riguardo ma emarginata, divenne un'esule solitaria e malinconica, rinnegata dal figlio. Si rifugiò in seguito nei Paesi Bassi e per quanto cercasse l’appoggio spagnolo non tornò più in Francia. Dei suoi ultimi anni si sa poco. Morì a Colonia il 3 luglio del 1642. Di lei restano ventidue tele allegoriche del grande pittore Rubens, che forse ospitò Maria negli ultimi momenti della sua vita nella sua casa di Colonia, che la immortalano Regina e che oggi sono conservate al Museo del Louvre.



 
 
 
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