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RACCONTATI


La narrazione è una delle forme più antiche di comunicazione. Non si limita a riferire i fatti, ma ciò che è accaduto si cala nella vita del relatore, il quale ne fa dono a chi ascolta e lo offre come esperienza. In questo modo, nelle storie raccontate, resta la traccia, la presenza viva, del narratore. Walter Benjamin, al quale s’ispirano le precedenti riflessioni, in Angelus Novus segnala, al fine di identificare ciò che appartiene alla sfera della narrazione, opere di autori che sono in grado di trasmettere esperienza. La narrazione ha questa qualità, trasmette esperienza. I vissuti che sono assorbiti dalla memoria e diventano ricordo, nel momento del racconto non hanno più la vitalità originaria. Può accadere però che in un qualche momento, come successe per Proust quando il gusto della ‘madeleine’ lo riportò ‘negli antichi tempi’, si risvegli la memoria ‘involontaria’ che conserva la vividezza della situazione vissuta. E’ quanto avviene nella poesia di Baudelaire. Nei ‘Fiori del male’ l’esperienza del poeta è viva. Non viene assimilata nel ricordo ed è forte come uno ‘shock’. L’impatto che investe l’autore viene trasmesso a chi legge. Lo shock traumatico è effetto della rottura della naturale protezione che mettiamo agli stimoli disturbanti e Baudelaire non si protegge. Parigi, le donne, il vino, l’hascisc, il dolore profondo della sua esistenza entrano a forza nei versi e con forza passano al lettore. Lo psicoterapeuta stimola l’esplorazione di quanto si nasconde assopito dietro le difese, protezioni che rendono inerte la memoria. Il dolore connesso al ricordo risvegliato porta con sé l’intera storia, che ora, rinnovata nel racconto, diventa esperienza viva. Il paziente che rincontra gli ‘shock’ originari vibra attraverso le parole che lo ricordano e diventa narratore. Baudelaire descrive il processo della creazione come un duello nel quale l’artista prima di soccombere, grida di spavento. Così ‘urla’ il paziente al quale si disvela il mondo tenuto segreto, ma non soccombe, anzi, ridando vita al suo racconto, cresce in dignità e spessore. La storia si sviluppa ed emerge il personaggio, e questo si ispira alle favole e ai racconti dell’infanzia. J. Masterson analizza Cenerentola e Biancaneve e ritrova in loro modelli di adattamento patologico. Le favole sono i racconti delle nostre angosce e aspirazioni, ma anche del viaggio personale che il bambino compie per realizzare il proprio Sé. Nel caso dello scrittore Thomas Wolfe il personaggio appare invece attraverso i romanzi che scrive. Masterson riporta stralci della biografia dello scrittore e li usa come esempi per un caso clinico. I brani che cita e i passi che riporta dalla sua opera, sono vivi di esperienza e rispondono alla visione di Benjamin su cosa è narrazione. Ciò che lo scrittore ha vissuto viene tradotto in romanzo e passa dall’artista al lettore in tutta la sua drammaticità. Le ferite e le angosce sono le stesse di chi in quei vissuti si identifica. E’ la storia di una vita ‘al limite’ che attraverso i personaggi del romanzo riporta le esperienze reali della sua infanzia. I rapporti familiari, l’indissolubile legame con la madre e il terrore dell’abbandono. Il complesso mondo di un’esperienza infantile che lo porterà ad essere per il resto della vita disperato e dipendente, alla perenne ricerca di una madre che trova in donne particolari disposte a prendersene cura. Lo accudiscono organizzandogli la vita e così, libero da angoscia abbandonica, scrive e attraverso l’atto creativo si cura. Apre il suo mondo caotico e il raccontarsi lo placa tenendolo lontano dall’alcool. Rivive nel ricordo fiumi di esperienza che emergendo si riempie di affetti e diventa viva. Stati emozionali, sensazioni, immagini e storie che tornando alla memoria si ordinano e danno pace. Proprio come avviene nel processo terapeutico. Quando si aprono le porte ai vissuti affettivi ed ai ricordi connessi c’è spazio per il sé reale. L’animo dello scrittore, mentre dà ordine al suo romanzo interno, si tranquillizza. Raccontarsi è il primo strumento introspettivo che usano il ragazzo e la giovanetta quando tengono il diario e allo stesso tempo, appuntando le loro esperienze, costruiscono la propria memoria. Nella tradizione degli Stoici la tecnica dello scrivere fu considerata una metodologia di esplorazione del Sé. Lo scrivere le proprie storie aiuta a focalizzarsi sul mondo interno e produce nessi associativi che facilitano lo sviluppo della consapevolezza. L’impegno autobiografico è uno dei mezzi attraverso i quali l’uomo si conferma che esiste, che è esistito e che vuole sopravvivere. Secondo D. N. Stern questa tendenza è già presente nel bambino di tre anni. Il Copione, che nella formulazione di E. Berne è lo schema di vita che si organizza nei primi anni di esistenza, si presenta al terapeuta come un racconto, una storia che con le sue trame impronta una visione del mondo. Quando il paziente arriva a noi propone un personaggio elaborato proprio su quelle matrici. Lo ha costruito durante anni di esperimenti con l’intenzione di offrire quella che pensava fosse la migliore immagine di sé per essere accettato dal gruppo di appartenenza. Non aveva intenzione di ridurre i suoi potenziali né di limitarsi l’esistenza, come poi di fatto, è successo. Aveva bisogno di un proprio spazio e lo ha cercato in quella che ritenne la maniera più conveniente per essere amato, accolto e riconosciuto. Si aspettava, come ogni bambino, di poter vivere nel migliore dei modi possibili. Il personaggio che si è inventato e che ancor oggi sta recitando, è frutto di una serie di valutazioni, tentativi e compromessi. A volte il rischio troppo grande lo ha spinto a cambiare subito la direzione presa, e soffrì per questo, perché gli piaceva quello che incominciava a fare ma glielo proibirono. In altri casi non ebbe l’acutezza di intravedere possibilità diverse, offuscato forse dalla paura o forse soltanto perché la sua mente non era pronta ad aprirsi ad alternative diverse. Non le conosceva. In certe situazioni scegliere una via piuttosto che un’altra è stato frutto di una inclinazione caratteriale già inscritta nella mappa genetica. Non seppe fare altrimenti e in modo passivo l’accolse e la seguì. Già alla nascita i bambini sono diversi tra loro. Alcuni, ad esempio, si interessano presto al mondo esterno ed altri sono invece più ritirati e queste differenze non dipendono soltanto dal contatto con l’ambiente. Ci sono livelli di esperienza governati da fattori non controllabili che provengono da eredità culturali e storiche, della famiglia o della società in cui si vive. A. Jodorowsky, propone di cercare le radici dei problemi psicologici a partire dall’albero genealogico della famiglia e anche lui si focalizza sugli ‘shock’, gli impatti forti che attraverso simboli e metafore ancora ipnotizzano la nostra esistenza. Ciascun componente, dagli avi più lontani, ha lasciato una traccia invisibile e tuttavia trasmessa, per la formazione della personalità dell’erede biologico. Anche la semplice ripetizione di un nome che passa da una generazione all’altra, o la morte di un membro della famiglia avvenuta in circostanze drammatiche, influenzeranno chi verrà dopo. E’ un racconto che si trasmette nell’inconscio del gruppo e impronta le vite di chi a quell’albero genealogico è legato. La narrazione segue l’onda di energie che attraversano la storia e sono tante le vie lungo le quali la tradizione si trasmette. Sia come sia, viene il momento in cui il bambino, centro di una molteplicità di esperienze e di forze che convergono in lui, incomincerà a scrivere consapevolmente il suo Copione, in maniera volontaria, seguendo naturali principi di preferenzialità che convivono con regole e divieti imposti dall’esterno. Lo scontro più severo sarà con il suo limite, il limite dell’essere umano che ha aspirazioni grandi, a volte senza confini e con la realtà delle cose terrene, l’impossibile con il quale fare i conti. Quello che è certo è che non vorrà passare inosservato su questa terra, vorrà sopravvivere e le studierà tutte per riuscirci. E’ importante lasciare tracce di sé. Nasce con l’intenzione di essere parte dell’universo che lo circonda e vuole vivere altrettanto tempo che l’universo stesso, non meno, sottolinea A. Jodorowsky quando espone la sua visione dell’uomo. Il bambino nasce e vive per essere immortale. Non si rassegna a lasciar finire nel nulla la propria esistenza. Il vuoto lo sgomenta. Non possiamo tollerare che un giorno non ci saremo più, così come, similmente, che oggi non ci siamo per l’altro. Ricerchiamo con affanno soluzioni di sopravvivenza, in questa vita ed oltre di essa. Le favole rappresentano tutto ciò. Raccontano le aspirazioni e le tragedie umane. Ci evidenziano la possibilità di mondi migliori e ci mettono in contatto con il desiderio di immortalità, come afferma Bettelheim. Alcuni pensano al paradiso ed altri immaginano che vivranno in eterno nel ricordo dei posteri o di continuare ad esistere attraverso i figli che porteranno i loro cromosomi. Altri si convincono di perpetuare la propria esistenza attraverso un altro essere, uomo o animale che sia. E ci sono quelli che hanno prospettive più limitate: "Sarò energia che entra nella luna" come alcune tradizioni propongono o come G. Gurdjeff pronostica per coloro che non avranno compiuto il loro viaggio verso l’‘essenza’, la natura pura. Le storie che raccontano i nostri pazienti, tutto questo ce lo dicono. La narrazione è stato il mezzo attraverso il quale gli uomini hanno trasmesso la loro saggezza. Benjamin ricorda che i narratori prendevano le proprie ispirazioni dall’esperienza contadina o dai viaggi e nel racconto emergeva sempre la persona che narra. Nella nostra società sembra che i narratori, così come vissero un tempo, non abbiano più ruolo. Per Benjamin con l’avvento del romanzo la storia raccontata ha preso il sopravvento su chi racconta. Ritengo tuttavia che la narrazione, pur avendo perso gli spazi e i tempi dei suoi modi tradizionali di esprimersi, abbia ancor oggi un suo grosso peso nella trasmissione della conoscenza da parte di Maestri spirituali che utilizzano esempi presi dalla loro esperienza, da incontri con persone non comuni o anche da loro sogni illuminanti per guidare verso la via della saggezza i propri discepoli. D’altro lato le modalità narrative hanno anche assunto nuove forme che, ispirate ad antichi sistemi di lavoro sul Sé, si sono aggiornate dando spazio all’essere comune, al racconto di uomini e donne che non hanno particolare rilievo etico o culturale, ma narrano il proprio mondo interno e quello delle loro relazioni, proponendo le loro storie di individui tesi a curare sintomi e sofferenze, ma anche a dar senso alla propria vita. Con l’avvento della Psicoanalisi e delle moderne psicoterapie va in primo piano il racconto del paziente ed è ovvio che, insieme ad esso, emerga il racconto dell’uomo che scoprendosi attraverso la sua stessa narrazione, si riconosce e ad essa può riportare e assimilare i racconti di tanti altri uomini. Affiorano le esperienze della conoscenza condivisa da intere culture, dai sistemi sociali e da quelli familiari e si scoprono le tracce della saggezza, del buon senso comune, delle cadute e della perdita di riferimenti di quanti nel cammino della vita si smarrirono o ancora non hanno incontrato la strada. Le storie dei semplici hanno contenuti del tutto simili a quelle dei personaggi del mito e degli eroi delle epopee. Il terapeuta non è il narratore ma partecipa e collabora alla narrazione. Non è lui che attraverso il racconto trasmette saggezza. Piuttosto riceve la storia del paziente e da quella storia è capace di estrarre significati. Nel caso del rapporto terapeutico la narrazione è dunque frutto di quello specifico incontro e tanto è più valida come esperienza quante più persone in essa si riconoscono e possono condividerla. In tal modo la narrazione aiuta a crescere. La storia individuale coinvolge il gruppo terapeutico e intorno a chi racconta convergono le energie di coloro che ascoltano i quali, così stimolati, diventeranno a loro volta narratori. Le storie terapeutiche sono raccontate in modi diversi e spesso all’inizio hanno un elemento comune. Sono prive di trama e drammaticità. L’energia emozionale è disturbata e il più delle volte, nelle prime fasi d’incontro, i pazienti, anche quando manifestano sofferenza, non risvegliano empatia. Il loro star male ha un che di falso ed è privo di pathos. Hanno acquisito un’abitudine ripetitiva, una coazione a soffrire, e le componenti manipolative hanno il sopravvento su altre emozioni più naturali, magari allontanate dalla coscienza perché proibite. I personaggi non hanno spessore e tutto il racconto manca di vitalità perché i fatti, le emozioni e i pensieri significativi sono tenuti nascosti. Le persone hanno paura di mostrarsi, innanzi tutto a se stesse. Il paziente diventa più vitale e trasmette esperienza quando incomincia ad elaborare un nuovo racconto di sé, una storia che partendo da quella originaria si va riempiendo di contenuti e di vicende rimaste celate tra i ricordi. La nuova storia assume significato e soprattutto preannuncia e porta ad un finale diverso. Come si fa con un film in bianco e nero che viene restaurato, nel processo terapeutico abbiamo messo colore. Se riempiamo i vuoti, i racconti dei pazienti assumono consistenza, prendono forma di vicende reali e cambiando la visione del mondo lo stesso passato assume nuovi significati. Quando attraverso il simbolismo dell’operare terapeutico rinnoviamo la relazione con le figure importanti dell’infanzia, i ricordi stessi si aggiornano e viene modificata l’immagine del rapporto con loro. La magia terapeutica sta nel fatto che sanando nella visione odierna quello che avvenne nel passato, le identificazioni e le incorporazioni assumono altre qualità e nell’inconscio cambia il vissuto della propria storia. [...]