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I film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020

 

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Messaggi di Dicembre 2016

Cineforum 2016/2017 | 20 dicembre 2016

Foto di cineforumborgo

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Regia: Gabriele Mainetti
Soggetto: Nicola Guaglianone
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti
Fotografia: Michele D'Attanasio
Musiche: Gabriele Mainetti, Michele Braga
Montaggio: Andrea Maguolo, Federico Conforti (collaborazione)
Scenografia: Massimiliano Sturiale
Costumi: Mary Montalto
Effetti: Luca Della Grotta, Maurizio Corridori, Chromatica
Suono: Valentino Giannì (presa diretta)
Interpreti: Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti), Luca Marinelli (Zingaro), Ilenia Pastorelli (Alessia), Stefano Ambrogi (Sergio), Maurizio Tesei (Biondo), Francesco Formichetti (Sperma), Daniele Trombetti (Tazzina), Antonia Truppo (Nunzia), Salvo Esposito (Vincenzo), Gianluca Di Gennaro (Antonio)
Produzione: Gabriele Mainetti per Goon Films con Rai Cinema
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 112’
Origine: Italia, 2015
David di Donatello 2016 per migliore regista esordiente, produttore, attrice e attore protagonisti (Ilenia Pastorelli e Claudio Santamaria), attrice e attore non protagonisti (Antonia Truppo e Luca Marinelli), e montaggio; Globo d'oro 2016 come miglior film; Nastri d'Argento 2016 per miglior regista esordiente e attore non protagonista (Luca Marinelli).

Enzo Ceccotti entra in contatto con una sostanza radioattiva. A causa di un incidente scopre di avere una forza sovraumana. Ombroso, introverso e chiuso in sé stesso, Enzo accoglie il dono dei nuovi poteri come una benedizione per la sua carriera di delinquente. Tutto cambia quando incontra Alessia, convinta che lui sia l'eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d'acciaio.
La panoramica su Roma che apre il film, il classico punto di vista del supereroe, scorre su un respiro affannato e ansimante. È quello di un ladruncolo che fugge dalla polizia sul Lungo Tevere e che, per nascondersi, si getta nel fiume uscendone malconcio per il contatto con una sostanza radioattiva, ma con poteri di cui diventa consapevole solo il giorno seguente, dopo una notte di ‘passione’. Enzo Ceccotti, un nome comunissimo, rinasce supereroe come dopo le doglie di un parto. È un film sulla genesi di questo supereroe, quindi, quasi una origin story da fumetto americano degli anni Sessanta, l'opera prima di Mainetti. Nascita e formazione di un eroe che è però sempre stato un perdente, come può essere un ragazzo di borgata pasoliniano: ultimo fra gli ultimi, figlio della periferia più povera e nera; grasso, più che ‘grande’, quasi a suggerire qualcosa di sonnacchioso, sfiduciato, che vive in una sorta di tugurio dominato dai colori del grigio e del nero e che usa il privilegio della forza sovrumana appena acquisita per riempirsi il frigo di budini alla vaniglia e proiettare a tutta parete i suoi amati film porno. Un individuo debole e solo, vittima di pulsioni basiche, un eroe suo malgrado che, a dispetto di quello che ci si aspetterebbe, il genere umano non sopporta. Irrompe nel suo antro buio una fanciulla coloratissima e bizzarra. La violenza della mala l'ha lasciata sola e indifesa, ma forte della lettura che lei sa dare del mondo: i colori che caratterizzano i suoi spazi e la sua figura sono quelli di un anime giapponese che i quarantenni di oggi ricorderanno benissimo. La sua conturbante innocenza contribuirà alla trasformazione del suo personale Hiroshi Shiba in Jeeg Robot d'acciaio, personaggio creato da Go Nagai, che corre “in aiuto di tutta la gente, dell'umanità” (come recitava la sigla del cartoon originale, cantata in modo struggente da Claudio Santamaria sui titoli di coda).
La Tor Bella Monaca bella e dannata - molto cinematografiche, fra l’altro, le sue torri che si stagliano in mezzo al verde - nella quale si muovono personaggi coatti e credibili, pur in un film fantastico, è un punto forte di omogeneità, attraversato da una violenza senza scampo, quella delle cosche e quella trucida dello Zingaro. Delinquente allucinato, quest'ultimo, interpretato dal superlativo Luca Marinelli (che rimanda vagamente alla sua interpretazione di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari): da lui non si riescono a staccare gli occhi di dosso, forse perché mitomane minato da fragilità, che aspira alla fama mediatica come un po' tutti noi, in quest'era folle, forse perché superbo nelle sue esibizioni canore pop anni Ottanta e denotato da un ambiente saturo del colore rosso del sangue e dalla presenza ostile e spigolosa di ganci e guinzagli.
La lotta che Jeeg ingaggia con questa sua nemesi sanguinaria ha risvolti persino comici, pur nel rispetto dovuto ai caratteri di un genere molto amato dal regista. Lo sguardo infatti, pur consentendo momenti addirittura di commozione, rimane esterno, divertito e autoironico. Un altro dei cortocircuiti, questo, che rendono straordinario il film. In modo quasi paradossale, infatti, un genere fra i più costosi oggi, viene realizzato da Mainetti con un budget esiguo e con uso parsimonioso e molto artigianale di effetti speciali: bravi stunt e buone le scazzottate tra i due protagonisti coreografate e provate come fossero passi di danza.
I meccanismi del genere e le scelte registiche, sostenuti da grinta ed energia, funzionano appieno: i piani dal basso a sottolineare la grandezza e la potenza del Jeeg nostrano, i movimenti interni alle inquadrature, il montaggio survoltato, le scene d'azione coinvolgenti. Ogni elemento, allo stesso tempo, supportato da trovate spassose e invenzioni visive, pare venato di una sottile ironia. Ironia condivisa dallo spettatore, che ripercorre tutti i pomeriggi preadolescenziali passati davanti alla TV e anche un po’ della sua vita da adulto aspettando magari che Jeeg Robot arrivi a sconfiggere i malvagi. Tanto che si perdonano anche certe ingenuità (la metafora del palloncino, fucsia come il vestito di Alessia, per esempio, prima ‘imprigionato’ nella delusione di un rapporto sessuale attraverso cui riemergono le violenze subite e poi finalmente libero) che possono addirittura apparire perfette perché da cartoon anch'esse.
Si ride, si provano ribrezzo e raccapriccio (alcune sequenze sono violentissime come fossero mutuate da “Gomorra”), si vive la catarsi, poi si piange. E si esce sentendosi forti, forti per davvero: sapendo che il mondo fa schifo ma con addosso una maschera, quella di Jeeg. E chissenefrega se è lavorata all'uncinetto.
Manuela Russo, Cineforum

Dell'uomo qualunque investito da superpoteri è piena la storia dei fumetti, ma questa versione tutta italiana, grottesca e disincantata, girata con budget ridotto (ma non si vede) sembra la più vera di tutte. Anche qui, colpa e redenzione fanno parte del percorso del protagonista, ma senza quei tratti un po' snob, da occhio schiacciato alla critica, che li rendono indigesti al grande pubblico. Il meccanismo, nella sua semplicità, funziona alla meraviglia. Una lezione di cinema che dimostra come non servano grandi mezzi per realizzare ottimi film. Occorrono coraggio, idee e persone capaci di realizzarle.
Maurizio Acerbi, Il Giornale

GABRIELE MAINETTI
Filmografia:
Lo chiamavano Jeeg Robot (2015)

Ci rivedremo:
Martedì 10 gennaio 2017:
TUTTI VOGLIONO QUALCOSA di Richard Linklater, con Will Brittain, Zoey Deutch, Ryan Guzman, Tyler Hoechlin, Blake Jenner

Buone Feste!

 

 
 
 

Cineforum 2016/2017 | 13 dicembre 2016

Foto di cineforumborgo

LA PAZZA GIOIA

Regia: Paolo Virzì
Soggetto: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Francesca Archibugi, Paolo Virzì
Fotografia: Vladan Radovic
Musiche: Carlo Virzì
Montaggio: Cecilia Zanuso
Scenografia: Tonino Zera
Costumi: Catia Dottori
Suono: Alessandro Bianchi - (presa diretta)
Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice Morandini Valdirana), Micaela Ramazzotti (Donatella Morelli), Valentina Carnelutti (Fiamma Zappa), Anna Galiena (Luciana Brogi coniugata Morelli), Marco Messeri (Floriano Morelli), Tommaso Ragno (Giorgio Lorenzini), Bob Messini (Pierluigi Aitiani), Sergio Albelli (Torrigiani dei Servizi Sociali), Marisa Borini (sig.ra Morandini Valdirana), Bobo Rondelli (Renato Corsi)
Produzione: Marco Belardi per Lotus Production con Rai Cinema, in coproduzione con Manny Films
Distribuzione: 01 Distribution
Durata  116'
Origine: Italia, Francia, 2016
Nastri d'Argento 2016 per: regista del miglior film, sceneggiatura, attrice protagonista (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti), costumi, colonna sonora; Premio Shiseido Nastri d'Argento per lo stile a Valeria Bruni Tedeschi e Premio Wella Nastri d'Argento per l'immagine a Micaela Ramazzotti.

Beatrice Morandini Valdirana è una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità coi potenti della Terra. Donatella Morelli è una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un doloroso segreto. Sono tutte e due ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambe classificate come socialmente pericolose. La loro imprevedibile amicizia porterà a una fuga strampalata e toccante, alla ricerca di un po' di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani.
Beatrice vive in una casa di cura ma ha sempre un'opinione su tutto. Tira avanti a forza di psicofarmaci ma ha la battuta pronta, ottime maniere, un'agenda zeppa di nomi famosi, Armani, George Clooney, Malagò. Infatti sa sempre come cavarsela, o almeno si illude. Ma soprattutto sa rigirare all'istante la frittata trasformando ogni scacco in un successo, ogni fallimento nella prova che aveva ragione lei. E un po' è perfino vero, perché quando scappa da quella casa di cura sulle colline toscane («è un dono della mia famiglia, voi infermiere dovreste essere più gentili») e scopriamo cosa si è lasciata dietro, capiamo che lei sarà un po' tocca ma anche quelli rimasti fuori, le persone ‘normali’, forse non sono tanto migliori. Donatella è l'opposto di Beatrice, sia in senso sociale che caratteriale. Giovane, magrissima, tutta tatuata, non parla mai e non si sa cosa l'abbia portata lì. Infatti Beatrice ne è subito attratta: e visto che non riesce a farsi passare per dottoressa, come prova a fare da brava mitomane (scena impagabile), la coinvolge di slancio in una lunga fuga sconclusionata e rivelatrice che dà origine a uno dei più bei film italiani della stagione (e non solo), “La pazza gioia”. Applauditissimo a Cannes, dove tutti hanno riconosciuto all'istante il Dna della grande commedia italiana (sia Paolo Virzì che Francesca Archibugi, qui alla prima sceneggiatura insieme, sono cresciuti sotto l'ala di Furio Scarpelli). Ma così trascinante e riuscito che viene da chiedersi dove sia il suo segreto. Il lato più evidente è la straordinaria alchimia tra le protagoniste, Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice) e Micaela Ramazzotti (Donatella), ovvero la loro capacità di recitare davvero senza rete, dandosi senza riserve ai personaggi, ma mantenendo sempre un controllo perfetto, anche nel lungo prologo ambientato tra persone davvero problematiche (una scelta niente affatto scontata). L'altra risposta è la qualità della sceneggiatura. Oggi che bastano una trovata azzeccata o dialoghi brillanti a far gridare al miracolo, ecco infatti un copione che condensa mondi interi in una battuta e spunti non banali nei continui equivoci fra queste donne che rappresentano due Italie inconciliabili. E se il dramma incombe fin dalle prime scene, poi resta sapientemente sottotraccia per esplodere nel sottofinale. Sempre sorretto da un cast di comprimari bravissimi (Valentina Carnelutti psichiatra dal volto umano, Anna Galiena madre inaffidabile, Marco Messeri padre fuggiasco, Bob Messini ex-marito ancora innamorato) e diretti con mano impeccabile da un Virzì sempre più bravo nello schizzare tutto un carattere in due scene. I fanatici del nuovo storceranno il naso per la linea fin troppo classica. A noi sembra che in tempi così confusi un film così brillante e autoironico (delizioso doppio cameo della vera madre della Bruni Tedeschi, Marisa Borini, e della Archibugi stessa), oltre che una benedizione sia un esempio di buon uso della tradizione e delle risorse ancora disponibili. Umane, espressive e produttive.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero

(……) Il film vive con tranquillità il suo essere costantemente scisso tra contraddizioni e divisioni nette. E’ commedia on the road e melodramma puro (…….). Persino tra le due protagoniste, l’eccessiva e irrefrenabile Valeria Bruni Tedeschi, sempre sopra le righe, e una Micaela Ramazzotti impostata sul dolore, la sottrazione e la mortificazione della propria bellezza, si riconosce questa polarizzazione. Virzì, dunque, con una confezione ultra-colorata che guarda al cinema francese, desidera raccontare una storia che si muova tra la folle gioia e il lancinante dolore delle sue due donne, sempre in balia di alti e di bassi, di up e di down.  Il film è quindi una pura manifestazione di tutte le direttrici e di tutti i meccanismi del cinema di Virzì. La sua encomiabile capacità di raccontare sentimenti assoluti, emozioni nitide, sono punti di forza oggettivamente efficaci nel colpire al cuore il pubblico (le lacrime si sprecheranno nel pubblico per il finale). Purtroppo, il regista, pellicola dopo pellicola, trasforma la sua poetica in un manierismo gentile/comico che, eccetto il lavoro (riuscito?) de “Il capitale umano”, riconferma la formula base su cui sono costruite tutti i suoi lavori. Il personaggio estremo della Bruni Tedeschi, ad esempio, almeno nella sua superficie, nasce come una satira stanca di certa borghese di destra che porta il film a deragliare, schiacciato dalla sua magnifica presenza.
E’ ancora una volta la Ramazzotti, mai così efficace come nelle mani del marito regista, a rompere gli schemi da commedia all’italiana post-mortem, trascinando “La pazza gioia” in altri territori. Magnifica nei duetti con i suoi genitori folli, i cammei brevissimi di Anna Galiena e Marco Messeri, l’attrice ci culla e si fa cullare sulle note di Gino Paoli, avvolgendo e sublimando il film nel suo splendido dolore di madre, stravolta da un passato angosciante ma disposta a tutto pur di rivedere, anche solo per un istante, il suo bambino (irrimediabilmente?) perduto.
Luca Marchetti, Sentieri Selvaggi

PAOLO VIRZI’
Filmografia:
La bella vita (1994), Ferie d'agosto (1996), Ovosodo (1997), Baci e abbracci (1998), Provino d'ammissione (1999), My name is Tanino (2001), Caterina va in città (2003), N-Io e Napoleone (2006), Tutta la vita davanti (2007), La prima cosa bella (2009), Tutti i santi giorni (2012), Il capitale umano (2014), La pazza gioia (2016)

Martedì 20 dicembre 2016:
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT di Gabriele Mainetti, con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei

 

 
 
 

Cineforum 2016/017 | 6 dicembre 2016

Foto di cineforumborgo

DHEEPAN - UNA NUOVA VITA

Titolo originale: Dheepan
Regia: Jacques Audiard
Sceneggiatura: Noé Debré, Thomas Bidegain, Jacques Audiard
Fotografia: Éponine Momenceau
Musiche: Nicolas Jaar
Montaggio: Juliette Welfling
Scenografia: Michel Barthélémy
Costumi: C. Bourrec (Chattoune)
Effetti: Julien Poncet de La Grave, Cédric Fayolle
Interpreti: Antonythasan Jesuthasan (Dheepan), Kalieaswari Srinivasan (Yalini), Claudine Vinasithamby (Illayaal), Vincent Rottiers (Brahim), Marc Zinga (Youssouf)
Produzione: Pascal Caucheteux, Jacques Audiard per Why Not Productions/Page 114/France 2 Cinéma
Distribuzione: BIM
Durata: 114'
Origine: Francia, 2015
Palma d'Oro al 68. Festival di Cannes (2015)

Dheepan fugge dallo Sri Lanka e dalla guerra. Viene accolto in Francia come rifugiato politico insieme a una donna e a una bambina che lui spaccia per la sua famiglia. Inizia a lavorare come portiere in uno stabile residenziale nella periferia di Parigi e ha un solo desiderio: avere una vita normale. L'apparente tranquillità viene disturbata da un gruppo di spacciatori di droga che dettano legge nella zona. Dheepan si trova davanti a un bivio e la scelta non è semplice.
Una zona di fuoco dentro Parigi. Ma lo sguardo estraneo sulla banlieue sembra ispirarsi a Montesquieu e alle sue “Lettere persiane”, il romanzo scritto dal filosofo francese nel 1721 dove la Francia era guardata attraverso gli occhi di due viaggiatori persiani. Il titolo, in quest’ultimo film di Jacques Audiard, prende invece il nome dal protagonista. Dheepan è una ‘tigre tamil’, membro di un gruppo nazionalista che si batte per l’indipendenza dello Sri Lanka, che decide di fuggire dal proprio paese insieme a una donna e una bambina di 9 anni che spaccia per sua moglie e sua figlia. Si conoscono appena e a Parigi tentano di costruire una vita migliore. Ma non sarà facile.
La macchina da presa del cineasta francese si attacca sui protagonisti, ne diventa a tratti quasi una specie di seconda pelle. Si affida agli attori tamil non professionisti Anthonytasan Jesuthasan e Kalieaswari Srinivasan, ne cattura paure, tensioni, movimenti del corpo con cui cercano di comunicare per superare la barriera della lingua. Non è solo un film sulle banlieues e sull’immigrazione. Ad Audiard non interessa. C’è invece un senso di soffocamento che chiude lo spazio. Come la discoteca di “Sulle mie labbra” e il penitenziario di “Il profeta”. Il suo cinema torna a una fisicità nervosa. Ogni inquadratura è come uno schiaffo. Cattura suoni, scontri, colori che diventano pirotecnici come nella scena dei fuochi d’artificio. Il suo sguardo sembra gettarsi a capofitto. Dheepan cerca di ritagliarsi uno spazio suo per poi poterlo dominare, proprio come Malik in “Il profeta”. Il cortile diventa un’altra zona di fuoco, come nelle immagini che si vedono in tv. La tensione è altissima, evidente nei tentativi di dialogo tra la finta moglie del protagonista e il figlio spacciatore dell’uomo da cui va a fare le pulizie. Si sente sempre un’energia esplosiva nel suo cinema, stavolta ancora più assordante, quindi più scomposta. La guerra non è finita in “Dheepan”. Si è come spostata su un altro posto. Mobili che volano dall’alto, due momenti di sparatorie esemplari, scontro tra il protagonista e il suo colonnello. Audiard non trattiene il movimento e il continuo attrito creato sembra contagiare tutto. Dheepan canta una canzone del suo paese. La parola è come un gesto disperato, come un’altra azione di guerra. Poi, lo sguardo degli altri. I tre personaggi vivono con la paura di essere visti. Si nascondono anche istintivamente, si riparano nella loro non conoscenza del francese. Simulano malamente (il bacio dato dalla madre alla figlia davanti la scuola) perché non hanno neanche voglia di recitare. Questa ricchezza, come sempre, strabordante, nel suo cinema, qui appare sempre al limite. Così diretta che a tratti colpisce e va via e non lascia sempre i suoi segni come negli ultimi due straordinari “Il profeta” e “Un sapore di ruggine e ossa”. Ma non è un problema di “Dheepan”. Sono quei due film che sono troppo in alto. Questo è un film teso e complesso, dove sulla scrittura sembra passare l’azione come un rullo compressore. A tratti è anche troppo pieno. Non è un problema di durata. “Dheepan” si dilata percettivamente oltre il tempo che vuole rappresentare. Andrebbe forse visto in due parti separate. Per assorbirlo meglio, proprio come il “Casanova” di Fellini. Il regista romagnolo ci metteva tutto il suo mondo visionario. Qui, nel cinema di Audiard, lo crea il suo impeto. Con quel senso di straniamento del più bel film di Jim Sheridan, In America, che qui paradossalmente potrebbe essere uno dei suoi limiti. Perché questo è un cinema che va assorbito tutto. Non ha bisogno di spiegare niente. Le righe del campo di calcio che non viene finito lo rappresentano in pieno. Forse per questo aveva bisogno di un taglio deciso nel finale. Le altre vite nel cinema di Audiard ce le immaginiamo noi. È lui che ce lo ha insegnato.
Simone Emiliani, Sentieri Selvaggi

(……) Ora, se si crede che un film coincida semplicemente col suo soggetto, i detrattori di quello di Jacques Audiard, ossessionati dall’ideologia del politically correct, potrebbero anche avere ragione. Non è così, naturalmente. Il regista francese non mette affatto in scena un dramma sociale per poi appiccicargli un finale da cinema di genere alla Golan&Globus: porta invece la storia alle sue estreme conseguenze, evitando sia le ovvietà socio-demografiche dei film ‘socialmente impegnati’, sia la tirata reazionaria sui pregi della violenza autogestita. I tipi come lui si contano sulla punta delle dita: quelli capaci di sposare cinema d’autore (con un punto di vista e uno stile precisi) e spettacolo popolare, rivolgendosi al pubblico nella sua totalità senza prendere lo spettatore per un idiota beato o volergli imporre una lezione di sociologia per principianti. Certo, “Dheepan” è un film costruito in maniera insolita, articolando un finale violento intorno a una bella storia d’amore e alternando brani di realismo con altri di un lirismo struggente (che ricorda un altro bel titolo controverso di Audiard, “Un sapore di ruggine e ossa”). Non mancano neppure le scene oniriche, nel sogno ricorrente dell’ex-soldato che allude alle sue origini: un elefante, simbolo di saggezza cui l’uomo si appella inconsciamente. Soprattutto, però, “Dheepan” è un film raccontato benissimo; una parabola di redenzione il cui protagonista reagisce a un’aggressione che è sì fisica, ma che minaccia soprattutto il suo sogno di una vita diversa. E c’è una bella differenza tra la storia di un vigilante urbano e quella di una famiglia finta che vuol diventare vera. Vedere per giudicare.
Roberto Nepoti, La Repubblica

JACQUES AUDIARD
Filmografia:
Regarde les hommes tomber (1994), Un héros très discret (1996), Sulle mie labbra (2001), Tutti i battiti del mio cuore (2005), Il profeta (2009), Un sapore di ruggine ed ossa (2012), Dheepan - Una nuova vita (2015)

Martedì 13 dicembre 2016:
LA PAZZA GIOIA di Paolo Virzì, con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti, Anna Galiena, Marco Messeri

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 29/09/2007
 

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