..questa è magia..

Post n°10 pubblicato il 08 Settembre 2008 da zackdelarocha30
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Buio, nero di inchiostro nella stanza, esorcizzato appena dall’alone viola blu del mondo che mi spia  dietro improbabili tende, lenzuola rapprese, insonnia.

Irrequietezza negli occhi, accendo una luce, la spengo. Oppressione.

Sono già oltre il portone. Un freddo agli zigomi mi accoglie, mi avverte, mi invita a tuffarmi. Ecco finalmente: la notte, sorella, mia amata.

Tutto mi attrae, di te, il tuo odore, i sapori, i tuoi umori…come una donna, a lungo anelata, desiderata, corteggiata ed infine conquistata; si, io t’amo, vivo di te, in te.

La pioggia è così fine che sembra nebbia, mi sferza le nari che si dilatano ad intermittenza mentre cammino, assecondando il respiro, il mio, il tuo.

Ebbrezza. Avidi i miei occhi ti avvolgono, mi sento pervaso dai tuoi sguardi, è una simbiosi, un’osmosi.

Ho voglia, in te, di catarsi. Scaglia la tua freccia, trapassami, trafiggi cio’ che dell’impuro sole, della luce insana, in me, è residuo; vedi? Ho le braccia aperte, gli occhi chiusi, nell’attesa..

Sono accolto nel tuo grembo ormai. Lo sento. Siamo un tutt’uno.

 Reincarnata la mia anima, pronta a percorrere sentieri che ci fanno incontrare con altre, simili creature, in un unico immenso abbraccio fetale. Non abbiamo occhi, adesso, non l’olfatto, non abbiamo fattezze..i sensi comuni sono fluidi in noi, siamo essenze eteree, ci fondiamo insieme, in una estatica danza.

Tutto è arte adesso, tra noi, in te; l’incrociarsi continuo delle nostre emozioni, anestetizzate quasi, e nello stesso tempo ipersensibili rende reale il senso della percezione. Stiamo creando in continuazione: ogni parola è poesia, ogni traiettoria è una pennellata su un’immensa tela, ogni angolo attraversato fa trapelare nuove scenografie, in ogni vicolo scopriamo melodie finora sconosciute.

Questa, è la magia.

 
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Notti bianche, bufale e bar...

Post n°9 pubblicato il 08 Settembre 2008 da zackdelarocha30
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Un po' di tempo fa ero dietro il bancone del bar, tutto intento a somministrare intrugli più o meno alcoolici agli spietati avventori: un simpatico coacervo di giovanotti belli aitanti, pieni di vita e di deodorante ascellare, tirati come non mai e con i sensi tesi verso le pupe, aitanti anch’esse e supertiratissime. Una simpatica scenetta: un’occhio alle bottiglie e un sensore distrattamente aperto alle chiacchiere ed ai vari tentativi di abbordaggio!

Alla destra del bancone, ben oltre la macchina del caffè, laddove la luce era più discreta, si trastullava una coppietta, ma così ammodo, che a guardarli mi dicevo: “beati loro, ma guarda come stanno bene vicini quei due”, insomma: sai quando vedi quelle coppie che parlano per ore e ore, incuranti di quello che succede attorno a loro, lui così pieno di premure e lei cosi prodiga di sorrisetti e di sguardi

 maliziosi?Lui che offriva Tennent’s doppio malto a nastro e la bella Giulietta che, con una tenerezza disarmante, faceva piazza pulita di boccali e di sigarette (ad un certo punto rammento che il pacchetto di Marlboro lights di lei giaceva vuoto ed accartocciato in fondo al posacenere invaso di mozziconi e lui che offriva volentieri le sue ultime eroiche Diana blu dure, che lei divorava). Proprio carini.

Quest’andazzo si protrasse per diverse ore, tant’è che, verso le due, già immaginavo il nostro Romeo alzarsi con garbo (tutto il garbo di cui sei capace dopo esserti scolato due pinte e mezza di birra a nove gradi e passa, tutto il garbo necessario a controllare la massa gelatinosa delle gambe e il cervello, che in quei momenti pare una miscela malsana di melassa e testosterone), aiutare lei a rimettersi la giacca e, con aria di un san Giorgio che si appresta a trafiggere il drago della calca che impedisce loro  di guadagnare l’uscita del locale, affettare un gesto ed un sorriso eloquenti verso di lei e tuffarsi entrambi nella notte, la magica notte che riserverà a questi due (amanti)  la sua bellezza: l’aria frizzante, il cielo limpido e stellatissimo, il freddo che fa istintivamente venire voglia di stringersi mentre si va verso l’auto parcheggiata eccetera eccetera eccetera.

            Questo ameno quadretto che avevo composto nella materia grigia e che destava in me un senso di lietezza e di genuina ed altruistica compiacenza venne letteralmente e crudelmente mandato in frantumi da un cazzo di squillo di telefonino, quello di lei.

- “Pronto?

- Sì?” (attimo di pausa, espressione interrogativa).

-“Ciaaaoo!” (fine della pausa e palese espressione di compiacimento e soddisfazione).

-“Si, sono al Wallace! Dove sei? Nei dintorni?”

-“…no, no, nessun impegno! (sorriso). “Come? In piazza tra venti minuti?” (momentaneo sguardo corrucciato a Romeo, frattanto diventato di sale!).

-”Si, va bene, allora a tra poco, va bene…anche a te, ciaoo”.

Richiuse con calma il Motorola, lo ripose piano nella borsetta, quasi che nel compiere il gesto prendesse attimi preziosissimi per imbastire uno straccio di scusa (cosa dire e come dirlo al piccolo grande cavaliere lì di fronte, nel frattempo in procinto di stramazzare al suolo come colpito lui da una lancia scagliata dal giavellottista drago?).

            Successe tutto così rapidamente che solo l’esperienza di uomo da bar permise di non mostrare lo sbigottimento che provai in quei momenti; sbigottimento e sincero dispiacere per il buon Romeo che nel volgere di quarantacinque secondi aveva cambiato totalmente umore, espressione e qualche tratto somatico.

Il resto è scontato,  un finale degno del più decadente Humphrey Bogart o del più bogartiano “Sorrow “ (versione fumettistica : vedi “Il Monello” a colori,  primi anni ottanta): lei che guarda lui con negli occhi un misto di riconoscenza e di impazienza, con un sorriso liquido che sembra voglia accennargli un qualcosa di simile ad un grazie, si porta la mano sinistra all’orecchio a mo’ di cornetta, un ultimo caimanesco sorriso, e giù sola nella notte, nella imprevedibile e fantastica notte.

Lui non ha il coraggio (o forse lo stomaco) di finire la sua birra ormai tiepida (non c’è più l’invitante condensa attorno al bicchiere). Ma ha  i polmoni per finire in tre voraci boccate l’ultima Diana blu del pacchetto (è la seconda in tutta la serata: “che lei non pensi mai che io sia un accanito della sigaretta, questo mai! Cosa penserebbe di me?”). Spense ciò che rimase nel posacenere, guardando in direzione  della brace. In quel momento ero più vicino a lui e la cosa che più mi colpì era il suo sguardo, uno sguardo fisso e spento in direzione del posacenere ma che era anche pieno di immagini e frammenti di immagini, posto che si possa dare un’immagine alla delusione,  alla gelosia, all’impotenza, a tutto l’amaro che può lasciare in bocca una “bufala non plausibile”!

Pagò e uscì.

 
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L'incubo di Sigurd

Post n°8 pubblicato il 04 Settembre 2008 da zackdelarocha30
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La prima luna dell’anno del Serpente nacque nella carestia, nella pestilenza e nell’inquietitudine. Il Morbo correva per le strade dei regni, abbattendo il mercante al bancone di vendita, lo schiavo nel tugurio, il nobile al tavolo dei banchetti..

Di fronte ad Esso, le arti dei chirurghi vedevano morire le loro speranze. Le genti mormoravano che fosse stato mandato dall’inferno per punire i peccati dell’orgoglio e della lussuria. Era rapido e mortale come il veleno dell’aspide. Chi ne veniva colpito si faceva violaceo e poi nero, ed in capo a pochi minuti cadeva morente, e il fetore della sua stessa putrefazione era avvertito nelle sue narici ancor prima che la morte avesse rapito l’anima dal corpo in disfacimento. Un vento caldo ruggiva senza posa da meridione; i raccolti inaridivano nei campi, e le mandrie cadevano e morivano nei tratturi..

..la moltitudine si lamentava a gran voce della collera del Dio, e mormorava contro il Re, perché per tutto il regno qualcuno aveva sparso ad arte la voce che egli, in segreto, fosse dèdito a pratiche orrende, a ripugnanti orge che avevano luogo nelle solitudini del palazzo reale ammantato dalle tenebre notturne. Poi, la morte si avventò sogghignando anche in quella dimora reale, e, in una sola notte, rapì il sovrano e i suoi tre figli, mentre i tamburi, che scandivano il ritmo del lamento funebre del Re, coprivano il rumore dei sonagli macabri e infausti dei carri, che sferragliavano per le strade raccogliendo cadaveri..

Quella notte, poco prima dell’alba, il soffio rovente che aveva continuato, tenace, per settimane, cessò di sibilare sinistramente tra i tendaggi di seta. Un forte vento si alzò da nord, mugghiando fra le torri. Ci furono tuoni da apocalisse, accecanti bagliori in rapida successione, ed una  pioggia scrosciante, continua, impetuosa. Ma l’alba sorse radiosa, verde, chiara; la terra bruciata si velò di tenera erba, le messi assetate si alzarono ancora, e la peste sparì; i miasmi erano stati completamente spazzati via da quel vento possente. Gli uomini dissero che gli dèi erano soddisfatti, perché il Re malvagio e la sua progenie erano morti, e, quando incoronarono il suo fratello minore, Jodir, nella grande sala delle cerimonie, la popolazione lo salutò con tale entusiasmo da far tremare la terra, acclamando il nuovo monarca gradito agli dèi....(continua)..

 
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..di notte..

Post n°7 pubblicato il 16 Agosto 2008 da zackdelarocha30
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Nella notte è la verità dell’anima, nella notte l’ipocrisia si ottunde, si dissangua, come depredata dai suoi stessi vampiri; in essa gli occhi si guardano con una vibrazione insolita, calda. Di notte, scambiando energie con altri ed altre Boccadoro, ho conosciuto in un attimo risposte a domande che mi sono posto inutilmente per anni. Illuminazioni definitive, terse, cristalline, senza possibilità alcuna di dubbio.

Di notte tu sei, non importa nulla ed a nessuno se hai, se non hai, se possiedi, se sei in vendita o se fai sconti, non ha senso parlare di avere, di contendersi una presunta, egoistica, sterile e solo momentaneamente appagante e falsa superiorità quantitativa. Anzi, non ha alcun senso parlare di superiorità o inferiorità. No. Tra gli esseri che abitano la notte il punto focale è esserci, esistere, confrontarsi su prerogative dell’io, del non-io, trasfondere la propria vera essenza nella comunicazione più lineare e totale, nell’ascolto più profondo. Di giorno puoi essere un magnate, e di notte un miserabile. Nella luce puoi essere un barbone, un accattone, uno snobbato da quelli che più di ogni altro meriterebbero di essere snobbati a loro volta; nella tenebra sei un principe, un cavaliere, e la nobiltà della tua anima non viene seviziata dalla vigliaccheria bigotta, dall’imbecillità.

Ciò che di giorno è emarginato, per volontà propria o per condizione, di notte si riscatta; si toglie quella gogna appioppatagli o quella cosciente aura difensiva (non ha più alcun senso o non serve averla), e si libra alto con grandi ali, libero, invisibile al giudizio artigliato e rapace, irraggiungibile da chi non brilla di luce propria.

 
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..della poesia..

Post n°6 pubblicato il 16 Agosto 2008 da zackdelarocha30
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La dimensione onirica che costituisce la “cifra” della poesia, che attraversa le situazioni – che, anzi, le “avvolge” – non è il movente della scrittura ma, al contrario, è il risultato a cui la scrittura giunge attraverso un processo di elaborazione concettuale che intende svincolare gli elementi del reale dai contesti cui appartengono per accrescerne il senso e proiettarli in una sfera che possa consentire ad essi di creare  un altro senso.

La poesia, quindi, non è rappresentazione verbale del sogno; è, invece, la realizzazione di una volontà, di una necessità, di un sogno. Perché il sogno (probabilmente soltanto il sogno) è la possibilità dell’estasi, dell’iperbole..

Ogni persona normale ha i propri sogni ad occhi aperti, le proprie fantasie che non confessa perché se ne vergogna o immagina che possano destare negli altri disapprovazione, se non ripugnanza. E’ un concetto già osservato da Freud; questi, nel saggio Il poeta e la fantasia, esprime la propria opinione: “la vera ars poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la quale è certo in stretta connessione con le barriere che si innalzano tra ogni singolo Io e gli altri. Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere egoistico del suo sogno ad occhi aperti attraverso modificazioni e velature; e ci seduce mediante il piacere dei suoni vocali che lo poesia stessa da al lettore. Il piacere, in tal senso, è di tipo formale, cioè estetico.”

Ora, il conflitto tra vergogna (o pudore) e necessità trova soluzione proprio nella scrittura. Perché è la scrittura che modifica, vela, nasconde, finge, che sradica – cioè – i referenti dal terreno della storia personale, e li amplifica e li dilata nell’infinito dell’immaginario.

Tra cosa e scrittura si determina insomma una distanza che mette in funzione un meccanismo di invenzione e di trasfigurazione che coincide con l’atto poetico.

Ma, soprattutto, la scrittura realizza: realizza il sogno che di conseguenza non è altro che linguaggio, reticolo di segni, ribollìo di senso, esaltazione dell’idea tramutata in forma. E si tratta di un linguaggio costantemente teso verso la metafora, l’analogia, il paradosso, il mito.

Ebbene, dalla “marea” del sogno emerge un’immagine, vorrei dire una visione, una fantasticheria (nell’accezione di idea fantastica) di donna. Più che donna, anzi, di creatura, personificazione di un’entità astratta, fatta di “cielo e di acqua”, fatta di sogno, e scolpita dal desiderio e dalla luce. Di certo esiste soltanto una figura fatta di sogno, creata dal sogno, che assume la forma che il sogno riesce a creare e che è determinata, provocata, quasi, dal desiderio e dal continuo tentativo di appagarlo. E la luce è, con ogni probabilità, simbolo dell’appagamento del desiderio. Tutto si verifica, allora, nell’ambito della sfera mentale; il desiderio è la molla della conoscenza.

Conoscenza di cosa? Di sé, certamente. Questa figura ideale per molti aspetti si presenta come una trasparenza del voler essere. Essa prende le forme di quegli elementi che si agitano nelle profondità della persona che scrive, che condiziona la sua esistenza anche senza manifestarsi.

L’acqua è la parola chiave, il simbolo centrale.

Solo la memoria è “pietrosa”, perché contiene il passato reale; è grumo, pesantezza, fissità, che si oppone al divenire del sogno. La memoria è tutto ciò che non è diventato ancora – o che non diventerà mai – sogno, e quindi levità. E’ storia, misura del tempo, segmento monosemico, contiene il senso dell’inizio e della fine, significa esclusivamente in relazione al vissuto.

Perché la poesia è questa lunga avventura intellettuale che intende rendere esemplare una vicenda mediante la sua trasformazione in sogno; è avventura intellettuale che scommette sulla possibilità di sfuggire alla cristallizzazione della memoria cercando nella poesia la situazione per riprodurre lo stupore. E, probabilmente, soltanto una vicenda d’amore poteva consentire un viaggio continuo tra la mente ed il cuore.

 
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