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Hannah Arendt, film, 2013, Germania, Lussemburgo, Francia, durata 113 min.

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In occasione della chiusura delle menifestazioni sulla della giornata della memoria posto questa conversazione avuta ieri nell'antica cioccolateria di San Lorenzo a Roma con la filosofa e germanologa Micaela Latini sul film Hannah Arendt, il processo Eichmann e la cosidetta banalità del male.

Micaela Latini commenta il film “Hannah Arendt”
di Margarethe von Trotta

Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male

Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno

di Riccardo Tavani

L’incontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente rammodernata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014,  in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30. Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dell’opera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini,  che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale. Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell'attrice polacca Barbara Sukowa.

Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un po’, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo l’invasione tedesca della Francia. Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò, in seconde nozze, il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni ‘50, diviso tra la vita familiare, lo studio, l’insegnamento, l’incontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy. Il film passa continuamente dall’uso del tedesco a quello dell’inglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. “Non è la lingua tedesca a essere impazzita!” dirà poi Arendt in un’intervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,

Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dell’Europa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoah. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai. Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.

Hannah Arendt, infatti, è inviata dall’importante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità, dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno chock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.

La pellicola inserisce all’interno della  sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce all’opera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a L’Istruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.

Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nell’anno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità, dall’Olocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dall’enorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è l’aspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. È un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo. È il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di un’efficiente esecuzione dei compiti da assolvere all’interno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito e glielo avessero ordinato.

Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto dei deportati, l’ufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà: “non ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreo”.

Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoah: quello di privare l’essere della propria singolare umanità. Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dell’umano al sub-umano, dell’oscena nudità dell’essere spogliato di ogni proprio sé. La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.

Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nell’humus del mondo ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo. Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dell’omuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dell’ingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva. Questa indifferenza funzionale, indipendente dall’attività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. È quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che quest’ultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.

È proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità, la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche l’intera comunità ebraica americana, europea e israeliana. L’indicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono – come storicamente è provato – con i nazisti alla Eichmann. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nell’occasione della Shoah. Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male. 

Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas,  quest’ultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione. La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta all’idea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dall’intolleranza nazista. La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.

La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dell’intera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.

Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti all’agorà, nella scena dell’agone colletivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso. È esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latini, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nell’anfiteatro a gradinate dell’aula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente all’uditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.

È il cinema stesso, dunque, ad essere opera estetica e insieme critica, politica e con questo suo film Margarethe von Trotta mette in atto, attraverso la stessa materia artistica, un aspetto quanto mai attivo e attuale del pensiero di Hannah Arendt. Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare. Neanche l’atto dell’interpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anch’esso si espone all’agorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia.

 

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Commenti al Post:
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 31/01/14 alle 07:09 via WEB
Donna interessantissima,particolare e coraggiosa Hannah Arendt.Mi sono sempre chiesta come potesse conciliare il fatto di essere ebrea per nascita,il suo grande amore per il maestro Martin Heidegger,nazista e la Shoa.Purtroppo non mi sembra che questo film sia uscito nelle sale padovane e me ne dispiaccio molto non solo per la sua rilevanza storica ,ma proprio per una conoscenza più approfondita di questa grande filosofa.Grazie per le tue conversazioni che qui condividi....
 
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 31/01/14 alle 13:45 via WEB
Mi correggo...solo stamane ho saputo che il film e' stato proiettato ieri sera all'MPX in centro a Padova....peccato!
 
 
cineciclista
cineciclista il 31/01/14 alle 16:51 via WEB
La società di distribuzione del film, la Nexo, ha adottato una strategia di comunicazione fatta di proiezioni singole, per eventi speciali, come quelli di questo periodo dedicati alla giornata della memoria dello sterminio nei campi di concentramento nazisti. Vogliono far crescere l'attenzione sul film prima di mandarlo normalmente in sala. Non hanno forse tutti i torti, a volte certi titoli e pellicole, come questa, sono accolte distrattamente e la gente non va a vederle nonostante sia pregevoli opere. Sta di fatto che anche al Cinema Farnese di Roma dovevano essere solo due serate speciali, ma dopo che hanno fatto il tutto esaurito e il film è stato applauditissimo dal pubblico presente, faranno altre due serate, e inoltre lo hanno messo fisso tutti i pomeriggi al primo spettacolo. Anche una multisala periferica ma abbastanza frequentata lo sta già proiettando quotidianamente. Così, speriamo che torni presto nella tua città.
 
   
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 01/02/14 alle 07:39 via WEB
Grazie!
 
     
cineciclista
cineciclista il 02/02/14 alle 17:26 via WEB
Ho fatto solo qualche telefonata, Eva, a sale cinematografiche di altre città, e poi verificato sul web. Posso dire che anche con quel capolavoro di SEARCHING FOR SUGAR MAN la distribuzione, Unipol Biografilm Collection, ha fatto così e ora lo ha messo direttamente in Home Video. Il cinema cambia pelle e possibilità di visione. Alle grandi multisale gli eventi effimeri di massa, con effetti sempre più speciali che incassano su campagne aeree di bombardamenti pubblicitari a tappeto. Ai film di nicchia e qualità i nuovi canali cross-mediatici.
 
jezabels
jezabels il 01/02/14 alle 18:19 via WEB
C'è un filmato originale dove "ignari" cittadini tedeschi vengono accompagnati volutamente a visitare i campi di sterminio appena liberati, lasciati intatti dopo tutto l'orrore prodotto.Mi sono soffermata su quei volti ripresi all'ingresso del campo e all'uscita.. poi ho pensato agli uomini che ad ogni fermata di quei treni con i deportati si sono adoperati per aiutare e far fuggire i prigionieri, a quelli che hanno nascosto i perseguitati in nascondigli dentro le loro case mettendo in pericolo anche la propria di vita...Mi sono chiesta allora cosa è che ci muove in modo tanto diverso. Sono certa di avere il bene e il male in egual misura dentro di me.Li ho immaginati nelle mani. Il bene nella mia immobilità si blocca. Il male invece ha una doppia potenza.Scorre. Si annulla solo se l'altra mano si muove. Non ho visto ancora il film ma conto di farlo prima possibile. Ciao Cine**
 
 
cineciclista
cineciclista il 02/02/14 alle 17:47 via WEB
È vero, Jeza, il male ha una doppia potenza, perché sa prendere anche le fattezze del bene. Molte piccole e grandi azioni umane, infatti, sono fatte in nome del bene, ma svelano poi il loro vero volto di male. Fare le cose bene, inoltre, può essere applicato anche al peggiore dei crimini. Solo se il tenente colonnello Eichmann avesse, infatti, svolto male i suoi compiti, sarebbe stato un bene, o un male minore. Forse già in ogni tipo di pretesa a disporre, attraverso il potere e la forza, di tutto si annida la radice di protervia del male umano.
 
legrillonnoirdestael
legrillonnoirdestael il 04/02/14 alle 00:51 via WEB
E' il benvenuto, se vuole http://blog.libero.it/MADAMEdeSTAEL/12636772.html
 
 
cineciclista
cineciclista il 04/02/14 alle 12:06 via WEB
Certi gentili inviti contengono già in sé anche il loro non meno gentile rifiuto.
 
   
legrillonnoirdestael
legrillonnoirdestael il 19/02/14 alle 19:23 via WEB
Ha ragione. Mi scuso con lei perché la mia non voleva essere un'intrusione: era il solo mezzo in mio possesso per chiedere a persone che sebbene sconosciute ho letto, e potuto ritenere presenze in grado di arricchire un simposio. La sua posizione è stata compresa, nonostante questo il mio invito resta valido. Se e quando lo volesse.
 
     
cineciclista
cineciclista il 20/02/14 alle 12:19 via WEB
Dato che lei, Legrill, non ha alcuna voglia o capacità di contribuire al piccolo simposio che è già il blog delle persone cui si rivolge, non si capisce come lei, anche ripetendosi piuttosto vacuamente, può poi pretendere che gli altri debbano adoperarsi per il suo. Nient’altro da dirle.
 
     
legrillonnoirdestael
legrillonnoirdestael il 21/02/14 alle 22:33 via WEB
Questo è fuori discussione: che io non abbia capacità artistiche e che non abbia talento letterario. Nella vita ahimè e per fortuna collettiva mi occupo di altro ma mi piace leggere e ammiro chi ha una buona maestria in campi che mi sfuggono, è per questo che volevo dar voce a chi ce l'ha, non a me. Il "mio" blog non esiste, esiste un blog, io non voglio che essere un grillo, minuscolo, invisibile, defilato e silenzioso. Se gli invitati si adoperano non lo fanno con l'intento di dar visibilità o vita a una mia proprietà. E' certamente vero che il simposio esiste già per ognuno di voi nel vostro personale blog, ma il mio esperimento non per forza voleva negarlo. Il suo punto di vista è accolto con rispetto e non voglio sottrarle altro spazio. Se dovessi tornare a scrivere nel suo sito sarà quando potrò rendermi parte attiva nella comunità di Libero. I miei omaggi.
 
     
cineciclista
cineciclista il 21/02/14 alle 23:59 via WEB
Per interloquire in un blog, Legrill, non bisogna avere nessuna delle qualità che lei elenca, né lei può venire a sostenere che è quello che io le ho contestato. Lei ha fatto un blog-esperimento con le caratteristiche che qui spiega? Bene, sono contento per lei e per chi vi partecipa e mi auguro possa riuscirvi nel migliori dei modi, così come Proust se lo augurava per i salotti che descriveva nella sua Recherche - pur senza farne parte.
 
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