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MARCO CARI: "SE MI CHIAMA IL FROSINONE A PARLARE CI VADO..."
Post n°2425 pubblicato il 05 Febbraio 2013 da dav763
Fonte: TuttoLegaPro.com A poche settimane dallo spegnimento della prima candelina di "Mi ritorni in mente", finalmente rompiamo l'ultimo tabù rimasto: l'intervista ad un portiere. Tra i tanti, ne abbiamo scelto uno che ha scritto pagine e pagine della sua vita con la casacca del Frosinone: stiamo parlando di Marco Cari. Con la maglia gialloazzurra dei ciociari ha disputato dieci campionati consecutivi, dal 1979 al 1989, partendo dalla D e sfiorando la B. Prima di cominciare la nostra chiacchierata vogliamo farvi partecipi di una riflessione che è nata mentre parlavamo con Cari. Di solito le interviste telefoniche hanno il difetto di non farti vivere il volto del tuo interlocutore, ma allo stesso tempo alleni il senso dell'udito a percepire ogni minima emozione che perviene dall'altra parte del telefono, un'inflessione della voce particolare, una pausa, un silenzio più lungo del previsto dopo una domanda, un'esclamazione nata dal pensiero che si formula per rispondere. Alla fine questi dettagli diventano un contorno, che toglie l'etichetta dell'intervista formale, in cui da una parte c'è uno che chiede e l'altro che soddisfa il tuo lavoro dando le risposte. In questo modo, si dà al contesto quel senso di romanzato che dà anche quel qualcosa di magico che ti fa assaporare il tutto con un piacere diverso. Le righe non scorrono più come un obbligo, quasi appesantendo lo sguardo, ma divengono un piacere e alla fine rimani soddisfatto e sai di aver dato al tuo tempo un valore diverso, sicuramente non sprecato. Nel caso in questione, ciò che ci ha colpito è il modo di comunicare di Marco Cari: vivo, molto genuino e per niente scontato. Trent'anni che vive nel capoluogo della ciociaria, così il suo "slang" assume un tono simpatico, godibile e parecchio divertente in certi frangenti. Marco Cari nasce a Ciampino nel 1956 e da giovane cresce nelle giovanili della Lazio. Parliamo degli anni '70, quando ancora la tv era in bianco e nero e iniziavano a circolare i primi giochi da computer con grafiche che viste nell'attualità del 3D farebbero inorridire. Dal 1975 al 1978 entra nell'orbita della prima squadra capitolina, ma lo spazio era relativo, visto che c'erano giocatori come Avagliano e Pulici davanti a lui. L'esperienza in un club di massima serie lo aiuta a crescere e nel 1978/79 finalmente la chance che attendeva: l'approdo al Teramo in C1. Nel club abruzzese gioca in cinque circostanze e inizia a sentire il sapore del manto erboso. Che diverrà il suo compagno preferito nel Frosinone, dove arriverà ad essere il giocatore che ha collezionato più presenze nella storia della squadra ciociara (287). Quando gliene parliamo, si sente che si emoziona: "Dieci anni della mia vita". Frosinone ancora oggi fa parte del suo quotidiano, visto che ci vive da qualcosa come trent'anni: "Qui ho conosciuto mia moglie, sono nate le mie figlie (ne ha tre, ndr) e qui ho vissuto momenti fantastici che non si dimenticano facilmente, lei mi capisce vero?!". La sua voce così simpatica, perde quel tono di cordialità per lasciare spazio ad un misto di tante sensazioni che si avvolgono dentro di lui. Il brivido di un ricordo è sempre qualcosa che ti lascia una traccia dentro. Con questo intento abbiamo voluto parlare con Cari e il professionista ha lasciato man mano spazio all'uomo. In questa intervista esclusiva concessa a TuttoLegaPro.com, un fiume di istanti si sofferma nelle sue parole, lasciando un alone diverso dal solito, avendo la sensazione di conoscerlo da sempre. Le formalità di rito vanno a farsi benedire fin da subito e si ha come la sensazione di sciogliersi il nodo della cravatta, messa per darsi un tono, ma con Marco Cari questi sono solo impicci: vero e onesto fino al limite del pensabile. Salve mister, partiamo subito con il carico pesante: 287 presenze con il Frosinone. C'è un aggettivo che le può racchiudere tutte? "E' una vita, come posso rinchiuderla dentro un aggettivo. Qui ci abito e ho conosciuto mia moglie, sono nate le mie figlie, ho gli amici. Frosinone non può essere un qualcosa di definito, perché è parte di me. Quella maglia è un qualcosa di magico che non si cancellerà mai". Come inizio non c'è male, prima di rispondere si sente che è sorpreso. Se l'aspettava questa domanda, visto che quando lo abbiamo contattato la prima volta, gli abbiamo spiegato di cosa si sarebbe parlato, ma questo colpo basso da parte nostra lo lascia un po' spiazzato e il sorriso che traspare dalle sue parole mentre le pronuncia ci fa comprendere di avere a che fare con un gentiluomo. Durante la chiacchierata uscirà fuori l'anima gentile di un uomo di campo che ha sempre vissuto "come un uomo solo". Così si definisce quando gli chiediamo del suo ruolo. Il portiere è sempre stato definito un ruolo anomalo: non costruisce, non crea, ma deve negare sempre. Una posizione la sua sempre in bilico tra idolo delle folle e raccoglitore primario di sberleffi. Non passa mai inosservato. "La mia vita professionale l'ho sempre vissuta così, da uomo solo. Il portiere è sempre lì, da solo in attesa del momento per poter far gioire o arrabbiare le folle. La stessa cosa - se ci pensi - avviene quando si sceglie la carriera da allenatore. Sei sempre lì immerso nella tua solitudine e sai di poter pagare per tutti, anche quando le responsabilità non sono del tutto tue". Le pesa? "Assolutamente no, anzi ti dirò di più: la solitudine in un certo senso ti aiuta ad avere padronanza del ruolo che hai. Nel caso del portiere, sai che in quei 7,32 metri (la lunghezza della porta) comandi tu e fai di tutto perché nessuno possa batterti". Lei ha iniziato proprio come portiere? "No no, ma è la storia di tutti i ragazzini che iniziano a giocare a calcio. Quando vedi che rischi di non giocare da nessuna parte, allora finisci per fare il portiere". Quindi le piaceva giocare in mezzo al campo? "Ero uno a cui piaceva fare gol, ma poi vedi che in ogni posizione di campo non c'era mai spazio, allora finisce che vai in porta e da lì è iniziato tutto". Con tutti i rischi del caso. Il portiere se sbaglia, difficilmente viene dimenticato. "Eh ma tutti i giocatori sbagliano. Solo chi non fa, non commette errori e si siede su un piedistallo di cristallo. E alla fine punti il dito, ma non concludi niente". Idee molto chiare e nette quelle di Cari. Le stesse che cerca di infondere nei suoi giocatori quando allena. Dopo aver appeso i guantoni al chiodo, ha preso il patentino da allenatore e dopo aver iniziato nel Ferentino (piccolo comune della provincia di Frosinone), ha iniziato la sua lenta salita fino ad arrivare in piazze importanti come Perugia, Taranto, Arezzo, Salernitana e l'ultima a Barletta. Ci sarebbe anche Andria la scorsa estate, contratti già firmati, ma non ha nemmeno iniziato il ritiro e al suo posto è arrivato Cosco. Noi quest'oggi vogliamo rivivere con lui il calcio che lo ha visto protagonista per dieci anni con la casacca del Frosinone. Ricordi, aneddoti, situazioni grottesche. Tutte cose condensate in questa chiacchierata che ora prende il volo per un viaggio nel passato. Mister, partiamo dal campionato di calcio 1980/81, il ritorno nei Pro. "Lo ricordo benissimo. Finimmo secondi nonostante non avessimo mai perso. Facemmo 18 vittorie e 16 pareggi, ma la Torres riuscì ad arrivare prima. C'è anche un aneddoto curioso dietro quella promozione". Ci dica... "Avevo fatto una scommessa con i miei compagni che non mi sarei tagliato più i capelli. A quei tempi la chioma era più fluente e per poco non mi arrivavano giù al fondoschiena. Ora, mio malgrado, quella capigliatura non ce l'ho più". Una risata accompagna quest'ultima riflessione. Parlare di quel calcio lo fa sentire più giovane e ogni pensiero è condito da un sorriso di orgoglio. Quello stesso orgoglio di aver vissuto una storia d'amore con una maglia che adesso è vissuta quasi come un indumento senza valore. Ce ne parla in particolar modo quando gli chiediamo cosa gli manca di quel calcio. "L'attaccamento alla maglia non c'è più, ora tutto è basato sul denaro e sono poche le scelte fatte per questo e non per soddisfare il proprio cuore. Non so se sia un bene o un male questa cosa, però adesso è tutto cambiato. Si vive in maniera più professionale, si fanno allenamenti mirati. C'è poi un'altra cosa che noto con stupore: c'è molta freddezza nelle emozioni. Oggi vinci o perdi, quasi non te ne accorgi, non vedi una reazione di rabbia o di gioia. Niente di niente. Porca miseria, io ricordo che quando la domenica si perdeva, il martedì era un pugno allo stomaco andare agli allenamenti. Ti passava la voglia e doveva arrivare il giovedì per sentirti già carico per la domenica successiva". In questa risposta c'è tutta la sua genuinità di cui vi abbiamo fatto cenno all'inizio. E' un passionale Cari e non lo nasconde per niente. Ha vissuto una carriera tra i pali, ma chi era il suo idolo? "Eh, quando ero ragazzetto il mio idolo era Albertosi. C'era la rivalità con Zoff e io, che ero un po' pazzerello (ride mentre lo dice) parteggiavo per Ricky, perché rendeva questo ruolo un qualcosa di unico. Troppo serio Zoff per me, però devo ammettere che alla fine della fiera, il suo atteggiamento sempre a fari spenti l'ha premiato con una carriera da applausi". Nel corso della conversazione, si ride e si scherza e la sua passione per il calcio esce fuori senza freni. Ci parla di tante cose, ma c'è un attimo in cui lo colpiamo nell'animo gentile. Quando gli chiediamo di mister Alberto Mari, artefice di quel Frosinone che ha fatto sognare un'intera provincia, conquistando la promozione in C1 nel 1986/87 "Il mister è stato un secondo padre per me, non era solo colui che ci allenava. Non poteva esserlo mai! Sotto il profilo strettamente professionale, era uno che ci faceva giocare bene. Squadra alta, attento ad ogni minimo dettaglio. Aveva un grosso pregio: sapeva lavorare sulla gestione del gruppo. Ogni tanto lo sento ed è sempre la persona splendida che mi ha insegnato tanto". C'è qualche compagno di squadra di quel Frosinone che ricorda maggiormente? "E come no: Davato, Lattuca, Malaman, Viscido, Pietrantoni, Ambu, Ciccio Artistico, Bellini. Ogni tanto con loro ci ritroviamo, ci facciamo gli auguri per le feste. Poi si sa che ognuno sceglie un percorso diverso e i rapporti, seppur ottimi, un po' si perdono. Non nego però che ogni volta è bello davvero rivedersi". Ci tolga una curiosità: le piaceva giocare sotto l'acqua? "Eh mamma mia! Devo dire che a Frosinone, al vecchio "Matusa", quando pioveva era davvero dura giocare. C'era un impianto di drenaggio a dir poco fatiscente, ma era un calcio diverso e neanche ci facevi caso. Mi ricordo una partita contro la Juve Stabia. L'arbitro provò a vedere il pallone se rimbalzava. E che volevi che rimbalzasse. Era completamente fermo il pallone. Giocare sotto l'acqua era esaltante, non lo posso negare". Senta, visto che siamo in tema: ma i ritiri come li passavate? "Ecco, ad esempio una cosa che si è persa oggi è proprio la forza dei gruppi, perché in ritiro ognuno se ne sta per i fatti suoi, con i telefonini, la playstation e tutte queste diavolerie elettroniche. Mentre quando giocavo io, in ritiro si passava il tempo con le carte: una partita a scopa, una a tressette, oppure si andava sul tavolo verde, il biliardo. Mamma mia, quante partite! C'era uno spirito diverso e questo poi lo si notava benissimo la domenica in campo". Ci può raccontare qualche episodio simpatico di qualche ritiro? "Vediamo, un episodio simpatico... Ne potrei dire un'infinità. Ad esempio, il primo che mi capita alla mente è avvenuto il sabato sera, prima dell'esordio nel campionato di C1 allo "Zaccheria" contro il Foggia, pensa un po' che battesimo di fuoco. Eravamo quasi tutti esordienti in quella categoria e ricordo come fosse ora questa cosa, che a distanza di anni fa mi fa ancora ridere: ero in camera con il difensore Pietrantoni. Questo alle 3 del mattino mi chiama e mi dice: "Marco, non so tu, ma io non riesco a prendere sonno". Io ero più teso di lui, ma cercavo di non pensarci. Così gli dico: "Va bene, ma non è che possiamo andare chissà dove. Scendiamo giù, facciamo due passi. Però ci conviene fare piano, che se si sveglia il mister, e chi lo sente a quello!". Fatto sta che ci prepariamo e appena scesi giù, troviamo tutti nello spiazzale. Notte insonne per tutti accidenti". Anche questa volta, una risata accompagna le sue parole. Furono anni fantastici quelli. "Lo puoi dire forte! Giocare in stadi come il "Cibali" di Catania, lo stesso "Zaccheria" di Foggia, il "San Vito" di Cosenza. Nel nostro primo campionato di C1 (1987/88) andammo anche al "Sant'Elia" di Cagliari. Roba da far tremare le gambe. Ma allo stesso tempo era esaltante giocare in certi palcoscenici". Prima di passare alle domande su Marco Cari allenatore, la domanda è d'obbligo: la partita più bella? "Anche in questo caso, ce ne sono tante. Non me ne vogliano a Latina, ma un Frosinone-Latina 3-0 che ci permise di ipotecare la promozione in C1 (17 maggio 1987). Fu una cosa bellissima e indescrivibile. La città era addobbata di gialloblù e un'ora prima lo stadio, completamente diverso da com'è oggi, era pieno in ogni ordine di posto. Solo quella prospettiva, da sola, ti metteva una carica enorme. Alla fine fu un trionfo". Passiamo adesso all'allenatore. Quale è il suo credo come modulo di gioco? "Io sono un tecnico portato ad essere propositivo, non mi piace rinchiudermi. Amo il bel calcio, non c'è dubbio". C'è qualche allenatore a cui si ispira? "No, senza peccare di presunzione, ma io sono Marco Cari e voglio vincere o perdere con una fisionomia di gioco dettata dal mio credo e non per aver copiato qualcuno. Certo, non nego che stimi Zeman, ma lui è troppo oltre e spesso nel calcio devi darti i pizzichi sulla pancia per andare avanti". Andiamo nello specifico: si smaltisce meglio una sconfitta da giocatore o da allenatore? "Mmmmmh! Bella domanda! Dunque, io credo che da allenatore hai meno tempo per smaltire la sbornia della sconfitta. Se da giocatore hai il tempo necessario per sbollire la rabbia, quando sei da questa parte, tutto cambia. E di molto. Devi congelare tutto in poco meno di 48 ore, visto che il martedì devi già essere con la testa alla prossima partita e quando hai perso, devi fare da psicologo sulla squadra, cercando di portare il gruppo ad un confronto sugli errori individuali". C'è una teoria che vuole i portieri nettamente più bravi sotto l'aspetto tattico nella lettura delle partite, quando decidono di fare gli allenatori. Lei è d'accordo? "Sicuramente quando sei tra i pali, noti tutti i particolari che agli altri sfuggono. Vedi realmente tutti i movimenti e gli errori che vengono fatti dai tuoi compagni. In un certo senso credo che la teoria non sia sbagliata. Se poi siano realmente i più bravi questo non lo posso dire io. Certamente i più vincenti sono gli ex centrocampisti, vedi Conte e Guardiola". Ultime due domande. La prima: esiste l'amicizia nel calcio, tra giocatori e allenatore? "Questa è dura, mamma mia! Credo che sia molto rara tra giocatori, mentre tra un tecnico e un giocatore ci può essere complicità, una specie di confidenza, ma non credo che possa esserci un'amicizia vera e propria". L'ultima crediamo che un po' se l'aspettava dall'inizio. Ma se la chiama il Frosinone? "Eh non lo so! E' difficile pensare una cosa simile. A mente fredda, io ti posso dire che sono un teorico del "nemo propheta in patria". Non so se riuscirei ad allenare la squadra della mia città. Sono pur sempre 30 anni che sto qui, ormai Frosinone è parte di me. Devi cercare di distaccarti mentalmente dal contesto in cui sei e non è semplice. Certo, se poi mi chiamano, io a parlare ci vado, ma ora come ora non credo che potrei accettare". Fonte: TuttoLegaPro.com |
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il 23/07/2012 alle 13:03
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