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« R'n'B from ParisCHI VA E CHI RESTA »

Parigi-Padova a lezione di laicità. Dalla Sorbona ad una cuccetta, una lezione di vita

Post n°77 pubblicato il 05 Novembre 2009 da djchi
 

Grigio. Pare brutto ma il colore che associo a Parigi è il grigio. Un colore che sa di nebbia e di goccioline di rugiada che abbracciano mani intirizzite fuori dai giacconi. La porta di passaggio per e dalla mia città è la Gare de Bercy. Da squattrinata quale sono mi invento ogni possibile artificio pur di risparmiare; specie per il viaggio, mi adeguo a tutto ciò che può essere funzionale come mezzo di trasporto, dall'autostop, ai bus, ai treni meno costosi.
Il treno di notte che passa da Padova e va diretto a Parigi è una specie di treno merci riadattato, lo si potrebbe quasi far passare per un vecchio treno riesumato per turisti chic che amano rivivere il passato. Potrebbe, ma invece di turisti russi milionari neanche l'ombra. Sul treno studenti dagli zaini come montagne, migranti africani di passaggio, turisti italiani stile 'Fantozzi' e gli immancabili giapponesi. Nulla di più interessante a livello antropologico che lo studio del micro-cosmo cuccetta.
Ogni volta che aspetto l'arrivo del treno, in meditazione con me stessa al binario, incrocio le dita sperando che il mio scompartimento sia magari semi vuoto, in modo da poter padroneggiare liberamente dei pochi metri disponibili, riuscendo a tirare fuori penna e quaderno per scrivere.
Da che mi ricordi non è mai successo, al contrario, mi ritrovo spesso con persone che già sono appisolate pigramente e con le valigie a riempire ogni piccolo spazio.
Come una porta che funge da frontiera tra due mondi, la Gare de Bercy mi fa entrare e uscire dal piattume padovano alla vita parigina, un risucchio da ciò che sono a ciò che potrei essere. E da dipendente quale sono del viaggio è proprio il passaggio che mi dà piacere. La mia settimana a Parigi è passata veloce come un soffio di vento improvviso sul viso che ti costringe a socchiudere gli occhi per un momento.
Ero partita in uno stato di debolezza fisica e mentale massima, in un momento di interrogativi e di scoraggiamento. Sapevo che Chatelet avrebbe curato tutti i miei mali. Neanche il tempo di arrivare che ero già lì, seduta dove tutto è cominciato. Davanti a me foglie gialle sparse facevano da cornice ad una serie infinita di voci e la mia mente molleggiava pigramente, abbandonandosi ad una pace immensamente calda.
Chiudendo gli occhi solo il suono melodioso dell'arabo, i passi veloci della gente e la musica hip hop che usciva prepotente dai mille piccoli negozi di rue Saint-Denis. Sì, qui tutto è Chiara. Seduta lì, nella piazzetta con la fontana, appena fuori Les Halles, e il vecchio ristorante dove ho lavorato per tanto tempo, L'Entrecote, riprendo contatto con la vita e vedo riapparire davanti a me quel percorso che un paio di mesi d'Italia aveva pian piano offuscato.
La gente qui non fa molta attenzione ad una piccola italiana con un quaderno in mano, che scruta e scrive, scrive e osserva, scrive e ride, sola. Davanti a me un signore si inginocchia improvvisamente e si fa il segno della croce, pregando ad alta voce. La gente attorno continua a passare, tranquillamente. Ragazzi di ogni età sfilano in passerella direttamente dai video rap di oltre oceano, confondendosi con gruppetti punk, rasta e donne francesi dai profumi forti e calze colorate.
Gli italiani sono ovunque. Sorrido ricordando che il motivo per cui me ne andai da Londra era il continuo sentir parlare in italiano. Siamo buffi noi italiani, ci infastidiscono le persone che scelgono il nostro paese come casa ma invadiamo le case altrui, traslocando prepotenti senza modificare più di tanto abitudini e lingua, ricostruendo mille piccole Italie in giro per il mondo. Contraddittori.
Hanno parlato e sparlato di Parigi eppure rimane ad oggi la città che più si avvicina a me, il luogo dove la mia anima si sente tranquilla e libera. Amo la metropolitana e la voce metallica del computer che indica le stazioni, scendere le scale mobili e trovarmi di fronte un'intera orchestra che suona una bellissima musica classica, osservare gli artisti che si esibiscono di vagone in vagone, le voci calde, il suono delle chitarre. Amo la sera vedere gli artisti esibirsi nelle piazze, improvvisando, tutt'attorno persone che ballano, ridono e fischiano alla gendarmeria arrivata dopo la telefonata di qualche parigino infastidito da sagre di paese improvvisate.
Adoro il profumo dei kebab, il falafel e la fonduta, i ristoranti giapponesi che si mescolano a quelli italiani, i negozi di marca dove mi lustro gli occhi con commessi tiratissimi e uomini della sicurezza come modelli di Vogue. Parigi, Parigi. Adoro lasciarmi trasportare dalla folla, il 'bonjour' inatteso di un negoziante appoggiato fuori dalla porta, le piccole boutique arabe, Chateau d'eau e i suo mille negozi africani, i ragazzi ivoriani che ti rincorrono per farti fare le trecce, i negozi dei cinesi e quelli hip hop. I mille negozi di tatuaggi. Il tatuatore adolescente biondo con i grillz. Le ragazze dagli orecchini enormi, le ballerine, i capelli afro; il vin brulé, i truffes e la erre pronunciata. Parigi, Parigi. Adoro i piccoli café francesi che sanno di muffa e di chiuso, di Baudelaire e Verlaine, mezzi vuoti e con vecchi proprietari dalle risate roche. Adoro passeggiare per rue Saint Denis, sbirciare tra i negozi di ingrosso, osservando le tante prostitute in attesa davanti ogni piccolo alberghetto, le calze a rete, rossetti rossi e cani al braccio. Sono sempre sorridenti e sigaretta in mano, profumo pesante e tette al vento. Rimarrà storica la mia preferita, over 40, stivali rossi e frusta in mano, in pieno giorno in attesa di farsi pagare per frustrare. Numero uno. Parigi, Parigi. Adoro lo slang delle banlieu, i cappellini con la visiera rigirata, le cuffie oversize, i pantaloni della tuta alla 'racaille' annodati alla caviglia, calzettoni di spugna e scarpe da ginnastica. Port de Cliancourt, la mia anima, il traffico, i business, la merce rubata, i biglietti delle discoteche, le magliette scritte in arabo, le coppie miste, le ragazze con il velo, i negozi senegalesi, gli ambulanti che vendono souvenir della Tour Eiffel, le bancarelle con le compilation dancehall e rap fatte dai ragazzi di banlieu, gli 'ouai allez y viens j te fais un bon prix, j t'arrange......', il profumo di pane, la bancarella jamaicana, il profumo delle canne, i vestiti usati, i libri che non si trovano più. Parigi. Parigi. La Tour Eiffel brillantinata, gli Champs Elysées la notte, in macchina, le risate di un gruppo di amici, tutti diversi per colore, genere, età, provenienza, accomunati da un'unica splendida cosa, questa città.
Riapro gli occhi e sono ancora qui, le foglie gialle colorano un pomeriggio grigio a Chatelet e penso che in fondo il mondo si può salvare, in una settimana l'ho capito, in fondo noi ci siamo riusciti, io, Sandrine, Laurent, Mas, Irma, noi ci siamo riusciti, abbiamo riso, abbiamo discusso, ci siamo confrontati, eppure siamo italiani, francesi, indiani, senegalesi, cristiani, atei, musulmani, studenti, lavoratori, disoccupati, poveri, ricchi.....siamo andati alla grande Moschea, ci siamo lasciati abbracciare dall'atmosfera di pace e dalla bellezza delle donne con il velo, dai loro occhi profondi e dalla loro sensualità, ci siamo fatti viziare dalla pasticceria marocchina e dal tè alla menta. Siamo andati per musei imparando a cosa serva l'archeologia, passando attraverso la storia del conflitto in Casamance, atlante alla mano, spiegato dal cugino sociologo di Mas. Irma ha conosciuto un po' di Senegal e occhi sgranati 'ma come non bevete?', ha sorriso di fronte ai diversi dogmi religiosi dicendomi 'Chiara pensaci, ragazzi così non bevono, non fumano, niente vizi', un silenzio dubbioso interrotto da una risata generale. Abbiamo parlato di politica italiana, della guerra in Afghanistan, delle caste in India, siamo andati per negozi e a mangiare piatti della Sierra Leone e del Ruanda. Abbiamo discusso di razzismo e di integrazione e Sandrine, davanti il monumento di Giovanna d'Arco mi ha spiegato il razzismo ipocrita e benpensante di molti suoi compatrioti, quello subdolo che mi ricorda tanto l'Italia, insito nei discorsi comuni e nelle parole, 'c'est un travail d'arabe' (è un lavoro d'arabo, per dire che è fatto male), 'tu coup le pain comme un juif' (tagli il pane come un ebreo, per dire che fai le parti tagliando la tua più grande) 'tu pu comme un noir' (puzzi come un nero, per dire che non ti sei lavato). Discriminazioni ad altezza d'uomo. Eppure per una settimana no, non c'è stata differenza, c'è stato solo l'incontro, un incontro semplice e naturale di amici, ognuno con la sua personalità e il suo carisma. 'Chiara......', mi mancherà sentire pronunciare il mio nome con l'accento francese.
Grigio, controsenso e contraddizione. Forse, ma io sono così, sono dancehall e filosofia, Padova e Parigi. Sono Gare de Bercy. Forse anche io sono grigia.
Il ritorno pesa sempre sul cuore e io rientro da quella porta che per una settimana mi aveva riaperto alla vita. La gente è sempre triste e annoiata alla stazione. Tutti corrono al vagone, come se il treno stesse per partire a momenti, corrono per accaparrarsi il poco spazio dei sarcofaghi-vagoni letto.
Questa volta non spero, non incrocio le dita. Salgo e mi metto a leggere. In dieci minuti lo scompartimento si riempie, due ragazzi del Pakistan, una ragazza giapponese, una signora triestina.
Disattenzione civile (Perché poi mi sarà rimasta così impressa proprio questa lezione del professor Pace??) La gente fa finta di nulla, si inventa un'indifferenza quasi impossibile in così poco spazio. Tutti vorrebbero attaccar discorso, nessuno lo fa , serve la miccia. Ad un certo punto ecco apparire lui, una specie di babbo natale dall'aria buffa e simpatica. Entra sorridendo e saluta tutti. Finalmente qualcuno che si ricorda ancora del buon vecchio galateo. Si presenta e porge l'acqua a tutti. Racconta di lui sorride. Un grande immenso sorriso. Riesce perfino a comunicare con uno dei ragazzi pakistani che non parla né inglese, né francese, si va di gesti.
Il vagone si trasforma magicamente in un salotto bene parigino, e tutti si lasciano andare a racconti autobiografici e confidenze, ognuno racconta del proprio paese. La signora triestina continua a leggere, alzando il sopracciglio in segno di disapprovazione ad un discorso o frase non gradita. Dopo cinque minuti si fa cambiare di vagone. La democrazia è anche questo, lasciare libere le persone di andarsene e di non partecipare al dialogo se non interessate. Fino all'una di notte si è discusso di Pakistan, politica estera americana, Italia ed Europa, della Sorbona e di Trieste, di Sgarbi, l'anti intellettuale per eccellenza, e dei migranti che vivono disseminati in tutta Europa, di Senegal e di Brescia.
Ad un certo punto, lui, il mitico pittore francese ha fissato tutti e richiamando la notizia del divieto dell'affissione del crocefisso nelle scuole in Italia ha detto a voce alta: “Io sono francese e credo ancora nella libertà, uguaglianza, fraternità su cui la mia repubblica è stata fondata. Io non credo a Dio, credo nella laicità dello stato e rispetto il fatto che tu creda in un Dio, tu in un altro, tu in un altro ancora. Io mi batterò sempre affinché tu, tu e tu abbiate questo rispetto da parte di tutti e se ci sarà bisogno morirò perché tu possa nel mio paese essere libero di credere nel tuo Dio, tu nel tuo, lei nel suo, io nel mio niente. Questa è la laicità. Perché alla fine è nel rispetto che sta la base di tutto, dobbiamo smettere di combatterci per il nostro credo, io ti preferisco vivo e anche tu dovresti preferirmi vivo, anche se non credo in niente, perché meglio un uomo buono che non crede a nulla che uno che si professa super credente ed è un pessimo uomo.
Ho scoperto solo la mattina dopo che quel pittore pazzo che tanto assomigliava a Babbo Natale era un grande professore della Sorbona. Lezione magistrale in un piccolo vagone letto di un treno notte. E chi la detto che per fare i migliori affari si deve spendere una grande somma?
Questo per me è grigio. Paris Bercy.-Padova una notte di novembre.

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