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Così Giorgio Falck mi svelò il segreto sull'oro di Dongo

Post n°20 pubblicato il 12 Maggio 2009 da GeppettoPinocchio
 

Così mi svelò il segreto sull'oro di Dongo

Giorgio Falck se ne è andato per sempre ieri mattina.

È morto nella sua casa di Milano dopo una lunga malattia, come scrivono i giornali in questi casi con retorica mista a rispetto.

Aveva 66 anni, vissuti alla grande. Prima gli onori e i privilegi del fare parte di una delle dinastie, i Falck, più ricche e potenti d'Italia. Poi le feroci liti in famiglia, soprattutto col cugino Alberto, per il controllo del gruppo. In mezzo il grande amore con l'attrice Rosanna Schiaffino finito in un divorzio devastante, la morte del giovane figlio Giovanni e la passione per le barche a vela al timone delle quali ha girato più volte il mondo. Storie note, quelle della vita di Giorgio Falck. Ma non tutte.

Ce ne è almeno una che l'imprenditore-velista custodiva con gelosia. Un segreto che si portava dietro da quando era ragazzo e che a distanza di tempo ha svelato a poche persone. Io sono una di queste, complice involontaria Carla Porta Musa, scrittrice comasca ultracentenaria, compagna di giochi di Giovanni Falck, padre di Giorgio, e figlioccia prediletta del nonno Giorgio Enrico, fondatore dell'impero.

Con la sua nuova e giovane moglie Silvia Urso, a Giorgio Falck capitava di passare qualche ora nella villa di quella vecchia amica di famiglia, una seconda mamma-nonna, e giocare con i ricordi. Chi era presente era persona fidata. Garantiva Carla.

E così un pomeriggio, nella primavera del '99, me presente, Falck si lasciò andare. «Della mia famiglia ne sai più di me - disse rivolto alla padrona di casa - ma una cosa credo che nessuno ti abbia mai detto. Noi Falck sappiamo che fine ha fatto l'oro di Dongo ma abbiamo sempre taciuto per un patto fatto tanti anni fa con chi lo prese».

L'oro di Dongo è uno dei misteri insoluti d'Italia. Storici, giornalisti e magistrati per anni hanno indagato cercando inutilmente di capire dove fosse finito il tesoro, o presunto tale, che avevano con sé Benito Mussolini e i gerarchi fascisti in fuga lungo la strada che costeggia il lago di Como con meta la Valtellina o più probabilmente la Svizzera. Fuga che terminò il 27 aprile del 1945 a Dongo quando la colonna dei gerarchi venne bloccata dai partigiani.

I fascisti furono fucilati sulla piazza, il Duce fu preso prigioniero e trasferito poco distante, a Giulino di Mezzegra, dove venne ucciso due giorni dopo insieme a Claretta Petacci. Dei documenti, forse il carteggio con Churchill, che Mussolini aveva in due borse di cuoio e delle casse probabilmente zeppe di oro e valuta non si seppe mai più nulla. Sparite.

Secondo gli americani il tesoro valeva 610 miliardi di lire e comprendeva, tra l'altro, 42 chili di lingotti, 66 chili di gioielli d'oro, duemila sterline d'oro, 21mila marenghi d'oro, e 35 chili di argenteria. Dongo è un paese molto caro ai Falck.

Qui, il 12 maggio del 1866 è nato Giorgio Enrico, fondatore dell'impero. Qui, nel 1945 e fino a pochi anni fa, aveva sede uno delle più grosse acciaierie del gruppo Falck. E proprio da questo stabilimento partì il racconto-confessione fatto da Giorgio Falck a casa Porta Musa: «Ricordo che ero appena laureato e come primo incarico mio padre mi mandò a fare apprendistato nella fonderia di Dongo», disse. La sua mansione era precisa: doveva fare un progetto per ristrutturare il complesso, abbattere dei capannoni, costruirne di nuovi.

Le cose sembravano filare liscie fin quando il leader dei sindacati interni, un ex capo partigiano del posto, chiese di parlare al figlio del boss. «Venne da me - ci raccontò Falck - e con aria solenne mi disse: il suo progetto prevede di abbattere un piccolo forno. Lei questo non lo può fare, perchè quello è l'altare di tutti noi operai e abitanti di queste zone». Giorgio Falck non capì, non poteva capire. E allora il sindacalista-partigiano gli svelò il segreto sul quale, siamo agli inizi degli anni Sessanta, si stava arrovellando mezzo mondo.

L'oro dei fascisti era stato portato quella stessa mattina del 27 aprile '45 dentro l'acciaieria e fuso nel piccolo forno lontano da occhi indiscreti. Trasformato in migliaia di piccoli lingotti, facilmente occultabili e trasportabili, fu distribuito agli operai, agli abitanti affidabili e amici, ai partigiani anche a quelli venuti da Milano su ordine del Comitato nazionale di liberazione. Per questo il tesoro non fu mai trovato. Semplicemente, perchè in poche ore non esisteva più come tale.

Ovviamente chiesi a Giogio Falck: scusi, ma perché non l'ha mai detto? E la risposta fu: «Perché portandomi davanti a quel forno-altare mi fecero rifare quel giuramento che loro stessi avevano fatto tanti anni prima. Giurai di mantenere il segreto». Il giorno dopo chiamai Falck al telefono e tentai di convincerlo ad autorizzarmi a pubblicare questa storia. Fu irremovibile: «Me la porterò nella tomba e se lei scrive qualche cosa io la smentisco». Non fu necessario perché ovviamente non scrissi. Fino a oggi che l'ultimo sottoscrittore di quel patto per il silenzio se ne è andato. Restano tre testimoni del suo racconto e la sua verità che è giusto consegnare, se non alla storia, almeno alla cronaca.

 

di Alessandro Sallusti

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