Deandreando

Beniamino Cannas al processo Rostagno


         Egregio Direttore (Giornale di Sicilia), con riferimento agli articoli da Voi pubblicati concernenti le deposizioni del testimone (non imputato) luogotenente Beniamino Cannas, afferenti al processo Rostagno, a firma del giornalista Gianfranco Criscenti,vorrei poter esprimere qualche riflessione. Nel fare ciò, essendo fratello del sottufficiale in questione, consapevole di poter apparire uno scrivente di parte, voglio preliminarmente circoscrivere il perimetro comunicativo all’interno del quale intendo muovermi.A prova del fatto che ciò che scriverò non sarà strumentale (né a difesa né contro qualcuno, semmai, a favore o contro qualcosa), virgoletterò, omettendo di citare me stesso, ciò che si trova in un capitoletto dedicato al linguaggio nella duplice polarità di parola e scrittura, nel saggio, La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De André (Segno, 2006), così da dare la possibilità di distinguere i miei pensieri pregressi, virgolettati, da quelli opportunamente formulati, sottolineati.“Ogni atto linguistico ha un duplice e inseparabile aspetto: l’esigenza di manifestare un’emozione, sentimento, pensiero e la necessità di riuscire a farci intendere dal nostro interlocutore. Può succedere allora che parole[…] che percepiamo come insufficienti, imperfette ad esprimere la realtà cui si riferiscono”, risultino “tuttavia in grado, nell’assenza di ponderazione, di emettere categorici giudizi. Si generano, così, classificazioni semplificate, stereotipi, nel tentativo di rendere più semplici le cose[…]. Da qui la necessità di definire gli usi che facciamo delle parole. R.M.Pirsig, nel suo famoso romanzo, Lo zen e l’arte della manutenzione… afferma che il giudizio è minacciato da una trappola, la trappola della logica sì-no, e Massimo Baldini, in uno studio specifico, compone un elenco costituito da 12 errori da evitare. Anche qui troviamo la grossolana applicazione della logica a due valori che è come dire se un avvenimento non è nero allora è bianco, senza possibilità di sfumature. Particolarmente attiva è la trappola rappresentata dall’impropria estrapolazione”.Dopo questa generale e sintetica premessa sul linguaggio “Vorrei introdurmi alla parola scritta, compiendo una piccola digressione: cosa c’è, da un punto di vista fenomenologico, prima della parola? La risposta immediata è niente. O, per meglio dire, il silenzio, l’assenza del suono, la pagina vuota. Allora il silenzio è lo scenario a partire dal quale la parola prende forma? Ma cosa vuol dire silenzio? Vi sono culture, filosofie e religioni che vedono il silenzio carico di Altro messaggio, non sinonimo di niente! Dio crea con la parola, essa è ordinatrice, causa ed effetto… Il silenzio, come tutta la creazione, è toccato da quella parola divenendone custode anch’esso. La parola degli uomini in quanto espressione di sé è imprecisa, precaria, epifania del nostro limite. La parola scritta, all’interno di questo quadro, sembra denunciare proprio lo scarto, la minima somiglianza e massima differenza, che intercorre fra le due parole, Divina e umana. Essa tenta di impegnarsi di più, di penetrare di più, di immergersi in quel silenzio per riportare in superficie frammenti di verità fondale. La parola, se autentica, genuina, se ha consapevolezza di sé, ha la responsabilità di ciò che produce e delle modificazioni che genera. Così il Silenzio può essere rispettato, profanato o svelato. Scrivere vuol dire essere disposti a riflettere di più, obbligati ad esprimere con determinazione e chiarezza i propri pensieri, e ciò comporta una maggiore coscienza di sé [...]. Secondo Barthes, la scrittura” mentre parla dell’oggetto, “ci parla del suo autore, dalla parola scritta potrei risalire alla mano, alla nervatura”.Stando alle parole di Roland Barthes, mi chiedo e le chiedo, una scrittura insinuante, ammiccante, che suggerisce senza esplicitare, che indica conclusioni senza analisi, che si schiera senza conoscere, di che autore ci parla? Una scrittura che esprime costernazione per qualche avvenimento non ricordato, accaduto più di vent’anni fa, senza spendere una parola sui processi intrinseci della memoria medesima (avrebbe scoperto che di straordinario è il ricordo e non il suo contrario) può essere ritenuta una scrittura imparziale, obiettiva ed equidistante? La scrittura che ricerca il vero, atto di solenne liturgia, può essere sommaria e approssimativa? Personalmente ritengo che l’umana e legittima aspirazione di trovare i colpevoli di un delitto, non debba mai cedere alla facile e diabolica deriva di accontentarsi d’indicare improbabili corresponsabili. Ringraziandola per il tempo dedicato alla lettura della presente, le auguro buone cose.Ettore Cannas