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HARRY WARREN

Post n°4 pubblicato il 15 Aprile 2009 da irsdd

La storia di un altro grande calabrese dimenticato

Harry WARREN (Salvatore Antonio Guaragna)

 

   Fu al tempo della prima grande ondata migratoria post-unitaria, quando, tra il 1876 e il 1915, quattordici milioni di Italiani partirono per “fare l’America” stipati su sovraccarichi (molti, anche bambini, affrontavano l’intera traversata sul ponte all’addiaccio), malandati piroscafi, che erano vere e proprie carrette del mare, dove, spesso trovavano la morte per i patimenti e le malattie (i piroscafi erano privi di sala mensa, di infermeria e, naturalmente di medici a bordo), che Antonio Guaragna, di mestiere stivalaio, partì da Cassano, con la speranza di guadagnare quel tanto per migliorare la non florida vita della sua famiglia, in seno alla quale certo sarebbe ben presto tornato. Andò e, naturalmente, non tornò, ma fu tra i più fortunati, perché ebbe la possibilità, dopo incerta fortuna, di ricongiungersi alla famiglia. Andò in Argentina, ma fu peggio che in Italia, nonostante la presenza di tanti altri Calabresi. Pensò di trasferirsi a New York, dove, aperta un’attività commerciale a Brooklyn, cominciò a fare gli affari giusti per poter chiamare a sé la moglie Rachele e la numerosa famiglia lasciate a Cassano. E a Brooklyn, il 22 dicembre 1893, nacque Salvatore Antonio, il futuro signore del musical americano conosciuto come Harry Warren, uno dei grandi dimenticati dalla madre patria.

   Tuti (com’era chiamato il piccolo Salvatore), crebbe con la passione musicale propria di tutta la famiglia, com’egli stesso ebbe a dichiarare: «la nostra poteva dirsi una famiglia musicale solo nel senso che si amava la musica e si cantava insieme, ma non c’era un pianoforte; il che mi dava pena, perché avevo desiderio di suonare».

    L’Italo-americano Generoso D’Agnese così ha tratteggiato vita, opera e fortuna del grande Harry, uno dei più celebri compositori musicali del cinema e del teatro americani vincitore di tre premî Oscar: «La sua musica ha accompagnato migliaia di vite durante il XX secolo e ha fatto da sottofondo a numerose storie delle varie generazioni, ma sono davvero pochi  coloro che associano il suo nome a quello di un figlio italiano d’America, onorando un altro tassello di quell’eccezionale mosaico d’umanità che ha caratterizzato la presenza peninsulare d’Oltreoceano.

   I suoi motivi musicali ancora oggi vengono eseguiti e canticchiati da molti uomini, ma non è facile ricordare il suo nome: Harry Warren. E ancor più difficile è rintracciare, dietro la facciata anagrafica anglosassone, un artista dal nome inconfondibile: Salvatore Antonio Guaragna».

   Il piccolo Salvatore frequentò con profitto la scuola, evidenziando un precocissimo talento per gli strumenti musicali e deliziando i suoi compagni e i suoi insegnanti con la batteria, la fisarmonica e il pianoforte. Questo, tuttavia, non bastò a far proseguire la sua strada in modo agevole: era emigrato, era italiano, voleva fare il musicista. La sorella maggiore, intuendone il potenziale artistico, lo incoraggiò sulla strada della musica, e, perché il fratello mimetizzasse la sua origine italiana al fine di vedersi aperta più facilmente la porta del successo, gli suggerì di cambiare il nome, adattandolo in quello, più familiare agli anglosassoni, di Harry Warren. Il suggerimento della sorella era dettato dalla paura che a Salvatore potesse accadere quello che ad altri Italiani era accaduto. Erano ancora presenti nella memoria i fatti verificatisi appena tre anni dopo la nascita del fratello. Il 3 agosto 1896 l’agenzia Reuter batteva la notizia che a Hahneville, New Orleans, la folla aveva tratto fuori dalla prigione cinque italiani accusati di assassinio, e li aveva linciati. La giustificazione del delitto fu che nei mesi precedenti in città erano state assassinate undici persone senza che si scoprissero i colpevoli. Ma si scoprì sùbito che i cittadini assassinati non erano americani, ma emigrati italiani, tutti provenienti dalle regioni meridionali. Il 22 agosto dello stesso anno cominciava in Brasile la caccia agli Italiani. Il 21 luglio 1899 in Luisiana, a Tallulah, nella contea di Madison, cinque operai italiani, che erano venuti a diverbio con un cittadino americano, furono linciati dalla folla e lasciati morti sulla strada. Furono episodi codesti, e tanti altri di violenza e di umiliazioni inenarrabili, che gli emigrati italiani misero in conto per le loro scelte future, comprese quelle, certo sbagliate, della via del gangsterismo. Salvatore-Harry, tuttavia, non si preoccupò molto della sua doppia identità anagrafica, e al nuovo nome prepose spesso sulle copertine degli spartiti musicali quello suo vero di Italiano rimasto legato alla patria lontana del padre e sua.

   Imparò a studiare la musica, frequentando il coro nella chiesa del suo quartiere italiano, e a sedici anni decise di terminare il suo impegno scolastico per aggregarsi a un circo con l’incarico di tamburino. Nel 1915 si avvicinò al cinema, ottenendo un ingaggio dalla Vitagraph Movie Studio di New York. Suonò per la diva del cinema muto Corinna Griffith, ritagliandosi fin dal primo momento un suo proprio spazio nell’àmbito della musica melodica, e cominciando a far intravedere quella sensibilità, che lo avrebbe fatto, in sèguito, affermare come uno dei grandi innovatori della musica popolare americana alla stregua dei grandi J. Kern, G. Gershwin, C. Porter, Rodgers, anche se la musica di Gershwin e di Porter era fortemente influenzata dal jazz, e quella di Warren meno dalla musi­ca afroamericana e più da quella di matrice italiana. Basti pensare, per il loro tipico melodizzare italiano, solo per fare qualche esempio, a Bythe Rivers Sainte Marie del 1931, inciso da Tommy Dorsey e Jimmy Luncerford, poi lanciato da Nat King Cole, e a That’s Amore inciso e portato al successo nel 1955 da Dean Martin, altro grande cantante italo-americano con Frank Sinatra, Perry Como, Frankie Lane, Frankie Avalon, Jimmy Durante Tony Bennett, Madonna, Anna Moffo, Mario Lanza, Connie Francis Lou Monte, Louis Prima, Liza Minnelli tanto per citarne qualcuno, e adottato quasi come un inno dalla comunità italo-americana. In quegli anni, in cui si affermava il  primo cinema, Warren interpretò anche alcuni film, come comparsa, mentre in altri svolse il ruolo di aiuto regista.

   Nel dicembre 1917, mentre era ancora in servizio nella Marina Militare a Montark Point, New York, sposò Josephine V. Wensler, da cui, a metà del 1919, ebbe il figlio Harry Jr., poi deceduto il 1940 a soli diciannove anni. Nel 1922 arrivò il suo primo vero successo di giovane autore: il suo pezzo “Rosa del Rio Grande”, eseguita da Edgar Lesile, divenne, infatti, una vera e propria Hit, e lanciò Warren tra i protagonisti della musica dell’epoca. I suoi brani incontrarono sùbito il favore del grande pubblico, e due sue composizioni guadagnarono il primo posto nella hit parade nel 1923: Home in Pasadena e So This is Venice divennero pezzi culto dell’epoca.  Il successo si confermò tre anni dopo con dieci brani pubblicati nel solo 1925, di cui ben cinque scalarono la vetta della classifica. L’anno successivo altre due canzoni scalarono l’hit parade americana e il 1928 il brano Nagasaki gli assicurò un vero e proprio trionfo mondiale. Dal 1929 al 1932 tenne l’incarico di amministratore della Società Americana dei Compositori, Autori e Pubblicitari (ASCAP).

   Sempre in vetta alle classifiche di tutti gli States, il 1931 Warren prese a lavorare intensamente per il cinema (Spring is Here) e i musical di Broadway (Sweet and Love e altri due show interpretati da Fannie Brice ed Ed Wynn, e The Wonder Bar di Al Johnson).

   Tra il 1932, anno in cui scrisse, vincendo l’Academy Award, la colonna sonora del film 42nd street, da cui derivò un musical di successo, e il 1939 egli scrisse 149 musiche per film, tra cui September in the Rain con Gene Kelly, interpretate, poi, dai più grandi cantanti non solo dell’epoca, e comparve anche, interpretando se stesso, nel film citato e in Go into your Dance. Il 1935 si assicura il primo Oscar con Lullaby of Brodway del film Gold Diggers of 1935 con Dick Powell.

   Il 1940, dopo la morte, come abbiamo visto, dell’unico figlio, alla Twentieth Century Fox Studios cominciò a collaborare con Glen Miller, Shirley Temple, Carmen Miranda, Harry James, scrivendo, in tre anni settanta brani musicali di grande successo e interpretati, come sempre, dagli artisti più famosi. Per Miller scrisse Chattanooga choo choo, divenuta sùbito celebre in tutto il mondo e premiata con il primo disco d’oro della musica leggera per aver venduto più di un milione di copie. Sùbito dopo, nel 1943, con You Never Know (il film è Hello, Frisco, Hello), si aggiudicò un altro disco d’oro e il secondo premio Oscar.

   Scrisse, negli anni successivi, ancora musica per film, vincendo il terzo Oscar con la canzone On The Atchion, Topek And The Santa Fe cantata nel film Harvey Girls (1946), di cui era protagonista Judy Garland, e lavorando con Ginger Rogers, Fred Astaire, Bing Crosby, Jerry Lewis, Gene Kelly, Esther Williams, Dean Martin e con altri grandi del musical fino all’età di ottantasei anni (Manhattan Melody, 1980), anche se, man mano, il suo stile musicale non incontrava più il favore delle giovani generazioni affascinate dal rock.

      Morto il 22 settembre dell’anno successivo a Los Angeles, fu sepolto nel Westwood Memorial Park di quella città. Sulla targa di bronzo della sua tomba la moglie fece incidere le prime note della canzone You’ll Never Know, il nome del marito, gli anni di nascita (errata) e di morte, e la scritta Amato marito, padre, compositore. L’Amministrazione Comunale di Cassano gli ha dedicato una strada della frazione Lauropoli, ma egli attende ancora il giusto tributo dalla distratta patria d’origine.

Salvatore Guaragna è, insieme a tanti altri, l’emblema di tutti quegli Italiani, e Calabresi, in particolare, i quali reagirono al disagio di emigrati emarginati e, spesso, perseguitati, scegliendo con caparbietà la via dell’affermazione personale assicurata dalla volontà e dall’impegno, integrandosi perfettamente nel complesso e variegato tessuto americano senza rinunciare alla propria identità.

   Non è il solo, Salvatore Guaragna, a essere un grande dimenticato dalla Patria. Altri illustri uomini calabresi gli fanno compagnia: Italo Carlo Falbo, direttore del Progresso Italo-americano dopo esserlo stato de Il Messaggero in Italia, amico di Pirandello, con cui fondò la rivista Ariel, critico musicale, musicista compositore egli stesso, parlamentare, medico e botanico; San Gregorio Abate, l’amico di Ottone II e della regina Teofano, che diffuse la cultura bizantina in Germania, dove ancora oggi è il santo più venerato; Cosmo Granito, il medico filantropo eroe della rivolta antispagnola accesa a Napoli da Masaniello; e, tra i contemporanei, Saverio Strati, il più grande scrittore italiano vivente, giusto per fare un nome, visto che se ne sta parlando tanto in questi giorni   Quanti ancora, dunque, da ricordare? Tanti. Se ne scriverà di volta in volta, fornendo le notizie essenziali, lontano dalla tentazione di tessere panegirici.

 

                                                                                              Leonardo R. ALARIO

 

 
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VISIONI DELL'ALDILA'

Post n°3 pubblicato il 21 Marzo 2009 da irsdd

Pare che intrattenersi sulla visione dell’aldilà, così com’è stata maturata nel tempo dall’uomo di ogni luogo, segnata da un simbolismo, che si ritrova nell’Avesta  come nel Folk-Lore europeo, come nelle leggende islamiche, e, soprattutto sulla concezione presente di essa, non sia più di moda. Chi si appresta a farlo, rischia di esser tacciato di inadeguatezza culturale, orientando il suo sguardo verso l’inattualità. Ma intrattenersi su immagini, simboli e segni dell’aldilà, in tempi, i nostri, in cui il mondo ultraterreno suscita l’interesse talvolta ossessivo del pubblico alimentato da film demoniaci, episodi di satanismo, fenomeni di possessione, movimenti laici, che propongono la santificazione di Grace Kelly o di Lady Diana, è veramente inattuale?

Se diamo uno sguardo alla concezione dell’aldilà attualmente presente nel nostro immaginario, si fa sùbito evidente la coesistenza di concezioni tradizionali e nuove. Tra rifiuto dell’esistenza dell’aldilà, persistenza di credenze folkloriche, immagini presenti nella letteratura medievale, ecco situarsi una concezione dell’aldilà, che si fa spesso coincidere con l’Inferno, regolato da un regime di vita simile a quella quotidiana. L’Inferno è qui con i dolori, le angosce, gli strazî, con cui noi stessi, stando insieme, segniamo la nostra vita. Quest’ultima concezione rende tutto più facile: l’Inferno è il nostro mondo, ne facciamo parte, ci siamo così abituati che non lo vediamo più. L’aldilà, insomma coincide con l’aldiquà, e viceversa. Le altre visioni della vita ultraterrena prevedono un rischio, che bisogna affrontare con cautela. Nella cultura cosiddetta popolare, che non necessariamente coincide con quella contadina, e che, per quanto aggredita da nuovi e pressanti processi di deculturazione, ancora resiste e, in alcuni casi, rinverdisce, l’aldilà, o mondo della verità, è separato da quello dei vivi e, al contempo, ad esso contiguo, tanto che fra di essi si aprono varchi. Al mondo dei morti si giunge attraverso la Via Lattea, il ponte sottile (di credenza più vasta e antica di quanto si possa immaginare), che l’anima deve attraversare con leggerezza. Il peso dei peccati la farebbe barcollare e precipitare giù fra le fiamme dell’Inferno. Ma ogni anima è buonanima. E se ha bisogno di suffragi, ecco il canale giusto per comunicare ai vivi il suo stato nell’altro mondo: il sogno. O la veggente, come Natuzza Evolo di Paravati. La morte è il  viaggio definitivo, e come per ogni viaggio sulla terra l’anima ha bisogno di pane e acqua e danaro per affrontare il suo. Non a caso davanti alle fotografie, esposte insieme, dei morti e degli emigrati (anch’essi partiti per sempre) si accende un lumino. Non solo di pane e acqua è dotato il morto. Indumenti, attrezzi di lavoro, oggetti cari sono il suo corredo: il viaggio deve’essere affrontato senza disagio, scongiurando lo smarrimento, il senso di vuoto, l’angoscia dell’ignoto, domesticando, insomma, lo spazio ultraterreno. La morte è, dunque, un viaggio pieno di insidie, spesso spaventoso, che si può evitare, affrontandolo simbolicamente in vita. Con un complesso rituale, in cui il gesto è palese e la parola sussurrata, il vivo affronta il suo viaggio come se fosse morto, recandosi con tutto il corredo previsto verso la chiesa di San Giacomo, il santo, che guida l’anima del morto per la Via Lattea. Il rituale si attuava a Modica in Sicilia, la notte tra il 24 e il 25 luglio, festa di San Giacomo, appunto.

                                                                           Leonardo R. Alario

 

Visioni dell'aldilà 

 
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LA FESTA PERDUTA

Post n°2 pubblicato il 20 Marzo 2009 da irsdd

La festa perduta

 

   Era festa, a Cassano, il giorno di Santa Filomena. Ci si svegliava, la prima domenica di agosto, coi grugniti striduli dei porcellini, di cui si faceva gran mercato. Ci si vestiva in fretta e, senza soldi in tasca, si correva a Sant’Agostino, dove la fiera ci aspettava coi galletti impastoiati, il sorbetto di ghiaccio grattato, i fichi d’India, i torroni, le noccioline, i cocomeri, i mostaccioli, le faccette nere e le bancarelle stracolme di giocattoli di cartone e di latta, cappelli di paglia, vestiti usati, zappe, bidenti, falci; dove la Santa dei  miracoli ci aspettava tra odor d’incenso, fumo acre di ceri, afrore di sudore stantio, grande calca, canto solenne e appassionato di tante voci:

 

O Santa Filomena,

                                                           Figghja d’ ‘u Spirdu Santu,

                                                           Accetta il mio canto

                                                           Co’ lla tua gran gran santità.

 

   Santa Filomena. Bella, i capelli biondi inanellati, il volto roseo, gli occhi perduti al cieli e la palma in mano, la veste ricamata d’oro. Introibo ad altare Dei, il sacerdote, con la splendida pianeta rossa, simbolo di martirio, incedeva solenne sui bassi gradini dell’altare maggiore, ad Deum, qui laetificat juventutem meam. E le donne, sudate, abbandonate, rapite:

 

                                                           Filomena risponde:

                                                           - O caro padre mio,

                                                           La Vergine Maria

                                                           No’ lla posso mai più lascià’ -.

 

   La chiesa di Sant’Agostino ribolliva, c’era ressa, c’era frastuono di voci oranti basse, vibranti, alte, frementi, balbettanti, singhiozzanti. Alla santa dei miracoli i miseri gridavano la loro angoscia, a lei affidavano la loro speranza:

 

                                                           Filomena fu ‘nchiusa

                                                           Il giorno ventisette,

                                                           Maria le cumparette

                                                           E le fece questo parlà’:

 

   I cieli aperti le donne oranti volevano che accogliessero le loro preghiere, come nella mezzanotte dell’Assunta, quando, ancora a Sant’Agostino, sul sagrato, in ginocchio all’aperto, elevavano la loro preghiera, sicure che nella notte misteriosa, in cui i Cieli si spalancano ad accogliere nella gloria la Madre di Cristo, la Madre di tutti, anche la loro voce sarebbe salita fin lassù, e sarebbe stata udita, e la loro parola accolta e le loro richieste esaudite:

 

- O Filomena cara,

statti custant’e forte,

ca li Celest’aperte

tutt’a ttia stan’aspettà’ -.

 

   Era un andirivieni per tutto il giorno. La ressa in chiesa si moltiplicava per il largo e per le strade adiacenti. La banda musicale, quella celebre del maestro Giannicola, intonava all’infinito inni e marce trionfali, e ad essi si frammischiavano i ritmi serrati delle tarantelle, eseguite con irrefrenabile accanimento da organetti, tamburelli, bottiglie e chiavi con la comparsa sporadica di qualche cupi cupi, a cui nessuno badava, perché quello era strumento per la notte di Santa Lucia e per il Santo Natale. Il frastuono era grande, la folla tanta, i venditori gridavano la loro mercanzia, i maialini grugnivano disperati, il caldo faceva il resto, e il bibitaro, quello del ghiaccio grattato con lo sciroppo, un tipo alto, allampanato, secco e ossuto, un po’ adunco, le mani artigliate, con cui ghermiva l’intero blocco di ghiaccio, e il cocomeraio, tondo come i suoi meloni d’acqua, facevano i loro affari. Lo spirito della festa aleggiava e impregnava di sé uomini, animali e cose.

 

                                                           E ‘nnu bikkìer’ ‘i gakkua,

                                                           ‘Na ffeddhicèddh’ ‘i péane,

                                                           La bella Filomena

                                                           Più bella mo’ si farà.

 

   Compiuto il rito, pregata, cioè, la Santa con tutto l’abbandono dell’anima e del corpo, baciata la sua veste di broccato, sfregato il fazzoletto sul suo viso, pieni di speranza, anzi, certi di ottenere ciò che avevano chiesto con tutta la forza del loro essere, carichi della potenza della taumaturga tanto celebrata dal Santo Curato d’Ars, custodi gelosi del piccolo panno, con cui avevano toccato il sacro corpo, a cui avrebbero fatto ricorso quando il male avrebbe preso il sopravvento, i fedeli sciamavano fra le bancarelle, scherzando, ridendo, salutando festosamente, guardando e si facendosi guardare con quei loro vestiti della festa. Compravano poco, ma la rossa fetta di cocomero sì, soprattutto i fidanzati. Ah, quel rosso fresco del cocomero, che beava la bocca e riscaldava l’anima. E la granita pure, e il torrone. Facevano parte della festa. Quelli che potevano compravano il porcellino, il chirillo, che “avrebbero cresciuto” con i rimasugli della mensa e avrebbero scannato, ricco e grasso, nel tempo sacro di Natale. Noi, incantati, frastornati, felici, percorrevamo il labirinto di persone, bancarelle, cani randagi, muli carichi di merce. Mio nonno mi comprava il sorbetto con lo sciroppo d’amarena. Mi piaceva tanto. E mio padre il cavalluccio di cartone. Lo squartavo appena tornato a casa per scoprire che cosa ci fosse dentro la pancia. Mia madre, giovane e radiosa, tornava con il santino benedetto. Bello, con la santa ritratta con colori vivaci e la preghiera sul verso. Lo inseriva nell’interstizio del vetro della cristalliera, dove già altri santi facevano bella mostra, facendomi fantasticare per via di quelle loro sublimi e terribili storie mille volte narrate dalla placida nonna.

 

                                                           Senti sunà’ li gloria

                                                           E tutte li cambane,

                                                           La santa Filomena

Alli ciele mo’ se ne va.

 

   Giovanni XXIII, il Papa innovatore e lungimirante, ha cancellato Filomena dalla lunga lista dei Santi. Ragioni storiche. La festa, d’un tratto, è, così, svanita, e la fiera con essa. Ed è svanita l’attesa gioiosa d’incontrarsi, parlarsi, riconoscersi nello sguardo dell’altro, nel saluto dell’altro, nel sorriso dell’altro, di parlare con la Santa per svelarsi a lei, perché lei spiegasse la sua potenza contro il male.

   Ancora oggi qualcuno chiama la figlia Filomena, e qualche donna prega ancora la gran Santa, e a lei si rivolge fidente nel momento del bisogno. Perché le ragioni della fede di un’anima dolente non sono quelle della storia.

 

                                                           La Santa Filomena

                                                           Alli ciele mo’ se ne va.

Leonardo R. ALARIO

 
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Per SAVERIO STRATI

Post n°1 pubblicato il 20 Marzo 2009 da irsdd

Per Saverio Strati

Per chi in Calabria abbia ancora un po’ di pudore questi sono giorni di tristezza. Saverio Strati, lo scrittore più attento  registrare i rivolgimenti socio-culturali della nostra regione senza infingimenti e idoleggiamenti e con chiarezza ed efficacia di rappresentazione, mettendo a fuoco i mali, che la inchiodano alla marginalità e al disagio economico, ma anche gli slanci liberatorii; Saverio Stari, l’autore italiano più attento ai fatti sociali e, certamente, il più lucido fra quelli del nostro tempo; Saverio Strati, l’intellettuale riservato e schivo, libero dalla soggezione a cappelle politiche e culturali di moda, forte della sua esperienza di eterno viandante alla ricerca dell’uomo del tormentato Sud; Saverio Strati, le cui opere sono tradotte nella lingua di tanti Paesi, cancellato dalla sua casa editrice per intolleranza verso una voce libera e pura, oggi invoca la legge Bacchelli per poter affrontare con dignità la vita, che, al contrario, avrebbe dovuto continuare a esser serena e ricca di riconoscimenti.

In verità non sono triste sol perché il governo regionale della Calabria non ha tenuto nella giusta considerazione il suo grande figlio forgiatosi alla scuola del sacrificio, della volontà ferrea, del nutrimento intellettuale, o perché una grande casa editrice, dopo lunga e proficua collaborazione, emargina uno degli intellettuali più onesti, che abbia mai avuto l’Italia. Sono triste anche e soprattutto perché Saverio Strati è stato dimenticato da chi, al contrario, dovrebbe coltivare la memoria, che fonda e dilata la coscienza, condannandolo a esser sconosciuto alle giovani generazioni.

Il fatto veramente grave è che Saverio Strati è ignoto agli studenti calabresi, perché ignoto è a gran parte dei loro docenti. La prova sta nel fatto che studenti universitari iscritti alla facoltà di lettere ignorano Saverio Strati, e con lui Vincenzo Padula, Corrado Alvaro (ahimé!) e Fortunato Seminara  e Leonida Rèpaci e, naturalmente tutti gli altri nostri illustri scrittori. E lo ignorano, ripeto, certi docenti di Liceo, i quali, di conseguenza, non hanno mai tenuto ai loro allievi una sola lezione di letteratura calabrese contemporanea.

Quando insegnavo lettere nella Scuola Media del mio paese, la mia prima preoccupazione era quella di scegliere un testo di narrativa, che fosse di autore calabrese. Per tre anni di sèguito i miei allievi studiavano autori calabresi, tra cui, in modo preminente, Saverio Strati, i cui romanzi non sono altro che capitoli di un’unica grande epopea, quella del popolo calabrese, che offre stimoli forti al dibattito sulla fenomenologia socio-politica e culturale delle nostre popolazioni dal secondo dopoguerra alla realtà odierna. Saverio Strati, con generosità ed entusiasmo, ha accettato per ben due volte, nel 1987 e nel 1990, di tener lezione ai miei allievi, e, poi, d’incontrarsi coi docenti e coi genitori. Un’esperienza bella e utile per i ragazzi, nella cui memoria è rimasta viva la figura dello scrittore, che parlava del loro mondo, fatto di cose quotidiane radicate nella concretezza della vita intensamente vissuta, e aperto alla speranza garantita dal sapere, dal lavoro onesto, dal senso della giustizia, dalla fedeltà ai valori condivisi. E quei ragazzi hanno continuato a lèggere Saverio Strati e lo hanno fatto lèggere ai loro figli.

Un così lungo itinerario fra le pagine, così dense di luoghi, personaggi situazioni, di Saverio Strati il sostegno è venuto da Luigi Lombardi Satriani, Pasquino Crupi e, soprattutto, da Ottavio Cavalcanti e Domenico Scafoglio, con cui il confronto sulla narrativa del nostro grande scrittore è continuato nel tempo. Frutto delle nostre letture demologiche dell’opera stratiana è stata la pubblicazione, nel 1992, di alcuni nostri interventi (miei, di Cavalcanti e di Scafoglio). Ottavio Cavalcanti, anzi, è, forse, attualmente, l’unico a parlare dei narratori calabresi e del loro rapporto con la cultura di tradizione orale in un’aula universitaria, così come lo è Domenico Scafoglio a proposito del grande Vincenzo Padula.

Ci siamo lagnati della difficile situazione economica, in cui oggi, immeritamente, versa il nostro amico Saverio Strati. Non per questo dobbiamo sentirci la coscienza a posto. Dobbiamo fare proposte concrete. Va bene quella di applicare la legge Bacchelli invocata con forza da Vincenzo Ziccarelli, intellettuale in trincea della vecchia guardia, e da Franco Dionesalvi. Ma non basta. La Regione e le cinque Amministrazioni provinciali, pensando meno a finanziare sagre di villaggio,  faranno bene ad assegnare alti riconoscimenti a Saverio Strati, deliberando un congruo premio in danaro in suo favore per aver illustrato la Calabria nel mondo. Personalmente proporrò al sindaco della mia della mia città di conferire a Saverio Strati la cittadinanza onoraria, accompagnandola con un premio in danaro. E così farebbero bene a deliberare i sindaci della Calabria. Sarebbe, allora, un bel coro possente a levarsi dalla nostra regione in onore di Saverio Strati, un coro di protesta per una situazione insostenibile dovuta alla protervia di un certo potere, un coro di affermazione del giusto riconoscimento a un intellettuale organico, il quale non si è contentato di sapere per svolgere efficacemente il suo ruolo nella definizione di una nuova concezione del mondo e della vita, ma si è, al contrario, proposto di sentire la passione e i sentimenti popolari per comprenderli e leggerli utilmente nel grande insieme della storia dell’uomo. Al proficuo rapporto, cioè, fra intellettuale e popolo aderisce organicamente, alla luce della lezione gramsciana, e concretamente contribuisce, aprendo al lettore nuove occasioni di dibattito, e, perciò, nuove possibilità di comprendere e, quindi, di sapere.

Proprio per questo Saverio Strati è stato condannato all’emarginazione. Ma proprio per questo egli dev’esser levato dai Calabresi come uno stendardo, a cui guardare per camminare lungo la strada della consapevolezza, l’unica che apra alla libertà e alla salvezza.

Si faccia, dunque, studiare, nelle scuole l’opera stratiana, e se ne proponga la lettura critica nell’Università della Calabria e nei circoli culturali pullulanti nella nostra regione. È l’ultima proposta. Non permettiamo che i giovani calabresi ignorino i grandi uomini della nostra terra. Essi sono la nostra vera classe dirigente, a cui ispirarsi per scongiurare la già intravista lenta, progressiva, terrificante desertificazione delle nostre coscienze e della nostra stessa identità.

                                                                                                          Leonardo R. Alario

 

 
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