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Messaggi del 08/09/2010

 

L'Egitto Antico ed il vino ...

Post n°517 pubblicato il 08 Settembre 2010 da diegobaratono

Tratto da "Egittologia.net", un bellissimo studio, da intenditori, sul vino nell'Egitto Antico. E' da centellinare ... tutto d'un fiato ... prosit ...

Il misticismo del vino  Le linfe di osiri, il sangue di cristo

Le prime testimonianze archeologiche sulla presenza della vigna e del vino in Egitto risalgono al periodo pre-dinastico: nel museo dell’Orto Botanico di Berlino sono conservati i semi e un ramo di vitis vinifera risalenti al periodo di Nagada (3100 a.C. circa); nella tomba attribuita al re Scorpione sono stati trovati circa 700 orci di vino(1). La religiosità della vigna è già evidente nel periodo protostorico. Alcuni sigilli dei tappi di giare ritrovati ad Abido riportano iscrizioni che ci fanno sapere che il re Den (I dinastia) chiamava la sua vigna “Il recinto del corpo di Horus”, la vigna del re Khasekhemui (II dinastia) era chiamata “Lodate siano le anime di Horus” e quella del re Djoser (III dinastia) “Lodato sia Horus che presiede al cielo”(2). I Testi delle Piramidi confermano l’importanza religiosa della vigna e del vino(3). Il vino è la bevanda di elezione del re defunto dopo che ha raggiunto la sua destinazione celeste. I defunti glorificati sono dei privilegiati che ricevono e consumano prodotti che assicurano loro l’eterna felicità: i Testi delle Piramidi affermano che i re defunti si nutrono con “fichi e vino che sono nella vigna del dio”(4 ). Per questo motivo il vino è presente nelle liste di offerta rappresentate sulle pareti delle tombe e sulle stele funerarie di defunti. Nelle stele dell’Antico Regno il vino appare graficamente sullo stesso piano dell’acqua purificatrice, dell’incenso e degli olii essenziali. E’ una prova supplementare che il titolare della stele gode dei benefici assegnati ai beati(5). I Testi delle Piramidi ci hanno tramandato anche formule che attestano l’origine divina della bevanda ottenuta dall’uva e la collegano a varie divinità.

“…la mia acqua è vino come quello di Ra,…”(6)
“Il cielo è gravido di vino, Nut ha generato sua figlia l’alba-luce”(7) Questa ultima citazione evoca una associazione tra il vino e il sangue del parto unicamente in base al simbolismo del colore.(8)
“Osiri N, prendi per te l’occhio di Horus strappato a Seth e mettilo alla tua bocca;
(quello) con il quale ti sei aperto la bocca: vino, una giara di hAT s di pietra bianca”(9) .


Varie divinità hanno un rapporto diretto con il vino. Shezmu, il dio del torchio, nei Testi delle Piramidi offre a Osiri il succo dell’uva spremuta(10). Ma il suo ruolo è anche quello di preparare al re defunto un pasto di divinità che egli macella e arrostisce in grossi calderoni(11) . Nel Medio Regno, nei Testi dei Sarcofagi, il ruolo di Shezmu come massacratore continua, ma ora compare spesso anche come produttore di balsami e unguenti(12), mentre dal Nuovo Regno in poi egli è spesso rappresentato come portatore di offerte(13) . Altre divinità hanno significativi riferimenti con il vino:

  • Hathor, la dea-vacca alla quale si celebra la festa dell’ebbrezza(14)
  • Sekhmet, la dea leonessa che considera sangue una bevanda di colore rosso(15)
  • Bastet, la dea gatta di Bubasti, la città in cui si celebra la festa per lo scampato pericolo della distruzione del genere umano.16

Sono molte le divinità che sono interessate indirettamente al vino in quanto il vino è la bevanda di elezione delle offerte di pacificazione. E’ per questo motivo che, in forma piana o a tutto tondo, viene spesso rappresentato il faraone, o la regina(17), che offre due coppe di vino a una divinità.(18) E’ il mito egizio de “La distruzione del genere umano” che ci spiega i motivi che hanno reso il vino l’elemento privilegiato per pacificare le divinità pericolose. Il dio sole Ra, già vecchio e stanco, viene a conoscenza di una congiura tramata dagli uomini nei suoi confronti. Il dio manda a chiamare sua figlia Hathor e le ordina di distruggere il genere umano. La dea si trasforma nella feroce leonessa Sekhmet e inizia la carneficina. Ma nel vedere il massacro che Sekhmet sta compiendo, il dio Ra si pente e per salvare l’umanità trova un espediente: durante la notte, mentre Sekhmet riposa, ordina di preparare una grande quantità di birra, la fa colorare in rosso con ematite(19) e la fa versare nel territorio in cui opera la terrificante dea leonessa. Al suo risveglio Sekhmet rimane deliziata a vedere tutto quel liquido rosso che ritiene sangue e ne beve fino a perdere coscienza della sua micidiale missione. Così l’umanità è salva e festeggia ogni anno a Bubasti, nella città della gentile e amabile dea gatta Bastet, lo scampato pericolo.(20) Erodoto ci informa che per questa festa si riunivano fino a 700.000 persone e che nel percorso per raggiungere Bubasti “le donne lanciano frizzi e grida alle donne di quella città; o accennano a movimenti di danza; o ritte in piedi si tiran su le vesti: e questo a ogni città che incontrano lungo il fiume. Giunti che siano a Bubasti, celebrano la festa compiendo grandi sacrifici: e si consuma più vino di vite in questa solennità che in tutto il resto dell’anno”.(21) Il colore rosso del vino evoca il sangue del nemico vinto e per questo motivo è usato nel rituale di pacificazione. Quando la birra è offerta al posto del vino, essa è idealmente colorata in rosso perché è sul colore rosso che si fonda l’efficacia del rito.(22) Osiri, il dio dei morti, è indicato come il signore del vino in testi che vanno dall’epoca delle piramidi fino al tardo periodo greco-romano.

Ecco, egli (il re) è venuto come Orione; ecco, Osiri è venuto come Orione, Signore del Vino nella festa wA g”.(23) Diodoro Siculo conferma, nel I secolo a.C., che fu Osiri a “insegnare al genere umano la piantagione della vite e la semina del frumento e dell’orzo”.(24) Per la nostra razionalità le incongruenze non mancano. Ricordiamo la già citata formula 47 dei TdP in cui il vino è l’occhio di Horus strappato a Seth. E il papiro Jumilhac riporta che dai due occhi udjat che erano stati interrati sono sorti germogli di vite (25) e “in quanto all’uva, è la pupilla dell’occhio di Horus;(26) in quanto al vino che se ne fa, sono le lacrime di Horus”(27). Ma è senz’altro Osiri il dio più strettamente collegato all’uva e al vino. Il dio è spesso rappresentato in trono sotto un chiosco con una tettoia da cui pendono (quasi) sempre grappoli di uva nera. Talvolta ai grappoli d’uva si alternano fiori di loto, per rendere più pregnante il senso della rigenerazione di cui Osiri è simbolo. Dalla V dinastia in poi nelle tombe sono spesso rappresentate la vendemmia e la pigiatura dell’uva.(28) La vendemmia si fa a fine giugno-primi di luglio, a cui segue la pigiatura del vino. Queste operazioni anticipano di poco l’inondazione del Nilo, che si faceva iniziare intorno al 19 luglio in combinazione con l’uscita eliaca della stella Sothis-Sirio. Il valore rigenerativo dell’esondazione del Nilo era un dato reale per l’Egitto che da essa otteneva fertile limo e certezze alimentari per l’anno successivo. Ma il limo dava anche una colorazione rossastra all’acqua dell’inondazione e da qui scaturiva anche il valore simbolico di rigenerazione che veniva associato al vino in virtù del suo colore rosso e, per estensione, alle vigne. La tomba di Sennefer (TT 96 B), nella necropoli di Qurna (Luxor), conosciuta anche come “tomba delle vigne”, è uno straordinario esempio pittorico di una vigna che si diffonde sul soffitto della tomba come garanzia di rigenerazione.(29) Ma il significato di queste associazioni è ancora più profondo. Scrive il Tefnin che il significato dell’uva strappata dalla vigna e calpestata evoca la morte e lo smembramento di Osiri. La trasformazione del mosto in vino è una metafora della rinascita di Osiri, così come di ogni defunto.(30) Un papiro esposto a Londra nel British Museum sintetizza in una vignetta importanti significati simbolici. La coppia di defunti è in adorazione di Osiri in trono alle cui spalle c’è la dea Maat. Tra i defunti e le divinità si interpone uno stagno sulle cui rive prosperano alberi da frutto. Da una estremità dello stagno si sviluppa una vigna che cresce in direzione del viso di Osiri. La presenza dello stagno – il Nun, il dio che personifica le acque primordiali esistenti prima della creazione – evoca la creazione delle origini e la figura di Osiri richiama la morte: ma la vigna, pianta rigeneratrice per eccellenza, riporta la vita ad Osiri e da questi si riflette sui due defunti imploranti.(31) Si tratta in sostanza di significati convergenti con quelli trasmessi dal decoro della tomba di Sennefer: la vigna e l’uva evocano l’inondazione e con essa la certezza di sopravvivenza e di abbondanza per l’Egitto. Il vino è associato per il suo colore al sangue e all’acqua vivificante dell’inondazione ed entrambi, il vino e l’inondazione, sono simboli della morte e della resurrezione di Osiri. Il valore rigenerante del vino per i defunti vale anche per l’uva. Nel capitolo XXXVIII del “rituale dell’apertura della bocca”, intitolato “offerta dell’uva, così si esprime il prete sem: “Oh N! Prendi per te l’Occhio di Horus! Prendi possesso di lui, perché quando tu ne avrai preso possesso, egli non scapperà più! Prendere l’uva alla sua bocca”
Il simbolo del sangue del dio Osiri morto e i significati mistici della vigna e del vino si affermano anche in epoca greco-romana come promessa di rinascita per ogni egiziano.(33) Decorazioni in tale senso si trovano su pareti di tombe(34) e su sarcofagi.(35) Un tardo papiro magico porta al limite estremo il potenziale di rigenerazione del vino: il dio Osiri offre da bere alla sua sposa Isi e a suo figlio Horus una coppa del suo sangue per ottenere la sua rinascita.(36) Tali simbologie si protraggono poi nel periodo copto(37) e più tardi ispirano anche i testi e l’iconografia cristiana. Durante l’Ultima Cena Cristo porge ai discepoli una coppa il vino con le parole “Bevetene tutti, questo è il mio sangue”.(38) Il fondamento della religione cristiana riprende in forma drammatica i simboli maturati nella religione egizia. E ancora oggi il messaggio si perpetua nel rito dell’Eucarestia durante la Messa. Nel Vangelo di Giovanni è lo stesso Cristo ad affermare: “Io sono la vera vite e il padre mio è il vignaiolo”.(39) Queste parole di Cristo sono state riprese dai Padri della Chiesa per costruire in termini cristiani l’immagine dell’ “albero della vita”: “Gesù è il tronco da cui sono germogliati i tralci e insieme la totalità della pianta”.(40) Sulla equivalenza del vino al sangue nel contesto della resurrezione, l’iconografia cristiana ha sviluppato l’impressionante tema del “torchio mistico”: Cristo è rappresentato sotto un torchio, concepito come uva da schiacciare per raccogliere in una tinozza il sangue divino, promessa di resurrezione. Anche Milano ha una rappresentazione del “torchio mistico”. Nella Chiesa di S. Maria Incoronata, in corso Garibaldi, si trova un affresco attribuito al Borgognone, eseguito intorno al 1480. L’affresco, parzialmente rovinato, mostra Cristo oppresso dalla croce. Sul lato sinistro dell’affresco la croce diventa il torchio che comprime Cristo, il cui sangue è raccolto in una bacinella ai suoi piedi. La colomba dello Spirito Santo, la madre Maria e il padre Giuseppe assistono con alcuni Dottori della Chiesa al supplizio di Cristo. L’affresco evoca con la potenza di queste immagini simboliche il dramma della passione e morte di Cristo per la redenzione dell’umanità.(41)

Gilberto Modonesi
Aprile 2010

Note:

  1. McGovern, L’archeologo e l’uva, Carocci, Roma 2004, pag. 101 e segg. La tomba del re Scorpione è conosciuta con la sigla U-j. 
  2. M. Nelson, Il simbolo della vite e del vino nelle tombe dell’antico Egitto, in , Como 1996, pag. 48. 
  3. I Testi delle Piramidi costituiscono una grande silloge di testi religiosi che ha lo scopo di assicurare al re defunto la sopravvivenza dopo la morte presso le stelle imperiture, dove dimorano gli dei. La prima redazione di tali testi si trova a Saqqara nord, nella piramide di Unas (2380-2350 a.C. circa), l’ultimo re della V dinastia. 
  4. Faulkner, The Ancient Egyptian Pyramid Texts, Clarendon Press, Oxford 1969, formula 508, pag. 183 e formula 576, pag. 231. 
  5. Per la visione di 15 stele della necropoli di Giza si veda: Der Manuelian, Slab Stelae of the Giza Necropolis, Yale University, Boston 2006. 
  6. Faulkner, op. cit, formula 210, pag. 39. 
  7. Faulkner, op. cit., formula 504, pag. 179. 
  8. Come avremo occasione di verificare più avanti citando altri miti.
  9. Faulkner, op. cit., le formule 47 e 48, a pag. 10, hanno testi analoghi. I TdP confermano l’associazione della vigna e del vino con l’occhio di Horus, secondo quanto già emerso nel periodo protostorico (vedi pag. 1 e nota n. 2). 
  10. Faulkner, op. cit., formula 581 
  11. Faulkner, op. cit., formula 273: si tratta del famoso “Inno cannibale”. 
  12. Barguet, Textes des sarcophages égyptiens du Moyen Empire, Les Editions du Cerf, Paris 1986: si veda la voce Chesmou a pag. 702.
  13. Corteggiani, L’Egypte ancienne et ses dieux, Fayard, Paris 2007, pagg. 103-105. Nella scrittura geroglifica il torchio è variamente rappresentato, come si può verificare dai segni registrati nel Catalogue de la fonte hiérogliphique de l’imprimerie de l’IFAO, Le Caire 1983, pagg. 408-410. 
  14. La festa dell’ebbrezza si celebrava nei giorni 18-20 del I mese dell’inondazione, il mese di Thot. Cauville, Dendera. Les fetes d’Hathor, Peeters, Leuven 2002, pagg. 50-59. “Canti in onore della dea dell’ebbrezza” sono riportati in: Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi tascabili, Torino 1999, pagg. 676-678.
  15. Più sotto è delineato in sintesi il “Mito della distruzione e del salvataggio del genere umano”. Per la lettura del mito rinviamo a: Donadoni, La religione dell’antico Egitto, Laterza, Bari 1959, pagg. 339-343; in forma più completa il mito è stato tradotto da Piankoff, The Shrines of Tut-Ankh-Amon, Harper Torchbooks, New York 1962, “Il libro della vacca divina”, pagg. 26-34. 
  16. Un resoconto di questa festa si può leggere in Erodoto, Le storie, vol. I, Libro II, 60, Biblioteca Moderna Mondadori, Milano 1963, pag. 193: vedi anche nota 15. 
  17. Ben nota è la rappresentazione della regina Nefertari, sposa di Ramesse II, che offre vino alla dea Isi su una parete della sua tomba: Leblanc & Siliotti, Nefertari e la Valle delle Regine, Giunti, Firenze 1993, pag. 147.
  18. Poo, Wine & Wine Offering in the Religion of Ancient Egypt, Kegan Paul International, London 1995.
  19. Guilhou, La veillesse des dieux, Université de Montpellier, 1989. A pag. 17 il testo originale è così tradotto: “Allora si mescolò questa ematite a questa pasta e ciò fu come il sangue degli uomini”
  20. Guilhou, op. cit.; Bresciani, Testi religiosi dell’antico Egitto, A. Mondatori, Milano 2001, pagg. 63-65; Donadoni, La religione dell’antico Egitto, Laterza, Bari 1959, pagg. 339-343. 
  21. Erodoto, op. cit., II, 60, pag. 193.
  22. Germond, De l’oeil vert d’Horus au Pressoir mystique, in

 

 


Written By: GilSozzani
Date Posted: 31/05/2010

 
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Sulle difficoltà ... archeologiche: meditate gente, meditate ...

Post n°516 pubblicato il 08 Settembre 2010 da diegobaratono

Fa quantomeno riflettere l'accorata lettera che un grande dell'Archeologia "sul campo", nella fattispecie Emmanuel Anati, scrive a Sergio Romano del "Corriere della Sera", per denunciare le difficoltà che sta incontrando nel proseguire le "sue" ricerche archeologiche. E' auspicabile che la battuta d'arresto sia soltanto momentanea. Non so se serve, ma comunque, da parte mia, forza Anati. 

Da: "Corriere della Sera.it"

Sergio Romano
 
La lettera del giorno | Mercoledì 8 settembre 2010
UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA ALLA RICERCA DEL MONTE SINAI
La Missione archeologica italiana da me guidata nel deserto del Negev, Israele, opera dal 1980. Dopo alternanze di modesti finanziamenti annuali da parte del Mae, da diversi anni non ha più sovvenzioni. Da quando abbiamo emesso l’ipotesi che la montagna da noi studiata, Har Karkom, mostrasse evidenti somiglianze a quello che la Bibbia chiama Monte Sinai, si è scatenata una critica nei nostri riguardi che ha cercato di fermare le nostre ricerche e ha praticamente impedito sovvenzioni pubbliche o private.
Emmanuel Anati - Direttore Centro Camuno di Studi Preistorici

Caro Anati, In una relazione sugli scavi che lei conduce da molti anni nel deserto del Negev, leggo che la sua squadra ha lavorato su un’area di 200 km quadrati in una zona desertica del territorio israeliano incuneata fra la penisola del Sinai a occidente e la valle dell’Arabah a oriente. Avete scoperto 1300 siti archeologici e sareste giunti alla conclusione che i l monte Har Karkom (in realtà due grosse colline giallastre a breve distanza l’una dall’altra) sarebbe stato un luogo sacro sin dalla preistoria e avrebbe ospitato santuari di molte divinità fra cui quello di Sin, dio della luna, da cui deriverebbe la parola Sinai. È questo per l’appunto il risultato più importante dei vostri scavi ed è questa, forse, la ragione, per cui essi stanno suscitando qualche malumore in ambienti accademici e religiosi. La sua ipotesi di lavoro, caro Anati, è che Har Karkom sia per l’appunto il monte Sinai dove Mosé dette al suo popolo le leggi del Signore. La missione avrebbe individuato persino la grotta in cui Mosé riparò dopo la rivelazione. Gli scavi darebbero quindi un duro colpo alla tradizione secondo cui il Monte Sinai sarebbe invece la collina in territorio egiziano dove sorge, sin dall’epoca bizantina, il monastero di Santa Caterina. Ma avrebbero il merito di confermare l’esistenza di un luogo sacro all’ebraismo e al cristianesimo. Non sono in grado di giudicare i risultati scientifici del suo lavoro, ma spero che lei trovi i finanziamenti necessari alla prosecuzione degli scavi. La missione fu sin dall’inizio italiana e poté contare sulla collaborazione del dipartimento israeliano per le antichità. Il governo italiano e quello israeliano dovrebbero continuare a sostenerla. La sua lettera, caro Anati, conferma quanto sia difficile il mestiere dell’archeologo. Per molto tempo, sin dall’Ottocento, le missioni archeologiche sono state usate dai governi per rivendicare territori «irredenti» o puntellare con argomenti storici le loro ambizioni egemoniche. Molte missioni archeologiche in epoca fascista, per esempio, servivano a esaltare il ruolo di Roma nel mondo antico. Se l’archeologo scopre ciò che conviene al committente, quindi, i governi ne sono felici e colgono l’occasione per atteggiarsi a generosi sostenitori delle arti e delle scienze. Ma se scopre ciò che non interessa o, peggio, nuoce, i governi smettono di aiutarlo finanziariamente. Le auguro di non essere finito in questa seconda ipotesi.

 
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