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Post n°8 pubblicato il 09 Settembre 2012 da joppijo62
Estratto dal mio nuovo libro "...E il cane decise di incontrare l'uomo" appena finito di scrivere."...Qualche anno fa la ricercatrice Abby G. Drake ha effettuato un’analisi tridimensionale morfometrica attraverso le tomografie dei crani di 677 cani adulti appartenenti a 106 razze diverse ed ha confrontato queste con 401 lupi di cui 77 giovani. La morfologia dei cani adulti presi in esame è risultata totalmente differente rispetto ai lupi di qualsiasi età, compresi i giovani; questo ha permesso di concludere che l’ipotesi dei cani moderni siano dei lupi pedomorfici è totalmente sbagliata. Ulteriori studi sui crani di razze canine mesocefale (pastori tedeschi, malinois, labrador) che teoricamentesi avvicinano di più alla morfologia dei crani di lupo ha confermato le conclusioni dello studio precedente, cioè che le differenze morfologiche fra i crani dei cani e quelle dei lupi di qualsiasi età sono talmente tante e tali da non poter considerare fondata la teoria neotenica. Ciò che distingue in maniera abbastanza drastica un cranio di cane da uno lupino è la presenza di una rotazione più o meno marcata del muso rispetto alla base craniale, una sorta di riorganizzazione del cranio che non è presente fra i lupi. Un ulteriore studio di T. Roberts, P. McGreevy e M. Valenzuela dà una ulteriore conferma della rotazione del muso rispetto al cranio nei cani oltre ad una riorganizzazione del cervello che risulta molto evidente nei cani con un’eccessiva brachicefalia come i bulldog inglesi o francesi. Poiché lo stesso Raymond Coppinger ora nega le proprie teorie e considerando quanto scoperto dagli studi sui crani di cane e di lupo (che evidentemente lo stesso Coppinger conosce), non vedo ragione di credere che la neotenia possa ancora essere considerata una teoria valida. Ma tutti sappiamo quanto la cinofilia sia molto restia al cambiamento o, per meglio dire, necessiti di molto tempo per accettare i cambiamenti. Un po’ come ai tempi di Galileo Galilei."
Giovanni Padrone - ACCSC RAVENNA |
Post n°7 pubblicato il 15 Agosto 2012 da joppijo62
BRANCO. L'etologia definisce il branco come una figura sociale con una ben determinata struttura: due genitori e diversi figli ai quali possono aggregarsi occasionalmente membri della stessa specie probabilmente imparentati (cugini, ad esempio). Dire della stessa specie sta a significare che si tratta di una società chiusa ad altre specie animali. Infine, a meno che non vi sia la premorienza di un genitore, la coppia resta monogama per tutta la vita. Il branco è presente in 4 delle specie selvatiche di canidi: lupi, licaoni, dholes, speoti, ciascuna dotata di iniziative proprie per rinforzare i legami sociali. Per quanto riguarda il cane domestico, cioè il cane che vive nelle nostre abitazioni, sorgono immediatamente all'occhio tre cose: intanto, la società canina è aperta ad altre specie domestiche, noi inclusi. In secondo luogo, la monogamia è una conditio molto lontana dal pensiero dei cani, tant'è che un cane maschio si può accoppiare con più femmine ed una femmina durante un ciclo di estro può essere fecondata da più maschi. Per finire, il branco inteso come struttura familiare in cui sono presenti stabilmente genitori e figli è una situazione molto irreale fra i cani ed è presente soltanto fra alcuni cani ferali, ovvero selvatici, come i dingo dove però le relazioni sono impostate in maniera alquanto aggressiva al pari delle iene, probabilmente per le difficoltà ambientali in cui questi cani vengono a trovarsi. Riguardo ai cani ferali ed al branco, in un loro studio del 1995 (Comparative social ecology of feral dogs and wolves pubblicato su Ethology Ecology & Evolution 7: 49-72), gli etologi Boitani e Ciucci, parlando delle figure sociali dei cani ferali scrivono quanto segue: "Tra i canidi, i branchi sono unità sociali che cacciano e proteggono un territorio comune come un gruppo stabile (MECH 1970); e i loro membri sono individui generalmente correlati (BEKOFF et al. 1984). I lupi, in particolare, vivono in branchi che sono fondamentalmente unità unifamiliari (MECH 1970, 1977 HABER, PETERSON 1977) che si formano quando due adulti di sesso opposto si incontrano su un territorio vacante e riproducono (ROTHMAN & MECH 1979, FRITTS & MECH 1981). La formazione e la persistenza del branco come unità funzionale è basata sul legame sociale tra i suoi membri, o ciò che è stato chiamato, in termini umani, come una sorta di "legame affettivo" (MECH 1970: 46). Ma ci sono anche casi di branchi "famiglia" riferiti in natura, tutti hanno in comune una coppia maschio-femmina (MECH & NELSON 1990). I cani selvatici in Italia hanno mostrato caratteristiche di aggregazione in branco in misura limitata e, più in particolare, i membri della stessa unità sociale non erano generalmente collegati (BOITANI et al. stampa), come nella maggior parte dei cani randagi e ferali studiati altrove (SCOTT & CAUSEY 1973; NESBITT, 1975; CAUSEY & CUDE 1980; BERMAN & DUNBAR 1983; DANIELS & BEKOFF 1989Un, 1989b). Tuttavia, anche se l'unità sociale intera è incentrata sulla stabilità di una coppia riproduttrice, i tipi di associazione e legame sociale tra i cani inselvatichiti non riflettono le regole precise del branco, come noto per altri Canidi (KLEIMAN & EISENBERG 1973, BEKOFF et al. 1984GITTLEMAN 1989). Pertanto, vi proponiamo il termine "gruppo" come unità sociale più appropriata per i cani rinselvatichiti piuttosto che il branco."
DOMINANZA. Questo comportamento viene ogni tanto riportato in auge perché naturalmente vi sono discussioni a favore e contro. Per quanto mi riguarda nelle svariate centinaia di cani con cui ho lavorato ho potuto osservare un paio di casi in cui il cane mostrava questo atteggiamento legato ad una patologia comportamentale, in particolare la Dissocializzazione primaria, mentre nelle osservazioni quotidiane ho potuto notare che un cane 'dominante', cioè un cane che cerca di imporsi sugli altri, è un cane con qualche problemino a relazionarsi con gli altri cani, tant'è che se capita fra un gruppo di cani al parco (e a me è capitato di osservare molte volte questa situazione) viene immediatamente lasciato a se stesso. Non voglio star qui a dilungarmi sui più recenti studi che dimostrano le relazioni canine impostate su un genere definito dalla psicologia 'autopoietico' (cioè che cerca costantemente di autoequilibrarsi) e perciò impostato sulla cooperazione, ma rimando agli studi del dr. Bonanni sui randagi di Roma di cui scrivo di seguito al punto sottostante relativo alla gerarchia.
GERARCHIA. Pochi forse sanno che questo termine, insieme al precedente, fu coniato nel 1910 dal colonnello Konrad Most, padre dell'addestramento tradizionale, in quanto da militare egli pensava che anche i cani da addestrare dovessero avere una vita impostata su una gerarchia di tipo MILITARE e DOMINANTE. Or dunque, quale valenza etologica può avere una considerazione del genere dedotta da un militare? Dal mio punto di vista 'subzero'. Certamente, la sopravvivenza dei due termini GERARCHIA (con le relative figure di riferimento in lettere dell'alfabeto greco che vanno dall'alfa all'omega) e DOMINANZA è dovuta ai primi studi effettuati negli anni '30 e '40 del secolo scorso sui lupi in cattività, lupi provenienti da branchi e territori diversi costretti in un ambiente molto circoscritto che entravano costantemente in competizione fra loro per ovvie ragioni. Ma l'ovvio fu confuso con una conditio sine qua non i lupi selvatici non avrebbero potuto vivere. Il problema è che nonostante venga costantemente dimostrato da ormai 20 anni (a partire dagli studi di David Mech, ma anche di altri etologi del lupo come il russo Andrey Poyarkov) che i lupi in realtà hanno una vita sociale più rilassata (se così si può dire) e che il cane, visto il processo di selezione artificiale che nel corso degli ultimi 12.000 anni ne ha profondamente alterato i 'ragionamenti' sociali, non ha nulla a che vedere con il cugino selvatico (col quale conserva solo un certo legame genetico), c'è ancora chi continua a ragionare con la mente militaresca del fu colonnello Konrad Most. A questo punto, al di là delle mie opinioni personali che non coincidono con questo modo di vedere la realtà sociale del cane (e nemmeno del lupo), vorrei riportare le osservazioni e le conclusioni riferite allo studio dell'equipe del dr. Roberto Bonanni dell'Università di Parma sui cani randagi di Roma, studio pubblicato su Animal Behavior nell'aprile 2010 a titolo Effect of affiliative and agonistic relationships on leadership behaviour in free-ranging dogs. "...In questo studio abbiamo trovato che la leadership durante le partenze di gruppo nei cani randagi non è stata interamente concentrata su un singolo individuo. Ogni individuo adulto e subadulto all'interno di un determinato gruppo poteva avviare correttamente un movimento collettivo che comportava un minimo di tre animali, mentre i cani più giovani di 1 anno raramente sono riusciti a farlo. Tuttavia, in tutti i gruppi studiati alcuni individui si sono comportati come leader abituali e altri come seguaci abituali. Nei due gruppi per cui il test è stato possibile, la distribuzione di leadership tra gli individui è stata significativamente diversa da un solo individuo. Poiché la frequenza complessiva dei principali gruppi (punteggio di leadership) era strettamente correlata con la percentuale di tentativi di abbandono riusciti, sembra che gli individui che hanno condotto più frequentemente lo hanno fatto perché avevano più successo nel reclutamento dei partner quando si spostavano lontano dal branco e non solo perché hanno lasciato il branco più spesso di altri. Nel primo branco, il modello decisionale di gruppo alla partenza di gruppo è cambiato da 'parzialmente condiviso' durante un periodo quando la dimensione era di 27 individui e c'erano sei dirigenti abituali, a quasi non condiviso al momento in cui la dimensione era di 11 individui e c'era un solo leader abituale. Inoltre, un modello si avvicina a ‘decisione non condivisa’, con un leader abituale, emerso anche nel branco Curva relativamente piccolo. Così, sebbene il numero di branchi studiati qui è limitato, questi risultati sembrano suggerire che in gruppi più grandi la realtà può essere più difficile per i despoti nell’influenzare il comportamento di molti seguaci a loro favore (cfr. Conradt & Roper 2003). D'altro canto, nel primo branco la distribuzione di leadership tra individui era an-cora irregolare al momento in cui la dimensione era probabilmente vicino o sopra l'ottimale (questo branco è stato uno dei più grandi branchi canini mai osservato; si veda Mech & Boitani 2003 per una visione dei branchi canini più grandi osservati in natura), una condizione che dovrebbe favorire l'evoluzione di una equa ripartizione delle decisioni di consenso negli animali (Conradt & Roper 2007). Per fornire una spiegazione alla disparità di condivisione delle decisioni nelle società animali, sembra importante analizzare i fattori che incidono sulla variabilità individuale nella direzione delle tendenze. Abbiamo trovato che la variabilità individuale nella leadership nei cani randagi al momento della partenza del gruppo è stato significativamente influenzato dalle relazioni di dominanza. I cani che si sono comportati più frequentemente come leader erano vecchi ed individui di alto rango che hanno ricevuto il comportamento di sottomissione sia nei cerimoniali di saluto sia in contesti agonistico, da numerosi partner. C'era anche una tendenza non significativa per le femmine a dirigere più dei maschi quando tutte le altre variabili sono state mantenute costanti. Abbiamo anche studiato come le tendenze di guida e di seguace degli individui è mutata dopo un cambiamento nella composizione del gruppo (e nelle relazioni di dominanza), o dispersione di un altro branco. La mancanza di correlazione che abbiamo trovato tra i punteggi di leadership di quegli individui che sono stati studiati sia nella prima sia nella seconda fase della ricerca ulteriore sottolinea l'importanza della composizione del gruppo e di conseguenza dei rapporti sociali per la leadership e suggerisce inoltre che la leadership non è una proprietà intrinseca degli individui. I-noltre, il PCA ha dimostrato che ci sono alcune differenze tra le due fasi della ricerca con riguardo alle variabili che riguardano la leadership. In particolare, nella prima fase, in cui tutte le variabili predittive originale erano altamente correlate. Al contrario, nella seconda fase il PCA separava nettamente i vecchi cani di alto rango che hanno ricevuto sottomissioni formali nel rituale di saluto da cani di alto rango più giovani che hanno ricevuto sottomissioni solo nelle interazioni agonistiche. Soprattutto, abbiamo dimostrato che i precedenti si comportavano più probabilmente come leader, mentre gli ultimi non lo erano. Una possibile spiegazione per le differenze che abbiamo scoperto è che branchi studiati durante la seconda fase sono stati osservati in un periodo di instabilità sociale in cui alcuni cani avevano raggiunto posizioni più alte nella gerarchia di dominanza non riconosciuta ancora dai subalterni nelle cerimonie di saluto. Ciò è esemplificato bene da cane che aveva il punteggio più alto del fattore 2 del PCA. Questo maschio (DOT) era un giovane cane di basso rango durante la prima fase, ma ha raggiunto la seconda posizione più alta della gerarchia di dominanza del branco Corridoio II durante la seconda fase, quando era un giovane cane adulto. Questi risultati indicano che la dominanza formale nei cani randagi può essere un predittore più coerente della leadership di predominio agonistico. Poiché il raggiungimento di una posizione dominante formale sembra essere indistinguibilie dall'instaurazione di rapporti affiliativi con i subalterni nei mammiferi sociali (de Waal & Luttrell 1985; Est et al. 1993; Wittig & Boesch 2003), una interpretazione di questi risultati è che le relazioni affiliative tra i leader di alto rango ed i subalterni avrebbero svolto un ruolo nel suscitare comportamenti da seguace nei cani randagi. Coerentemente con questa interpretazione, la nostra analisi del modello di associazioni territoriali durante il riposo ha dimostrato che, in entrambe le fasi della ricerca, i seguaci si sono associati più strettamente con i leader abituali di altri seguaci. Questo suggerisce che essi avevano sviluppato relazioni più solide di affiliazione con i leader, o in altre parole che essi consideravano i leader come loro partner sociali preferiti. Eventualmente, i cani giovani di alto rango non erano formalmente riconosciuti come leader perché essi non possedevano il livello di abilità sociali che sarebbero state necessarie per stabilire rapporti affiliativi con i seguaci che tuttavia sarebbe migliorato con l’avanzare dell'età (vedi de Villiers et al 1997 per un argomento simile nei cani selvatici africani, Lycaon pictus). Che tipo di vantaggi potrebbero derivare ai seguaci nel mantenimento di associazioni strette con i leader dominanti? Una possibilità è che i subalterni beneficerebbero seguendo i movimenti degli animali di alto rango, perché questi sono di solito gli individui più anziani e più esperti Sebbene in questa popolazione vi fossero probabilmente piccole asimmetrie individuali nelle informazioni sull'ambiente (le risorse alimentari erano prevedibili in termini di tempo e di spazio, perché esse erano fornite dagli esseri umani,) rimane possibile che i cani si comportavano secondo le regole che si sono evolute nell'ambiente originale di adattamento, prima della domesticazione: i cani domestici si sono evoluto dai lupi (Vilà et al 1997), in cui sia i giovani che gli adulti senza prole di solito seguono i genitori per sfruttare la loro esperienza superiore a trovare cibo (Mech 2000; Packard, 2003). In conclusione, questo studio sottolinea l'occorrenza di disparità di condivisione delle decisioni di consenso negli animali sociali. Tuttavia, nei cani randagi la leadership non sembra essere una semplice funzione di rango di dominanza e l’affiliazione può svolgere un ruolo di mediazione nel comportamento di seguace. Questo risultato può fornire qualche sostegno per l'ipotesi che i subalterni beneficerebbero nello stabilire legami sociali con i leader dominanti e che questi benefici supererebbero i costi dei consenso (King et al 2008)." |
Post n°6 pubblicato il 15 Agosto 2012 da joppijo62
di Giovanni Padrone - Ribadendo che fondamentalmente non sono contrario all'utilizzo di nessuno strumento (a parte gli ammennicoli elettrici et similia che assolutamente vieterei sia per l’uso che per la vendita) finché se ne fa un uso corretto e premettendo che non fidandomi di me stesso non ho mai fatto uso di collare a scorrimento né di cavezza vediamo nei dettagli i pro e i contro di questi mezzi di controllo del cane. Intanto, perché li definisco mezzi di controllo? Semplicemente perché un cane può essere il più perfettamente istruito (o addestrato) al mondo che da libero può avere una volta l'istinto di gettarsi in mezzo alla strada per finire sotto un'auto. Se fossimo una civiltà evoluta al punto tale da non dover usare auto, moto, camion e via dicendo personalmente preferirei tenere i miei cani liberi in quanto ci intendiamo abbastanza bene. Ma questa è una utopia. Il guinzaglio serve innanzitutto a controllare che il cane non si vada a mettere nei guai. Poi con lo stesso mezzo si può comunicare il proprio stato di tensione o quello di rilassamento (reciprocamente per il cane ed il proprietario). Naturalmente la cosa migliore sarebbe quella di rimanere sempre calmi e rilassati, finché possibile, in modo da trasmettere al proprio cane sicurezza. STORIA DEL COLLARE Il collare a fascia è il mezzo più antico che gli esseri umani utilizzarono per tenere sotto controllo il cane. Già nelle antiche pitture rupestri di Bhimbethka (13.000 a.f.) e di Akakus (Libia, 12.000 a.f.) sono raffigurati due cani tenuti al guinzaglio e collare dai rispettivi compagni umani. Più tardi, in epoca storica troviamo i dipinti dell’antico Egitto che ritraevano 6000 anni fa dei levrieri al guinzaglio e collare; inoltre nelle tombe egizie sono stati trovati dei collari in cuoio con raffigurazioni pregiate. Circa un migliaio di anni più tardi gli assiri raffigurarono dei cani di grossa taglia (probabilmente molossoidi) con collari apparentemente di metallo o comunque di materiale rigido. Anche nelle rappresentazioni artistiche dell’antica Grecia e di Roma vengono spesso disegnati o scolpiti cani con collare; nell’antica Roma si iniziano a fabbricare collari con borchie e punte esterne per proteggere il collo dei cani usati nelle battaglie. I ‘collari armati’ vengono usati anche nel Medio Evo a protezione dei cani che dovevano fare la guardia alle greggi ed alle mandrie, mentre la Nobiltà inizia a decorare i propri cani con collari fabbricati in metalli pregiati e pietre preziose. Con il diffondersi della classe media in Europa il cane non è più ad appannaggio di pochi e ritorna il collare in cuoio perché a prezzi più accessibili. Nel 16.mo secolo nasce il collare con chiusura a lucchetto. Da quell’epoca ai giorni nostri poco è cambiato se non l’introduzione delle fibre sintetiche e dei materiali plastici nella produzione dei collari. Noto anche come CHOKE COLLAR (collare a strangolo) o CHOKE CHAIN (catena a strangolo) il brevetto del primo SLIP COLLAR (COLLARE A SCORRIMENTO) risale al 1890 (Ae. F. Nuttall, US patent n. 426137 del 22 apr. 1890, che aveva già brevettato l’invenzione in Inghilterra il 9 maggio 1889), anche se era già usato da alcuni allevatori inglesi fin dalla metà del 19.mo secolo. Ne sono state fatte successivamente varie versioni fra cui una con punte interne, ma anche una nel 1995 con il chiaro intento di non creare in alcun modo danni fisici al cane (Christopher E. Beauchamp, US patent n. 5.456.213 del 10 ott. 1995: collare a scorrimento interrotto o semi-strangolo). L’intento originale era quello di tenere maggiormente sotto controllo il cane, soprattutto se di grossa taglia. Tuttavia un uso sbagliato poteva provocare grossi danni al cane, fino all’asfissia e fu per evitare questo che già nel 1924 venne brevettata da George Huff la prima pettorina (US patent 1.508.601 del 16 set. 1924) e perfezionata da George W. Philbrick (US patent n. 1.685.435 del 25 set. 1928). E’ invece del 1984 (US patent n. 4.483.275 del 20 nov. 1984) il brevetto della prima cavezza per cani con il chiaro intento di insegnare al cane la condotta al guinzaglio (“…so that the trainer, rather than merely polling against the mass of the animal, can turn its head in the direction to which he wishes the animal to move…” ossia “…in modo che l'addestratore, invece di limitarsi a porsi davanti al corpo dell'animale, può girare la sua testa nella direzione verso la quale desidera che l'animale vada…”). IL DIBATTITO SUI DANNI FISICI Ad onor del vero bisogna dire che qualsiasi mezzo utilizzato in modo scorretto può causare forti danni al cane, sia esso un normale collare, un collare a scorrimento, una cavezza o persino una pettorina. Di certo alcuni di questi possono più facilmente portare a questo, ma anche uno strattone ad un normale collare fisso o ad una pettorina possono provocare se non gli stessi, danni comunque gravi. Mi è capitato di vedere un ragazzino usare una pettorina come uno yo-yo su un cane di piccolissima taglia ed ho provveduto alla denuncia del genitore per maltrattamento di animale, poiché questi anziché intervenire se ne stava a ridere del povero malcapitato cane. Mai denuncia fu più appropriata visti i danni fisici provocati. Come ribadito più sopra, io personalmente non ho mai usato collare a scorrimento né cavezza, perché visti i miei trascorsi sportivi sono dotato di una certa forza e non vorrei causare ai miei cani (e tantomeno a quelli dei miei clienti) inavvertitamente alcunché a causa di un mio movimento inconsulto. Insegno la condotta ai cani innanzitutto senza guinzaglio e poi lo stesso viene introdotto insieme ad un normalissimo collare a fascia. Non uso nemmeno la pettorina, a meno che non mi capiti un cane particolarmente ostico all’apprendimento della condotta e allora provvisoriamente unisco l’insegnamento ad una pettorina rieducativa (fra le svariate centinaia di cani con cui ho lavorato mi è capitato una sola volta, ovvero circa l’1 x ‰). La cattiva nomea che viene data al collare a scorrimento è perché viene utilizzato in maniera alquanto becera da addestratori poco rispettosi della natura e dell’integrità fisica e psichica del cane (CesarMillan docet); mi è capitato e mi capita tuttora di lavorare sui danni soprattutto psichici fatti da questi ‘addestratori’ (che non paghi di questo spesso ricorrono anche al collare elettrico, strumento anti-etico ed incivile). Tuttavia conosco professionisti che usano lo stesso da anni con criterio, non hanno mai abusato dei propri cani e li hanno sempre trattati con il massimo rispetto. In pratica, il discorso è sempre quello che alcune persone usano il cervello e altre nemmeno sanno cosa sia un cervello. Di certo la rosa dei venti presente nella cinofilia italiana con tutte le sue correnti non contribuisce alla chiarezza nei confronti delle persone, né tantomeno programmi tv che sanno più di show che di realtà (e spesso mentono spudoratamente sulla realtà). Mi auguro che lo spirito di collaborazione nato fra alcuni di noi che operano in maniera professionale nell’educazione e nell’addestramento dei cani (anche se le nostre opinioni possono apparire diverse, ci unisce l’idea di porre il benessere del cane davanti a tutto) possa dare un contributo ed un maggiore impulso alla chiarezza e che il tempo ci dia ragione accantonando chi, per business o per boria, approfitta dell’ignoranza delle persone per causare disinformazione e soprattutto danni gravi ai cani altrui. |
Post n°5 pubblicato il 05 Agosto 2012 da joppijo62
di Giovanni Padrone - Il passaggio, dopo la seconda guerra mondiale, da una società prettamente agricola ad una industriale, ha portato l’Italia a profonde modifiche culturali e di vita. Soprattutto negli anni sessanta del secolo scorso, col rilancio economico e col conseguente svuotamento della campagna i rapporti umani si sono deteriorati. Praticamente si è passati, nel corso di un paio di decenni, da una società dove nei paesi tutti si conoscevano e socializzavano tra loro ad un altro genere di società dove ognuno in città pensava a se stesso, chiuso in un appartamento di condominio senza neanche preoccuparsi di conoscere il proprio dirimpettaio. Questa situazione si è protratta negli anni successivi e, con l’emancipazione femminile, ci si è trovati in una condizione dove molte famiglie avevano entrambi i genitori che lavoravano e, conseguentemente, i rapporti umani all’interno dei nuclei familiari (fra genitori e figli) sono peggiorati. Col benessere economico, sono aumentati i desideri degli italiani e, contemporaneamente a questo, è nato il prestito dilazionato studiato ad hoc per coloro i quali volevano soddisfare qualsiasi desiderio che si presentava all’orizzonte. Con l’innalzamento della ricchezza la gente ha desiderato possedere cose che evidenziassero la condizione sociale in cui si trovava. Il tutto ha influito anche sulla scelta del cane di famiglia: non più il bastardino, il così detto “cane da pagliaio”, ma cani di razze altisonanti, come i levrieri afgani, i collie o gli alani, senza che nessuno comprendesse che l’acquisto di un cane di razza comportava anche una maggiore responsabilizzazione del proprietario. Cambiando le abitudini di vita è mutato anche il modo di alimentarsi, ancor più per i cani con l’avvento dei cibi in scatola e dei mangimi. Nella cultura rurale era il cane a mangiare per ultimo, nutrendosi degli avanzi e subendo, perciò, una involontaria ritualizzazione dei pasti da parte del contadino. Ora, invece, il proprietario che non disponeva di tempo per seguire il proprio cane lasciava il cibo a disposizione in una ciotola, perdendo così uno dei fattori fondamentali per insegnare al proprio amico a quattro zampe il giusto rispetto dei ruoli. Un altro modo di vivere della civiltà rurale, i rapporti umani, coinvolgeva anche quei cani che vi facevano parte. Tutti nei paesi conoscevano tutti e di questo beneficiavano anche gli amici a quattro zampe che vivevano nelle fattorie, abituati ai contatti col genere umano e con gli altri animali che popolavano l’aia. Con l’allontanamento dalla campagna e con i proprietari chiusi in propri box (appartamenti) senza il minimo contatto umano, i cani hanno subito negativamente questo isolamento e, dopo qualche generazione, sono aumentati in modo esponenziale i casi in cui troviamo soggetti con forti problemi di disadattamento e con comportamenti anomali. Perdendosi le abitudini dettate da una condizione economica più umile, si sono persi quei paletti che permettevano al cane di gestire in maniera corretta le condizioni di stress in cui egli poteva trovarsi e si è persa quella minima gestione delle relazioni sociali che ne poteva permettere un minimo controllo al proprietario. Ora sovente si compra un cane senza sapere il motivo per cui lo si acquista. Per questo l’uomo si è dovuto inventare, attraverso vari successivi stadi, una nuova professione: dapprima l’addestratore cinofilo, un uomo che utilizzava metodi coercitivi e che poi passò a metodi più “umani” (parola assai difficile da classificare, visto quello che comporta essere umani: ricordiamo tutte le guerre che si sono fatte per futili motivi o chi uccide i propri simili solo per il gusto di farlo), o per meglio dire gentili. Successivamente si arrivò ai comportamentisti ed agli psicologi canini; infine l’educatore cinofilo, cioè colui che deve riportare proprietario e cane nella giusta condizione di rapporti sociali fra se stessi e nei confronti degli altri elementi che convivono nel loro ambiente, compresi animali domestici di specie differenti. In questo caso, come molto spesso si è verificato nel corso della storia, l’evoluzione ha portato da un lato benefici nei confronti dei singoli membri della società umana, ma ha tolto molto della relazione che un tempo vi era nei confronti dei cani, aumentando i casi di aggressività e di soggetti psicotici. Come il progresso ha eliminato foreste, ha estinto specie animali e vegetali, così si rischiava di chiudere definitivamente quei pochi spiragli che qualcuno aveva individuato essere la chiave di volta per capire i cani. Il caso ha voluto che gli esseri umani ascoltarono questi pochi luminari, spinti forse da un grande rimorso di coscienza e consci che avrebbero perso definitivamente il rapporto con la natura ed il mondo animale. Fu, probabilmente, per queste ragioni che verso la metà degli anni settanta del secolo scorso, si incominciarono ad applicare i primi metodi di addestramento gentile e si sviluppò quasi contemporaneamente quella branca della psicologia canina che ora viene chiamata comportamentismo. In questo modo l’uomo ha iniziato a riavvicinarsi alla natura del cane e sta cercando di recuperare il rapporto che migliaia di anni fa iniziò quando alcuni canidi selvatici si avvicinarono per la prima volta ai suoi villaggi in cerca di qualcosa da mangiare; quei primi animali non sapevano che con quell’atto avrebbero iniziato una serie di eventi che li avrebbe legati per il resto della loro storia con il genere umano. |
Post n°3 pubblicato il 22 Luglio 2012 da joppijo62
di Giovanni Padrone – Parlando di medicina comportamentale applicata alla risoluzione dei problemi di comportamento dei cani abbiamo a livello internazionale essenzialmente due scuole di pensiero, quella francese e quella anglosassone. La prima cerca di affrontare i disturbi psichici dei cani sotto un punto di vista medico ed etologico, cercando di mettere in evidenza il grado di disorganizzazione delle finalità comportamentali. La seconda presenta invece un approccio tipicamente behaviorista e considera le alterazioni del comportamento come reazioni anomale rinforzate dall’ambiente. Risultano perciò importanti i periodi critici dello sviluppo nel cucciolo e gli atteggiamenti tenuti dal proprietario o gli stimoli ambientali veri e propri che si rinforzano nel tempo. Insorgenza e sviluppo dell’A.d.S. Sintomi presenti nell’A.d.S. Considerazioni. Sono state fatte varie riprese video dai sostenitori di entrambe le scuole tramite le quali si è arrivati a stabilire uno schema delle manifestazioni comportamentali presenti nei cani affetti da ansia da separazione. Un punto di incontro fra le due scuole. In effetti, entrambe hanno verificato che avviene un picco di intensità poco dopo la partenza del proprietario (entro i 5 minuti) e cessano intorno alla mezz’ora, anche se spesso il cane mantiene per tutto il periodo di separazione le manifestazioni verbali. L’attività di esplorazione ambientale può essere ripresa a cicli temporali di durata fra i 20 ed i 30 minuti, a meno che non vi siano ulteriori stimolazioni dall’esterno per cui la stessa può riprendere precedentemente. Trattamenti terapeutici Esito L’esito finale può essere un successo, con una certa normalizzazione dei comportamenti del cane, o un autentico fallimento. Il tutto dipende innanzitutto dalla capacità del proprietario di voler collaborare ed attuare tutte quelle tecniche che vengono indicate per aiutare il cane ad uscire dal suo stato ansioso. Spesso agiscono negativamente i suoi sensi di colpa. Il mio punto di vista Fin qui ho trattato degli aspetti teorici che riguardano le due ‘scuole’ comportamentali internazionali principali. Naturalmente ne esistono altre che qui non trattiamo per mancanza di tempo. Qualche precisazione, però, vorrei farla per quanto riguarda la mia esperienza. Rispettando le statistiche che dicono trattarsi di una patologia molto rara, guardando il mio personale archivio posso dire di avere avuto nel corso degli anni di lavoro con svariate centinaia di cani problematici pochi, pochissimi casi (4 certi ed uno probabile ma con presenza di altri problemi). Molti casi di quelli che ho trattato in cui era stata diagnosticata da parte di un veterinario generico o un addestratore/istruttore cinofilo come ansia da separazione nella realtà erano altre patologie (si spazia dalla sindrome da canile alla sindrome da ipersensibiliz-zazione/iperattività). Solo nel primo caso presentatomi dal veterinario compor-tamentista con cui tuttora collaboro (dr. Massimo Franceschetti Picard) ho lavorato inizialmente secondo i canoni imposti dalla scuola francese (anche per la mia allora poca esperienza), ma non essendo molto soddisfatto dei risultati ho cercato altre vie. Sinceramente le tecniche che vanno sotto il nome di Regressione Sociale Guidata, come far mangiare il cane dopo il proprietario o gestire i contatti sociali, mi davano l’impressione che rendessero il cane più insicuro e depresso. Cambiando completamente strada provai ad utilizzare la tecnica delle uscite simulate per abituare il cane a star solo in casa ho trovato efficace l’affiancamento di giochi di attività olfattivo – mentale ed esercizi vari di cooperazione fra cane e proprietario a partire dai semplici esercizi di base fino ad arrivare all’apprendimento sociale interspecifico (il range è molto ampio e perciò è possibile variare di molto le iniziative); in tal modo il cane acquisisce una maggior fiducia in se stesso (autostima) e nel proprio partner umano e si attua una forma di distacco dal proprietario sotto molti punti di vista più equilibrato. Alla fine ciò che può portare al successo della terapia comportamentale è sì la cooperazione del proprietario ma anche l’ecletticità dell’educatore cinofilo, la sua capacità cioè di mutare le tecniche qualora le stesse non convincano o non portino ai risultati sperati. Del resto, come gli accademici del comportamento ricordano, quando una tecnica non porta in breve tempo ad un minimo risultato è giusto cercare altre vie. |
Inviato da: joppijo62
il 15/08/2012 alle 10:35
Inviato da: zuccona24
il 05/08/2012 alle 09:24