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La natura della consapevolezza - intervista a Oliver Sacks - Parte 1

Post n°3017 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da a17540
 

Oliver Sacks è professore di neurologia clinica alla facoltà di Medicina Albert Einstein, ed è famoso per le sue intuizioni straordinarie sul mondo interiore dei pazienti affetti da malattie neurologiche, esposte nei suoi libri e nel film Risvegli. Sono andato a trovarlo per ascoltare le sue idee sulla consapevolezza e la coscienza.

Sono andato a trovare il mio collega Oliver Sacks a casa sua, a City Island nel Bronx, per ascoltare le sue idee sulla consapevolezza e la coscienza. Il dr. Sacks è professore di neurologia clinica alla facoltà di Medicina Albert Einstein, ed è famoso per le sue intuizioni straordinarie sul mondo interiore dei pazienti affetti da malattie neurologiche, esposte nei suoi libri: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Emicrania, Risvegli, Zio Tungsteno, Un antropologo su Marte, Vedere voci, Su una gamba sola, L’isola dei senza colore e l’isola delle Cicadine.

Di Risvegli è stato girato un film, con Robin Williams nelle vesti del dr. Sacks, ma i suoi libri hanno ispirato anche molte recite teatrali, tra cui A Kind of Alaska di Harold Pinter e The Man Who di Peter Brook, oltre a un’opera lirica.

La piccola casa del dr. Sacks è piena di libri; una volta egli l’ha descritta come “una macchina per lavorare”. Le sue opere attingono alla dottrina di molti campi; in particolare, egli è attratto dall’antica letteratura neurologica, piena di descrizioni dettagliate e umanistiche di pazienti affetti da malattie del cervello. Tra i molti interessi del dr. Sacks vi sono la botanica e il nuoto: egli trova ispirazione e rilassamento in frequenti visite ai Giardini botanici del Bronx e nel nuoto intorno a City Island.
Christian Wertenbaker: Come definiresti la consapevolezza?

Oliver Sacks: Oh Dio! Non c’è tempo per riscaldarsi! Ciò attraverso cui una persona osserva le proprie emozioni e processi mentali ed elabora il senso dell’io… Un io storico, sociale e personale. Come Gerald Edelman (nota 1), vorrei distinguere tra una consapevolezza primaria e una di ordine più elevato: la prima è soprattutto percettiva, mentre la seconda è una nozione concettuale del proprio io.

Christian Wertenbaker: Ritieni che gli animali possiedono la consapevolezza percettiva, o nemmeno quella?

Oliver Sacks: Penso che gli animali possono creare scene, costruire scene che sono in grado di percepire e dotare di senso e coerenza; non stanno meramente reagendo a semplici stimoli. Considero la creazione di scene la caratteristica fondamentale di una consapevolezza primaria.

Christian Wertenbaker: E che cosa distingue l’altra consapevolezza?

Oliver Sacks: In parte, la consapevolezza della morte, che nessun animale possiede. In parte, la capacità di ricordare o vedere la propria vita come un tutto; la capacità di immaginare altre prospettive o altri stati mentali; di pensare ipoteticamente o teoricamente, di affrancarsi dal qui e ora.

Christian Wertenbaker: Alcune persone distinguerebbero tra la consapevolezza del mondo e la consapevolezza di essere consapevoli. Pensi che la consapevolezza del proprio io sia una caratteristica che solo noi umani possediamo, e che sia una componente necessaria della nostra consapevolezza?

Oliver Sacks: L’autoconsapevolezza è una componente determinante. Gli animali non arrossiscono. Forse non sono molto consapevoli di essere osservati… Ma, detto ciò, credo che gli animali possono avere anche questo: la nozione di essere nel campo visuale di un’altra creatura è molto primitiva.

Tuttavia, non sono sicuro di essere in grado di parlare della consapevolezza. Recentemente sono usciti tantissimi libri sull’argomento, ce n’è stata un’alluvione. Ovviamente, questo è il punto in cui la neurobiologia, la psicologia e la filosofia convergono.

Christian Wertenbaker: E forse anche la fisica. Per un certo periodo, è sembrato che i fisici fossero più interessati alla consapevolezza dei neuroscienziati.

Oliver Sacks: È plausibile. Ma non mi vanno molto a genio le nozioni di consapevolezza quantica ecc., nella misura in cui scavalcano la biologia e in qualche modo la ritengono irrilevante. In realtà, la consapevolezza si è sviluppata nei sistemi nervosi di un tipo e una complessità particolari, grazie all’evoluzione e alle esperienze individuali, e mi sembra che tutto ciò non va scavalcato. Non sto affermando che per principio la consapevolezza non può esistere, eventualmente, in qualcosa fatto di silicio piuttosto che di unità di carbonio, come dicono a Star Trek (risata). Ma sono scettico delle teorie della consapevolezza che non si basano su una profonda conoscenza dell’anatomia, della fisiologia e del comportamento del sistema nervoso, oltre che della sua embriologia e della sua evoluzione.

Christian Wertenbaker: Cosa pensi delle idee di Roger Penrose, in particolare della sua tesi principale secondo cui la consapevolezza è fondamentalmente non-algoritmica, e che quindi una macchina non può mai essere consapevole?

Oliver Sacks: Egli è chiaramente un genio, nel suo campo. Ma passare dalla natura non-algoritmica del pensiero (e sono d’accordo che processi mentali “più elevati” non sono algoritmici) a una teoria meccanico-quantistica della consapevolezza, mi sembra un salto gratuito e non necessario, oltre che improduttivo. Penso che le teorie della consapevolezza possono svilupparsi naturalmente e senza discontinuità dalle esistenti leggi fisiche e fisiologiche. Quanto alla questione se una macchina può essere consapevole, dipende dalla nostra definizione di macchina. Sono sempre esistite metafore meccaniche della percezione o della consapevolezza, dal “mulino” di Leibniz nel diciassettesimo secolo, alla comunicazione telefonica nel ventesimo secolo, fino al computer di adesso. Ma penso che se vogliamo definire macchina il cervello, dobbiamo immaginare una “macchina” di tipo molto più avanzato di tutto ciò che siamo in grado di produrre, oltre che basata su principi diversi. Credo che l’evoluzione, l’emersione, l’apprendimento e l’adattamento si costruiscono nel cervello, e non sono sicuro che esistono degli equivalenti meccanici.

Nel 1948, quando ero un adolescente, vidi la tartaruga di Grey Walter, che era un robot programmato per rispondere in modo particolare a determinati stimoli. Non riesco a immaginare che una cosa del genere possa essere consapevole. D’altra parte, ritengo che alcuni dei manufatti di Edelman rivelano un certo apprendimento e categorizzazione percettivi, e potrebbero, in linea di principio, diventare consapevoli.

Mi interessano i miti del golem, che in un certo senso vertono sulla questione se una macchina può avere la consapevolezza o la coscienza, e se sì, di che tipo. Il primo golem fu creato da un rabbino praghese nel dodicesimo secolo, ed era progettato per essere un famulo, o servitore domestico. Fatto interessante, i golem erano muti; non avevano li linguaggio. Poi, alcuni di loro persero la testa e uccisero i padroni. Gershom Scholem ha scritto un saggio interessante, chiamato The Two Golems, in cui paragona il golem medievale a un computer (stava parlando alla presentazione di un nuovo, grande computer a Rehovot).

Nemmeno i più potenti supercomputer mi hanno mai dato la sensazione di essere consapevoli, mentre il contrario avviene con un cane. Di certo, in alcuni cervelli e meccanismi mentali di livello inferiore esistono forme di calcolo (o di algoritmi, se è per questo). La percezione della profondità, per esempio, può essere spiegabile con un tipo relativamente semplice di algoritmo ripetuto. E la “costruzione” del colore, nella corteccia prestriata, sebbene in forma semplificata, è stata calcolata. Ma il modo in cui una persona crea scene e significati, assegnando valori alle cose, è essenzialmente esperienziale e individuale, a differenza di tutto ciò che è svolto dalle macchine. La conclusione è questa, suppongo: ammetto il calcolo e la meccanica a molti livelli, ma non a quelli più elevati.

 
 
 
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Data di creazione: 14/06/2010
 

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Applicato in ambito artistico permette di travalicare le consuete strutture sintattiche e arriva a toccare il fondo oscuro e inconfessato dell'animo umano. 

L’esempio più celebre e valido in ambito letterario è forse il monologo di Molly Bloom con cui si chiude l’Ulisse di James Joyce.
Lo scopo dell'artista in questo caso non è quello di insegnare ma di presentare la realtà in tutti i suoi aspetti nel modo più impersonale ed oggettivo possibile e di lasciare al lettore la possibilità di comprenderla attraverso la sua personale percezione.

 
 

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