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La natura della consapevolezza - intervista a Oliver Sacks - Parte 2

Post n°3016 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da a17540
 

Christian Wertenbaker: Tutto ciò ruota fondamentalmente intorno alla domanda: cosa fa di noi degli esseri consapevoli, al contrario di tutte le altre cose che sembrano non esserlo (certamente non nello stesso modo nostro), anche se sono in grado di fare molto di ciò che facciamo noi? Qual è la caratteristica principale che ci distingue?

Oliver Sacks: Un organismo, e soprattutto un organismo umano, deve creare un mondo, oltretutto reagendo a specifici stimoli. Un cane vive nel mondo di un cane, un pipistrello in quello di un pipistrello. Le esperienze conducono a un mondo, e allo stesso tempo sono definite da esso. Henry James una volta disse che le avventure accadono solo a coloro che sono in grado di raccontarle. Quindi, per una mente creatrice di avventure, queste ultime accadono; il mondo, in realtà, consiste in larga misura di avventure. Creiamo uno spazio interiore in cui possiamo muoverci in modo relativamente facile con l’immaginazione e il sentimento. Esiste una notevole libertà di azione… Anche se, quando si è depressi, si perde tale libera volontà e si ha la sensazione che nessuno la possieda. Esiste un bel passaggio, nelle Meditazioni di Cartesio, in cui egli guarda fuori dalla finestra e, vedendo le persone sotto di lui, afferma: “Sembra che esse abbiano volontà e libertà di scelta, ma come posso sapere se non sono ingegnosi burattini o parti del meccanismo di un orologio?”. La volontà è essenziale per definire un organismo e la consapevolezza.

Christian Wertenbaker: In precedenza hai accennato al fatto che la capacità di immaginare la posizione – il mondo – degli altri, è parte integrante della consapevolezza di cui siamo capaci. Adesso stai dicendo che quando siamo depressi, perdiamo la percezione sia della nostra libertà che di quella degli altri. È un fatto interessante.

Oliver Sacks: Ricordo una collega che una volta mi disse che, quando era depressa, pensava che gli altri si muovessero come robot, e che era molto difficile immaginare cosa li motivasse. In modo simile, quando sono depresso, la poesia non riesce a commuovermi; non sono in grado di entrare in essa ed essa non è in grado di entrare in me. Vedo una sorta di superficie tessellata di parole della quale posso forse apprezzare l’abilità prosodica, ma che mi lascia freddo. Questo può succedere anche con le persone affette da autismo. La mia amica Temple Grandin, una donna autistica, è molto musicale, anche se in realtà non ha alcun senso della musica. Ma possiede un’elevata intelligenza musicale. Quando è andata a un concerto di Bach – le Invenzioni a due e tre voci – il suo principale commento è stato che avrebbe desiderato ci fossero state anche invenzioni a quattro e cinque voci! La musica non l’ha toccata minimamente, anche se l’ha giudicata molto ingegnosa.

Volontà. Libertà di azione. Movimento. Penso che nello stile motorio di ognuno vi siano emotività e individualità. La festinazione parkinsoniana sembra meccanica e robotica, priva di stile e musicalità. È come se “esso” camminasse, mentre il soggetto del camminare dovrebbe essere “io”. Una volta ho avuto come paziente un’ex insegnante di musica, descritta in Risvegli, che diceva di essere stata “demusicalizzata” dal morbo di Parkinson, ma che poteva essere “rimusicalizzata”. Penso che stiamo parlando, in parte, di “io” e di “esso”.

Christian Wertenbaker: “Rimusicalizzata” come?

Oliver Sacks: In risposta alla musica stessa. Con la musica lei era in grado di danzare o camminare con grazia e oscillando le braccia, oltre che in modo autonomo e con un senso dell’io. Invece di essere un oggetto agitato dalla festinazione, camminava naturalmente. Forse è necessario usare un temine come identità. La festinazione parkinsoniana non ha identità; è anonima, senza stile.

Christian Wertenbaker: Ma la persona continua ad agire?

Oliver Sacks: Sì, ma i gesti sono un’importante espressione della propria identità. Questa è una delle ragioni per cui ho provato una sensazione strana e imbarazzante quando, per girare Risvegli, Robin Williams si è appropriato di molti dei miei gesti (risata).

Christian Wertenbaker: Questo fatto di entrare nei panni di un altro, in relazione alla consapevolezza, ha molto a che fare con la coscienza. In alcune lingue, per esempio nel francese, i due concetti sono resi dalla stessa parola.

Oliver Sacks: Sì… Un esempio interessante è Phineas Gage, un famoso paziente che ebbe una spaventosa lesione cerebrale verso il 1840. Prima che i suoi lobi frontali venissero accidentalmente tagliati in due da un piede di porco, egli veniva considerato una persona attenta, premurosa, prudente e lungimirante. Dopo il danno cerebrale, divenne incauto, imprudente, sconsiderato, privo di scrupoli e stupido, sebbene l’intelligenza formale – le facoltà cognitive formali come il linguaggio e così via – rimasero intatte. Era come se non fosse più in grado di vedere alcune conseguenze delle sue azioni, o immaginare come gli altri potevano vederle. Per cui, nel suo caso si ebbe un collasso di entrambi gli aspetti della consapevolezza: quello intellettuale, e quella che si potrebbe definire la consapevolezza morale, o coscienza.

Christian Wertenbaker: Si tratta di un’incapacità a concettualizzare o è qualcosa di più sottile? Voglio dire: se gli fosse stato chiesto cosa sarebbe successo facendo questo o quello, egli probabilmente avrebbe potuto rispondere, ma…

Oliver Sacks: Sì, esattamente. Di questo fatto parla spesso Antonio Damasio (nota 2): i pazienti del lobo frontale articolato sono in grado di dire perfettamente, forse, ciò che dovrebbero sentire.

Nella prima guerra mondiale ci fu un giudice che subì una grave lesione al lobo frontale: essa lo rendeva incapace di provare emozioni, ma non colpiva le sue facoltà intellettuali. Si sarebbe potuto pensare che ciò avrebbe fatto di lui un giudice migliore, invece egli abbandonò il seggio, dicendo che poiché non era più in grado di comprendere o immaginare i motivi degli altri, non si riteneva adatto a quel lavoro. Un intuito raro.

Christian Wertenbaker: Mi ricorda l’intuito che la tua amica autistica, Temple Grandin, sembra avere in relazione al proprio funzionamento.

Oliver Sacks: Certamente lei sa intellettualmente che le mancano alcune forme di consapevolezza. A scuola aveva la sensazione che le altre persone comunicassero tra loro mediante un linguaggio complesso, verbale e no, fatto di segni segreti, cenni e allusioni, che lei ignorava e non riusciva a comprendere. Esisteva l’intuizione intellettuale, ma era inutile… Anche se la portò a “esplorare” la mente e gli scopi degli uomini, diventando, nelle sue parole, “un’antropologa su Marte”.

La coscienza è solo un’interiorizzazione della disciplina dei genitori e delle sanzioni sociali, o esiste qualcosa che trascende tutto ciò, un senso del bene e del male? Io credo che esiste una forma trascendente di coscienza, che non ha nulla a che fare con ricompense e punizioni.

Christian Wertenbaker: Questa coscienza è qualcosa che si impara o è innata?

Oliver Sacks: Wittgenstein usava il termine decenza, cioè se si era esseri umani decenti. Non vedo come si può dire se una cosa come questa è appresa o innata, perché la gente, a parte i ragazzi-lupo e cose simili, subisce sin dall’inizio l’influenza del mondo della cultura. È difficile parlare della “natura umana” in quanto tale, perché siamo sempre sotto l’influenza della cultura. Questa è una delle ragioni per cui i ragazzi-lupo sono così affascinanti: per questa idea secondo cui potremmo vedere in essi la natura umana allo stato primitivo.

Christian Wertenbaker: Il sistema visivo è chiaramente sia innato che acquisito: si nasce con un sistema connettivo innato che è massicciamente modificabile dalle esperienze, e che non si svilupperà adeguatamente se non verrà esposto a queste ultime.

Oliver Sacks: Giusto. Direi che allo stesso modo può esistere una sorta di primitivo sistema connettivo morale all’interno dei lobi frontali, e tra questi e il sistema limbico ecc., lo sviluppo del quale può dipendere da complesse esperienze sociali e morali. La cosiddetta empatia è innata o acquisita?

Quando guido, sono affascinato dal comportamento sconsiderato, impulsivo, egoista, violento o criminale di certi guidatori. Questo mi fa sorgere il desiderio di conoscere più da vicino il loro tipo morale, così spesso li raggiungo per vedere la loro fisionomia morale, la posa, l’espressione dei volti.

Sono ossessionato dalla nozione delle bugie, o delle non-verità – mie o di qualcun altro – incluse quelle cose inconsapevoli che sono quasi automatiche. Nel mio lavoro, trovo che talvolta sono necessarie varie riscritture per raggiungere una sorta di correttezza morale e di equilibrio intellettuale. A proposito delle bugie, ho conosciuto una famiglia in California, proveniente dal Messico rurale, di raccoglitori stagionali di carciofi, in cui cinque dei bambini erano congenitamente sordi e non conoscevano alcun linguaggio. Non avevano mai incontrato altre persone, né erano andati a scuola. Non avevano nessun vero linguaggio gestuale, solo una sorta di lingua dei segni “fatta in casa”, con pochissimi elementi. Comunicavano tra loro, con la famiglia e forse con alcuni vicini, ma il loro non era un vero linguaggio. E i due più giovani, un ragazzo e una ragazza adolescenti, adesso stanno imparando il linguaggio gestuale americano. La ragione per cui parlo di questo è che la ragazza, che ora ha quindici anni, è diventata ossessionata dall’idea delle bugie. Ha la sensazione che lei o gli altri possano mentire, come se l’acquisizione del linguaggio avesse portato con sé il concetto di bugia.

Christian Wertenbaker: Interessante. Si può vedere subito che per comprendere l’idea di bugia devi conoscere il linguaggio, ma…

Oliver Sacks: Hughlings Jackons parla del fatto che le persone afasiche, ovvero persone che hanno perso il linguaggio a causa di un danno cerebrale, non possono fare proposizioni, non sono in grado di pensare a se stesse. Possiedono solo un linguaggio emotivo, fatto di esclamazioni.

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L’esempio più celebre e valido in ambito letterario è forse il monologo di Molly Bloom con cui si chiude l’Ulisse di James Joyce.
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