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NO TECNICO MA BELLISSIMO. PRESO DA RUGBYLIST

Post n°3 pubblicato il 13 Novembre 2008 da tonotto
 
Tag: PERENNI

 

IL RUGBY E' PER TUTTI
Il rugby non è uno sport - è un punto di arrivo. O anche un modo di vivere la vita,
 accettandola per quella che è, e che ti regala qualcosa di molto prezioso, qualcosa che 
dai tempi di Adamo ed Eva non si era visto. Ti regala, in tempi di pace, la fotografia della 
tua anima. 
E il coraggio che ci vuole per giocare a rugby è tutto lì: sei 

disposto a guardarti in faccia? Sei disposto a vedere chi sei realmente?
Il rugby parte a un punto fisso, inamovibile: la squadra. Tu ne sei parte, ne sei 

dentro, ne sei disciolto - e una volta dentro voli e ti schianti con essa e per
essa. Se ti senti monade, lascia perdere. Se ti commuovi perchè ti senti
rimproverare da un compagno più esperto, perchè non tenendo una certa
posizione, poi la tua squadra non riuscirà a darti il sostegno, allora puoi
avere grande soddisfazione.

Chiave dell'approccio, e punto di partenza è
l'umiltà. Il rugby è gioco umile, fatto di fango e sul fango, dove le trincee
mobili vengono costruite e disfatte con grande sacrificio degli uomini di
mischia (le ruck e le maul), dove la palla è vissuta come "opportunità" da
finalizzare (portandola in meta). La palla: ne fai qualcosa di buono solo e
soltanto se il compagno a cui l'hai passata ne trae vantaggio. La
responsabilità è tua - e se la palla la perdi, tutta la squadra ne soffre
(riposizionamento, perdita di metri, fatica, colpi presi e dati per niente...).


La palla è ovale. E' la metafora della Fortuna: arriva, va, sembra che ti
segua e poi scarta via, non rimbalza mai dove vuoi tu, ma sopratutto va colta
al volo, quando la vedi arrivare - senza esitazione. E non è facile.
Soprattutto all'inizio la paura per la tua incolumità, la paura per il contatto
fisico, la paura di farti male - insomma la paura ti fa sbagliare, ti fa essere
titubante, ti iperprotegge. Poi, dopo un po', ti rendi conto che il tuo
atteggiamento fa del male alla tua squadra. E qui hai due opzioni: o te ne vai,
o diventi solubile, e ti disciogli nel gruppo - e la palla cerchi di prenderla
al volo, ti butti, ti fai male (a volte), ti senti parte di un organismo
superiore.

Dare e ricevere dolore non è per tutti. Ma tutti quelli che lo
danno e lo ricevono portano rispetto per gli avversari. Così vale per tutti i
cosiddetti sport di contatto - anche se il rugby, lo ripeto, non è uno sport.
Vale per il pugilato, le varie forme di lotta, le arti marziali. Dare e
ricevere dolore è formativo, è educativo, ti permette di conoscere i tuoi
limiti, di spingerli in là, di avere meno paura, di controllarla meglio, di
controllare la tua aggressività, di accettare la tua timidezza, di aumentare il
rispetto per gli altri, siano essi tuoi compagni o avversari. Di rispettare le
regole.

Le regole: ci sono, sono ben codificate, hanno un margine
discrezionale non scritto ma che è proprio dell'arbitro. Le regole si
rispettano. Punto. Chi trasgredisce alle regole (e in campo chi le detta è
l'arbitro - e fine stop) è punito. Se le trasgredisce costantemente subisce
quello che non esiste altrove - l'onta di essere allontanato dal campo per
ANTIGIOCO - per non aver consentito al gioco di fluire, di scorrere, per non
aver consentito alle due squadre di divertirsi, in primis, e di sfruttare le
loro opportunità.

Le opportunità possono essere molteplici, compresa quella
della sconfitta onorevole - altra codifica stravagante del rugby. La palla
viene passata al compagno soltanto all'indietro, e saranno solo le gambe e la
caparbietà e l'intelligenza tattica della squadra che potranno portarla oltre
la linea di meta. Non vi sono altre possibilità. C'è chi scrisse che il rugby
sta al calcio come la I Guerra Mondiale sta alla Seconda: prima non v'era forza
aerea, il territorio veniva conquistato con i fanti e la cavalleria.

La cavalleria: sia essa intesa come onore per l'avversario, che come gruppo dei
cosiddetti tre quarti è parte del rugby. Si gioca una partita CON l'avversario,
non CONTRO l'avversario: il piacere di giocare è reciproco. Alla fine della
partita è rituale l'incontro in Club House a bersi una birra e a mangiare un
boccone assieme all'altra squadra. Si chiama Terzo Tempo, dopo i primi due in
campo, ce n'è un terzo, dove tutto quello che in campo si è fatto e si è detto,
là resta.

E là resta, sul campo, tutto quello che là deve restare. Qualche
pugno, qualche rissetta, qualche chiarimento d'idee. C'è l'arbitro, ci pensa
lui a sistemare le cose, e se deve parlare con le squadre lo fa, comunica,
spiega, chiarisce le idee, e lo fa attraverso i capitani, che sono gli unici
che possono parlare con lui.

I capitani, in un gioco come il rugby, sono di
grandissima importanza. In campo parlano loro, danno loro l'esempio. Basta lo
sguardo torvo di un capitano per farti cambiare registro in campo. Gli
allenatori stanno in tribuna, e guardano la loro squadra. Chi è in campo sa
cosa deve fare. E se non lo sa, alla fine della partita è probabile che avrà le
idee schiarite.

Il rugby non è uno sport - l'attività fisica che in campo si
fa è solo preparazione. Il rugby è uno stato mentale. E' propedeutico alla
vita. Non per nulla i maggiori college inglesi, e le università, contemplano
fra i loro insegnamenti il rugby - in alcune è obbligatoria la frequenza. In
altre vi sono esami universitari incentrati sul rugby, che sono parte del piano
di studio (Trinity College di Dublino, ad esempio, o le più famose Oxford e
Cambridge). Ti insegna ad essere responsabile, a conoscere i tuoi limiti, a
controllare la tua naturale paura, a vivere assieme agli altri, a rispettare le
regole, a rispettare l'autorità, a rispettare l'avversario, a evitare la
furbata come struttura di vita, perchè miope e a corta gittata, a programmare,
a studiare.

Giocate, iscrivetevi, non abbiate paura - io peso 20 kg in meno
del più piccolo nella mia squadra. Cercate un club, portate i vostri bimbi.
Scoprite un modo nuovo e diverso di stare assieme - e perchè no, di vivere.

Giocate.

Luca Bonisoli


 
 
 
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