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Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Verso l'impero



Il panorama politico
europeo e mondiale si modifica profondamente nel 1933 con l'avvento
al potere del capo del Partito Nazionalsocialista, dal quale
dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II Guerra
Mondiale





Nella primavera dei 1936 la guerra d'Etiopia è alla sua svolta
decisiva, anche se la resistenza incontrata si rivela superiore
alle previsioni della vigilia. Nel conflitto perderanno la vita
oltre 200 carabinieri Ogaden: per molti è un nome difficile da
localizzare su una carta geografica. Chi ricorda ancora che
nell'Ogaden fu combattuta (nel 1977, non cent'anni fa) una delle
più sanguinose guerre convenzionali del Corno d'Africa, quando la
Somalia sotto il dittatore Siad Barre truppe di Ras Nassibur attaccate dai carri armati italiani sulle rive del fiume Gorrah, sul fronte somalo-etiopico.tentò, con
motivazioni nazionalistiche, di strappare quell'arida regione
all'Etiopia?

Fu allora che i sovietici, ricorrendo a un imponente ponte aereo,
si precipitarono in aiuto del vacillante regime del negus rosso
Menghistu Hailé Mariam e nel giro di un anno cacciarono i somali
dalle posizioni conquistate, sconfiggendoli nella battaglia di
Diredaua e Giggiga.


Anche in quell'occasione si verificò
l'impressionante forza d'urto della moderna tecnica militare contro
eserciti piuttosto raccogliticci. Giggiga é entrata nella storia
militare come una delle più ardite operazioni aeromobili condotte
dai sovietici. Passata la breve fiammata della guerra, l'Ogaden è
precipitato di nuovo nell'oblio.


A GIGGIGA VIA GUNU GADU.
Eppure quelle assolate pietraie, seminate di arbusti induriti da
mille lotte contro la siccità, ricordavano altri eserciti ed altri
soldati, diversi dai pallidi russi e dagli agili cubani.

Avvolte le gambe nelle loro caratteristiche mollettiere, coperti
dall'inconfondibile casco coloniale, quasi sessant'anni fa
avanzavano lungo quelle strade le armate dell'Italia fascista alla
conquista di un "posto al sole" in Etiopia.


Le operazioni di guerra erano già in
corso quando a Roma si decise la costituzione di quattro bande
autocarrate di carabinieri, incaricate di puntare verso l'Ogaden.
Le bande erano formazioni di fanteria leggera a livello
battaglione/reggimento articolate su un plotone comando e due
compagnie per un totale di mille uomini ciascuna.

Vittorio Emanuele III si recò personalmente a salutare le quattro
formazioni alla scuola allievi dei Carabinieri, prima del
trasferimento a Napoli. Una foto dell'epoca mostra schierati in
bell'ondine i militi dietro i quali campeggia il motto "Nei secoli
fedele". Li attendeva una lunga navigazione sul piroscafo Sannio.
La prima tappa era prevista a Suez, nonostante il rischio di una
chiusura del canale da parte degli inglesi che lo tenevano sotto
controllo.


i resti degli eserciti di ras Cassa e ras Sejum si arrendono a Tembien nel marzo dei 1936.Il porto fissato
per lo sbarco era quello di Obbia, nella regione della
Migiurtinia. Il generale Rodolfo Graziani, responsabile di
quel settore operativo, si era incaricato di attrezzare al
meglio quello scalo perché assolvesse la funzione di base
logistica. Tuttavia uomini e materiali furono sbarcati, il 10
marzo, a un miglio dalla costa a causa del pescaggio eccessivo
della nave. Venti giorni dopo arrivarono anche gli automezzi e
le quattro bande furono a quel punto pronte ad aggregarsi alla
colonna Agostini presso la zona di concentramento di Rocca
Littorio (250 chilometri nell'entroterra migiurtino).


La cosiddetta seconda battaglia
dell'Ogaden prevedeva l'avanzata per linee parallele di tre colonne
(Nasi, Frusci, Agostini), con il compito di convergere sul nodo
strategico di Dagabur per poi avanzare sui passi di Giggiga e
sull'importante città di Harar. L'obiettivo operativo era di
frustrare un ritorno offensivo abissino guidato dal degiac Nasibù
Michael, favorito in febbraio dall'iniziativa del suo sottoposto,
il fitaurari Abatè Tafari, che era riuscito, dopo un aspro
combattimento, a eliminare il presidio di una sessantina di dubat a
Curari, permettendo la creazione di una buona base offensiva per la
riconquista dell'Ogaden.


La colonna Agostini era composta,
oltre che dalle quattro bande autocarrate, dal gruppo bande di
ausiliari coloniali dubat (agli ordini del tenente colonnello
alpino Camillo Bechis), da una coorte della milizia forestale con
annessa batteria di artiglieria campale da 65 mm e da una batteria
da 70 mm.


ufficiali dei Carabinieri delle bande autocarrate impegnati nello studio dei terreno prima della battaglia di Gunu Gadu (aprile 1936).La marcia ebbe
inizio il 16 aprile 1936, ma il primo contatto con il nemico
non avvenne prima del giorno 23, in quanto le forze abissine
sembravano completamente sparite dalla circolazione.

Questa volta i difensori abissini avevano deciso di non rischiare
una pericolosa battaglia di movimento contro forze meglio
equipaggiate, e si erano attestate nella zona Bullaleh-Sassabaneh.
Il punto forte del loro schieramento era rappresentato dalla
località di Gunu Gadu, per l'occasione potentemente
fortificata.


Gli italiani erano perfettamente
informati sulla localizzazione del nemico e si prepararono a una
classica manovra di aggiramento in modo da procedere alla riduzione
del centro di resistenza. Il punto di riferimento scelto per la
manovra era un camioncino del raggruppamento bande dubat. Rispetto
ad esso le bande del tenente colonnello Bechis dovevano spiegarsi
sulla sinistra in modo da avvolgere un lato delle postazioni
avversarie e avvicinarsi ad esse. La seconda banda dei Carabinieri
dovevi invece raggiungere il camioncino ed allargarsi ancora più a
sinistra per proteggere i fianchi delle bande dubat ed occupare
posizioni sul torrente Giarer.


La terza banda, partendo dal famoso
camioncino, doveva costituire la branca destra della tenaglia su
Gunu Gadu, mentre la quarta banda sarebbe rimasta accanto
all'automezzo come riserva insieme alla coorte della milizia
forestale. A circa un chilometro dalla linea di attacco si
sarebbero appostati il comando della colonna Agostini e le due
batterie.


ras Hapte Michael, capo dei Wollo, si arrende al viceré Rodolfo Graziani ad Addis Abeba nel giugno 1936 (Domenica del Corriere).Sulla carta la
manovra era assolutamente ortodossa: anche l'esecuzione si
svolse in modo molto ordinato. Ma l'imprevisto, in ogni
operazione militare, è sempre in agguato, e in quell'occasione
assunse l'aspetto di una guida negligente o infida. La seconda
banda, guidata dal tenente colonnello Citerni, anziché
prendere contatto con il nemico in un terreno favorevole e
coperto per l'aggiramento, si trovò (alle 7 in punto) in una
piana liscia come un tavolo di biliardo e solcata dai tiri
incrociati dei difensori abissini. Il camion di testa prese
subito fuoco. Tutti i carabinieri saltarono velocemente dai
mezzi, organizzando una difesa speditiva in quel posto
pericoloso. Non potevano partire all'attacco perché il
bombardamento era in programma per un'ora e si profilava
dunque il rischio concreto di essere colpiti dai propri
commilitoni. Così, per un'ora circa, rimasero passivi, subendo
un'intensa fucileria, senza aprire il fuoco a loro volta per
conservare preziose cartucce.


Alle 8 del mattino, finalmente, il
rombo degli aeroplani in avvicinamento, seguito dagli scoppi secchi
dei cannoni campali. La boscaglia spinosa fu sconvolta dalle
granate a grande capacità e dalle bombe da 50 chili. Si levarono
colonne di terra, annunciate dal lampo rossastro dell'esplosione,
mentre gli aerei si abbassavano a volo radente per mitragliare ogni
movimento sospetto.


Terminato il bombardamento,
destinato a indebolire le postazioni nemiche, i fanti a terra si
accorsero che la situazione non era affatto mutata. Le fucilate
nemiche non si erano diradate: si erano anzi infittite. Come mai?
Ecco le spiegazioni fornite, a caldo, dagli esperti.


Generale Graziani: "Questi
sbarramenti erano a non grande raggio, la tecnica vi aveva profuso
ogni accorgimento per raggiungere lo scopo. Appostamenti in
caverna, fiancheggiamenti e camminamenti ne facevano dei capisaldi
robustissimi: prendere di viva forza quei passaggi obbligati
sarebbe stata durissima impresa e ci avrebbe attardato".


Generale Frusci: "Le caverne, le
buche, le trincee sono blindate con tronchi d'albero e terra di
riporto e occultate completamente da un mascheramento di ramaglia
che le rende invisibili all'osservazione aerea e anche a quella
terrestre se non portata nelle immediate vicinanze, anche per la
folta vegetazione".


Tenente colonnello De Vecchi
(impegnato in prima linea): "Le buche sono perfette di costruzione
(...). Ognuna di esse è difesa da almeno altre due. Dal piccolo
ingresso e dalle feritoie si osserva un ampio campo di tiro, mentre
è estremamente difficile infilare i piccoli buchi con una fucilata.
Quelle occhiaie cave con il loro sguardo di morte sembrano
irriderci".


la colonna dei generale Geloso si apre la strada nella zona dei Galla e Sidama, nella regione occidentale dell'Etiopia (luglio 1936).Queste
testimonianze dimostrano come gli abissini avessero preparato
un ostacolo assai duro per gli invasori italiani, Non era
certo quello che i combattenti della prima guerra mondiale
avrebbero chiamato una linea fortificata, anche se aveva
ricevuto dai comandanti etiopici l'orgoglioso nome di linea
Hindenburg, il famoso maresciallo tedesco della Grande Guerra.
Niente filo spinato e paletti d'acciaio, niente cupole
corazzate o piazzole d'artiglieria, ma funzionò in modo
egregio. Merito di alcuni consiglieri militari belgi e
soprattutto di un turco che aveva già avuto modo di conoscere
gli italiani dall'altra parte della barricata. Consigliere
militare di ras Immirù, Wehib Pascià aveva combattuto prima
nella guerra di Libia del 1911-1912 e poi nella guerra di
rinascita nazionale turca (1920-1922). In entrambi i casi
aveva imparato la difficile arte dell'arrangiarsi con forze e
mezzi insufficienti.


Specialmente nelle complicate
operazioni sull'altopiano anatolico contro i greci, Wehib aveva
appreso l'arte militare da grandi comandanti turchi come Ismet
Pascià e dal generalissimo Mustafa Kemal. Wehib non aveva
l'autorità per far approvare piani strategici di grande portata,
specie con un esercito largamente feudale come quello abissino, ma
aveva dedicato un anno di lavori intensi a quella linea. Ne risultò
un dispositivo difensivo rustico, edificato con materiali facili da
reperire e che valorizzava al meglio le capacità difensive del
terreno e dei combattenti. Qualcosa di simile alle tanto temute
fortificazioni campali dei vietcong nel lungo conflitto del
Vietnam.


EROI ALL'ASSALTO. Come agli
americani in quel lontano fronte, ai carabinieri ed ai dubat non
restò che prendere di petto il problema.


Se si è particolarmente ben
equipaggiati si può scegliere tra diverse soluzioni. Un carro
armato può, per esempio, centrare con il tiro diretto le feritoie
nemiche; oppure il tricolore sventola sul castello di Gondar al termine della campagna d'Etiopia (illustrazione della Domenica del Corriere).l'artiglieria
può formare una cortina fumogena per favorire l'avvicinamento
dei fanti; o, ancora, si possono formare speciali squadre
d'assalto con genieri dotati di cariche esplosive e
lanciafiamme, armi utili e tremende in queste situazioni.
Altrimenti si deve agire con il coraggio e la perizia dei
fanti, sfruttando al massimo la copertura delle
mitragliatrici, balzando da un magro riparo all'altro e
lanciando un gran numero di bombe a mano. Il momento peggiore
si presenta quando pochi metri separano l'attaccante dal
caposaldo nemico. Dietro quelle feritoie si nasconde un gruppo
di uomini decisi a vendere cara la pelle, vincendo la paura di
fare la fine del topo. Davanti alle finestrelle compaiono
soldati protetti solo dalla loro divisa. Pochi attimi dopo, o
davanti al nido di fucilieri giacciono i corpi degli
attaccanti o al chiuso si scatena l'inferno.


La prima banda di Carabinieri Reali,
appoggiata dalla seconda, riuscii a raggiungere il margine della
fitta boscaglia di Gurru Gadu. Dalle cavernette, spesso ricavate
tra le radici di alberi secolari, gli etiopici scatenarono un fuoco
micidiale; il generale Agostini lanciò la riserva con la quarta
banda dei Carabinieri.


Appena la riserva si mosse, le
pallottole abissine fecero un morto e cinque feriti. La seconda
banda si preparò alla dura opera di rastrellamento delle posizioni
avversarie lungo il greto del torrente Giarer. Ogni feritoia era
pronta a vomitare morte da tutti i lati, ogni tana venne sconvolta
dalla furia dell'irruzione.


Fu sulla destra dello schieramento
che la battaglia infuriò in misura maggiore e la quarta banda si
precipitò in soccorso su quel versante. Nonostante le perdite,
grazie all'eccellente addestramento ricevuto in precedenza, i
carabinieri manovravano senza problemi.


Il re imperatore e il fondatore dell'imperoSi moltiplicarono gli atti di eroismo. Il capitano dei Carabinieri Bonsignore, ferito al fianco, rifiutò ogni soccorso e, con le ultime energie spinse la sua compagnia nel terribile e vittorioso assalto. Cadde il capitano Passerini, dopo aver distrutto due fortini, colpito alla bocca, all'inguine e alla gamba sinistra. Ne seguirono la sorte un vicebrigadiere e sei carabinieri, mentre un ufficiale, tre sottufficiali e otto militi se la cavarono con gravi ferite durante una violenta azione lungo il torrente Giarer.

Un grande esempio di valore fu offerto dal carabiniere Vittoriano Cimmarrusti, ferito una prima volta (e in modo grave) al braccio sinistro, decise di rientrare in prima linea appena medicato. L'ufficiale medico cercò di dissuaderlo: Cimmarrusti tornò a combattere con il braccio al collo. Durante una puntata offensiva nemica, si trova a fronteggiare da solo numerosi assalitori. Per cinquantatre volte la mano destra armò rabbiosamente l'otturatore del fedele moschetto '91, tenendo a bada i nemici. Finite le cartucce, passò alle bombe a mano. Ma altre due pallottole stroncarono la sua eroica resistenza. Gli fu conferita la medaglia d'oro alla memoria.

Un destino identico, ma ancor più doloroso, toccò al bergamasco Mario Ghisleni. Anche lui fu ferito alla gamba sinistra durante la battaglia di Gunu Gadu, ma proseguì il combattimento incoraggiando i compagni. Pagò il suo valore con un'agonia lunga un mese; la morte lo colse sulla nave ospedale Gradisca durante il viaggio di ritorno. Ebbe anche lui la medaglia d'oro.

il Vangelo del soldato (edizione del 1936).All'astuzia e al coraggio epico dei difensori abissini, gli italiani contrapposero la loro impetuosa aggressività e la tipica ingegnosità latina. Nuclei di tiratori scelti furono incaricati di puntare le feritoie nemiche: un paziente ricamo di tiri crudeli per fare abbassare la testa ai difensori. Nel frattempo sciami di assaltatori ammucchiarono fascine e legna secca all'imbocco delle caverne per appiccare il fuoco e stanare il nemico. Gli abissini non scamparono alle fiamme, all'asfissia e al fuoco di bombe e moschetti. Ma i superstiti continuarono a combattere, allungando i tempi della battaglia. I carabinieri saltavano da un anfratto all'altro, da un fortino all'altro, accompagnati dai dubat, per vincere la resistenza del nemico. Finalmente l'artiglieria campale si spostò in avanti, a stretto contatto con la fanteria avanzante. Inizialmente si era attirata addosso la beffarda fucileria abissina. Ma poi aggiustò il tiro, producendo effetti devastanti sui nidi di mitragliatrici del nemico.

LA GURRIGLIA CONTINUA. Le truppe italiane formarono un quadrato intorno alle posizioni abissine ancora attive impedendo molte sortite a partire dal tramonto e per tutta la notte. La mattina seguente continuò l'opera minuziosa di rastrellamento dalle 8,30 alle 11,30. Gli abissini preferirono farsi uccidere in campo aperto o tentare una fuga disperata, dopo una lotta accanita durata 12 ore nell'arco di due giorni. Alla fine i loro capi furono catturati o si arresero e fu così aperta la strada per il successivo balzo su Bullale e Dagabur. Ventidue appartenenti all'Arma persero la vita nella battaglia.

La notizia dello sfondamento della linea Hindenburg demoralizzò talmente le forze etiopiche che, nonostante che le posizioni di Bullaleh e Dagabur fossero altrettanto favorevoli alla difesa, le colonne italiane non incontrarono resistenza.

Il 28 aprile 1936 cadde Sassabaneh, quattro giorni dopo fu la volta di Dagabur. Il 5 maggio il tricolore fu issato su Giggiga, testimone di cento scontri, l'8 seguente capitolò Harar e ventiquattr'ore dopo le forze italiane entrarono a Dire Daua. Fu in questa città che avvenne il ricongiungimento delle armate del fronte settentrionale e di quello meridionale della campagna etiopica.

Lo stesso giorno, il 5 maggio, il comandante supremo, il generale Pietro Badoglio, fece il suo ingresso trionfale nella capitale Addis Abeba. Quattro giorni dopo lo sconfitto Negus, Hailé Selassié, parti per l'esilio a Londra. Aveva perso il trono e il suo paese aveva perso un'indipendenza lungamente e gelosamente difesa ma il sovrano continuò ugualmente a coltivare la speranza di tornare in patria. La sua attesa durò sette anni, fino alla caduta del fascismo che si trascinò dietro l'Impero, proclamato il 5 maggio del 1936.

Con la conquista dell'aspra regione del Goggiam la guerra si concluse di fatto verso la fine di maggio, anche se bande di partigiani continuarono a combattere. Brigantaggio e faide tribali aggravarono in seguito il problema dell'ordine pubblico. Nei giorni seguenti alla conquista di Addis Abeba, i carabinieri, al comando del colonnello Azzolino Hazon, arrestarono un numero imponente di criminali: 606 colpevoli di omicidi o ferimenti gravi (su un totale di 651 fatti di sangue denunciati); 825 colpevoli di reati gravi. Altri 477 individui furono denunciati.

SERVIZIO INFORMAZIONI. Il Colonnello Hazon era un Ufficiale particolarmente dotato di spirito organizzativo ed informativo. Per suo impulso venne creato un servizio di informazioni e sicurezza molto efficiente, che permise anche di valutare gli eccessi di brutalità di cui si macchiò l'occupazione fascista.

Durante un'assenza di Hazon dalla capitale, nel febbraio del 1937, il maresciallo Graziani (che era stato nominato viceré della colonia) rischiò di rimanere vittima di un attentato. Due studenti riuscirono ad avvicinare il corteo vicereale durante una grande manifestazione pubblica e a scagliare diverse bombe a mano, che tuttavia non colpirono Graziani.

Nel giugno 1936 l'Arma fermò, in una sola retata ad Addis Abeba, 1.846 sospetti, 154 dei quali furono trattenuti in arresto. Un mese dopo fu fatto l'inventario delle armi sequestrate alle bande ribelli che cercavano di organizzare la resistenza contro gli italiani: erano 300 tra mitragliatrici e fucili mitragliatori, 10.000 fucili e 30 quintali di munizioni.

I sequestri potevano avvenire nelle circostanze più diverse. Molte armi furono rinvenute nelle fascine di legna che venivano vendute al mercato o in depositi clandestini. Più singolare fu l'operazione condotta da un sottufficiale insospettito dal numero esorbitante di congiunti, amici e familiari che accompagnavano un funerale. Il sottufficiale si assunse il delicato compito di fermare il corteo funebre e aprire la bara, dentro la quale trovò, invece del caro estinto, un paio di mitragliatrici. Altre volte i rinvenimenti avvennero sulla base di precise segnalazioni del servizio informazioni immediatamente allestito dall'Arma. E fu, appunto, sulla base di una informativa che la compagnia interna di Addis Abeba si recò al mulino Salvioni con 37 carabinieri, 20 zaptiè e tre mitragliatrici.

La perquisizione di oltre 300 tucul fruttò un cospicuo bottino di armi e munizioni, ma i ribelli della zona non intendevano affitto lasciare ai Carabinieri il controllo della situazione. Sulla via del ritorno gli automezzi finirono sotto il tiro incrociato di almeno 300 resistenti. Il rapporto di forze era spaventoso (5 ribelli per ogni carabiniere) ma i militi riuscirono a ripararsi in un casolare. Otto carabinieri e sette zaptié persero la vita durante l'assedio, prima che sul posto accorresse la 6' centuria dei Carabinieri Reali che riuscì a sgominare i ribelli con una violenta carica alla baionetta.

I viaggi ferroviari costituivano un'altra avventura degna del "Far West: la linea preferita dalle incursioni abissine era senz'altro quella che collegava Addis Abeba con la colonia francese di Gibuti.
Di una di queste "avventure" fu testimone un giornalista, che si affrettò a darne notizia. Una banda partigiana, forte di 500 uomini interruppe la ferrovia in nove punti diversi, nella zona del monte Ierer e tese l'agguato fra le località di Ducam e Ada. Per fortuna dei passeggeri, sul treno si trovavano una trentina di carabinieri della 450ª sezione mobilitata. Nonostante la pesantissima inferiorità numerica, i carabinieri riuscirono a organizzare un quadrato a terra resistendo all'aggressione del nemico. Un autentico miracolo, dovuto alla grande disciplina e alla straordinaria fermezza di quegli uomini, che scrissero un'altra pagina di controverso eroismo coloniale.

Organizzata l'Etiopia in governatorati, l'Arma si costituì con un comando superiore ad Addis Abeba e sei gruppi (Addis Abeba, Gondar, Gimma, Harrar, Asmara e Mogadiscio), ciascuno dei quali formato da quattro compagnie. La struttura era completata da una scuola allievi zaptié. La forza media era di 100 ufficiali, 750 sottufficiali, circa 1.000 tra appuntati e carabinieri, circa 3.500 militari indigeni.

Nel corso della guerra d'Etiopia 208 carabinieri persero la vita e 800 furono feriti. Ai militi dell'Arma furono concesse 4 medaglie d'oro, 49 d'argento, 108 di bronzo, 435 croci di guerra. La bandiera venne insignita della croce di cavaliere dell'Ordine militare d'Italia.

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