Creato da giovannydelprete il 07/01/2009

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Post N° 39

Post n°39 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Ma anche in Sardegna i briganti
uccidono



Se in Sicilia i
riflettori erano puntati sul duello tra Giuliano e l'Arma, in
Sardegna i mitra crepitavano e le bombe a mano esplodevano senza
eccessivo clamore. Orgosolo, in quegli anni, era il crocevia di un
brigantaggio che risorgeva dalla miseria del dopoguerra e da una
cultura in cui lo Stato era pressoché assente.


Anche nel nuorese si assisteva a una
graduale evoluzione della criminalità: si passava dal vecchio
brigante che vendica i torti subiti dalla propria famiglia al
bandito che vive di rapine ed estorsioni. L'humus che favoriva la
diffusione della criminalità era rappresentato dal terrore della
gente comune e dalla sfiducia quasi atavica nelle istituzioni.


I Carabinieri inizialmente erano
isolati: nei paesi era per loro difficile trovare collaborazione
nella popolazione impaurita; i pochi confidenti venivano troppo
spesso trovati ammazzati. E' sempre un compito ingrato quello di
proteggere una popolazione che non collabora, subendo l'iniziativa
dei criminali.


Nell'agosto 1949 una vettura con le
paghe per le maestranze della diga del Tirso venne assaltata. La
scorta fu massacrata: tre morti e un ferito gravissimo. La stessa
sorte subì un'altra scorta a Sa Ferula a pochi chilometri da
Nuoro.


L'Arma organizzò con metodo la
reazione. Nel maggio 1950 fu catturato il bandito Liandreddu, un
nome famigerato e temuto. A luglio fu la volta di suo zio, Giovan
Battista Liandru, evaso sei anni prima dalla colonia penale di
Mamone dove era rinchiuso dopo aver collezionato 11 mandati di
cattura (quattro omicidi oltre a tentati omicidi, estorsioni,
sequestri, rapine). Le porte del carcere si aprirono anche per
numerosi complici della sua banda. Uno di essi, Giuseppe Dettori,
arrendendosi, esclamò: «Voi siete come i cani da caccia, che non
rinunciano mai».


La tenacia di uomini sorretti
unicamente dallo spirito di corpo e dalla fede nella legge permise
di arrestare nell'aprile 1951 il più pericoloso latitante sardo,
Francesco Sini, sul cui capo era stata messa invano la favolosa
taglia di due milioni di lire.


La rappresaglia dei banditi fu molto
dura. L'8 maggio 1951 a Giana di Perda (porta di pietra), nei
pressi di Tortoli, una campagnola passò sotto il tiro incrociato
dei criminali in un canalone: due carabinieri persero la vita e uno
fu gravemente ferito. Ma anche questa volta i responsabili furono
catturati.


La situazione nell'isola rimase tesa
per molti anni. Ancora nel settembre del 1959 in uno scontro
vennero lanciate bombe a mano. Il maresciallo Ettore D'Amore,
comandante della stazione CC di Orgosolo, fu decorato di medaglia
d'oro alla memoria per aver lanciato una granata che aveva
allertato i colleghi.






Approfondimento: In Somalia, come oggi


Pochi telespettatori fra quanti
hanno visto i baschi rossi con la fiamma d'argento pattugliare sui
gipponi le misere strade di una Mogadiscio sconvolta dalla guerra
civile si saranno ricordati che si trattava di un ritorno dopo una
pausa di quarant'anni.


Con la fine della guerra l'Italia
aveva perso i suoi possedimenti, ma una risoluzione dell'ONU aveva
affidato in amministrazione fiduciaria decennale la Somalia alla
potenza sconfitta. Lo scopo era di favorire un'ordinata transizione
verso l'indipendenza di un territorio tutt'altro che pacifico e che
nel 1948 aveva visto l'eccidio di molti italiani residenti a
Mogadiscio.


Agli inizi del 1950 si costituì il
gruppo territoriale della Somalia, ancora una volta (come da
tradizione) con forze della legione di Napoli. Nel febbraio il
gruppo (costituito da 25 ufficiali, 154 sottufficiali e 341 uomini)
si imbarcò al comando del tenente colonnello Raoul Brunero.


La sede del comando era a
Mogadiscio, insieme al comando della compagnia del Benadir e del
basso Giuba. Da questa compagnia dipendevano le tenenze di
Mogadiscio, Merca e Chisimajo, mentre il resto del territorio
somalo era affidato alle tre restanti compagnie.


Come è accaduto con l'attuale nostra
missione umanitaria (operazione Ibis), ai Carabinieri era anche
affidato il compito di addestrare e costituire una polizia somala,
avvalendosi di una compagnia Carabinieri somali, formata da 140
vecchi e fedeli zaptié.


Non mancarono, purtroppo, le
vittime: in un tumulto a Chisimajo il 1° agosto 1952, un
maresciallo, un carabiniere e un ispettore della polizia somala
furono trucidati dalla folla.


La missione dei CC si concluse con
una solenne cerimonia nel corso della quale il comandante del
gruppo, tenente colonnello Arnera, passò le consegne al tenente
colonnello Mohamed Abscir Mussa, comandante della polizia
locale.

 
 
 

Post N° 38

Post n°38 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


La lunga guerra contro
Giuliano



l'alluvione del Polesine fu la prima grande sciagura nazionale dopo la gerra
Nell'inverno 1951, un lungo periodo di piogge torrenziali
ingrossò pericolosamente il Po lungo tutto il suo corso.
L'acqua raggiunse rapidamente gli argini, che la gente si
affannò inutilmente a rinforzare con sacchetti di
sabbia.


Il 14 novembre il fiume straripò nei
pressi di Pavia provocando la morte di quarantacinque persone. Nel
corso della mattinata la piena travolse gli argini nelle province
di Cremona, Mantova e Reggio Emilia, a Malcantone e ad Occhiobello.
L'acqua dilagò nel Polesine costringendo ad evacuare Rovigo e
Adria. I profughi ammontavano a 100mila.


Il mese precedente le alluvioni
avevano flagellato Sicilia, Sardegna e Calabria. Migliaia di
carabinieri si prodigarono al limite delle forze nell'immane
operazione di salvataggio e soccorso a popolazioni prive di tutto:
per quell'impegno la bandiera dell'Arma fu decorata di medaglia
d'oro al valor civile.


Il Polesine non fu la prima
occasione nella quale i Carabinieri si trovarono impegnati nella
trincea della solidarietà. E non fu neanche l'ultima. Nel periodo
compreso fra i mesi di gennaio e febbraio 1954, un'ondata di gelo
sconvolse l'Abruzzo e il Molise e l'entroterra campano. Per venti
giorni decine di comuni restarono isolati. Oltre agli elementi
territoriali, vennero mobilitati consistenti rinforzi di
Carabinieri della montagna.


un'altra immagine dell'alluvione del PolesineNel 1956 l'inverno fu estremamente
rigido. Varie località montane settentrionali si trovarono in
pesanti difficoltà, che seppero in qualche modo fronteggiare in
virtù della antica consuetudine con il problema; al centro e al sud
la situazione si rivelò disastrosa e richiese l'impegno di
dodicimila carabinieri di cui cinquecento sciatori. Le province
colpite: Agrigento, Arezzo, Campobasso, Caserta, Catanzaro,
Cosenza, Luna, Foggia, Forlì, Lucca, Messina, Pescara, Reggio
Calabria e Sassari. Centinaia di militari ebbero la distinzione di
una ricompensa individuale, encomi, elogi ed attestati di
riconoscenza, per un dovere svolto con disciplina e senso della
collettività, riassunti e simboleggiati da una seconda medaglia al
valor civile all'Arma.


IL CUORE OLTRE LA CATASTROFE.
L'inverno del 1966 rinnovò (dopo l'immane disastro del Vajont) la
tragedia del Polesine, ma questa volta tra le località invase
dall'acqua vi fu anche Firenze. I filmati dell'epoca mostrano
l'Arno che muggiva sugli argini, aggredendo Ponte Vecchio per poi
irrompere nel cuore del capoluogo toscano, provocando ferite
gravissime anche al patrimonio artistico della città. Mezza
Toscana, tutto il Friuli e larghe zone dei Trentino furono
alluvionati. L'Esercito, per lungo tempo unica struttura di
protezione civile e tutt'ora spina dorsale dei soccorsi di massa,
mobilitò 50mila uomini. Molti erano militari di leva e si
comportarono da valorosi.


L'Arma mise a disposizione il meglio
di cui disponeva: i nuclei radiomobili, subacquei e quelli
elicotteri per un totale di 20 mila uomini, 2.195 veicoli e 70
veicoli speciali (50 veicoli blindati M-113, 10 elicotteri, 10
autobotti). Gli uomini stessi non si risparmiarono e 59 rimasero
feriti durante le azioni di soccorso. La bandiera dell'Arma fu
insignita di una seconda medaglia d'oro al valor civile. Ma la
principale ricompensa fu rappresentata dal fatto di aver tratto in
salvo 15mila persone, 13.500 capi di bestiame e oltre 1.000
veicoli.


Due anni dopo vi fu il terremoto del
Belice, una tragedia ed una vergogna che hanno lasciato tracce
profonde. Il 15 gennaio 1968 sei paesi furono cancellati dalla
carta geografica e altri sei furono gravemente colpiti. A Gibellina
le prime scosse fecero fuggire i 6 mila abitanti che passarono la
notte all'addiaccio. La fuga li salvò: poche ore dopo una scossa
del settimo grado della scala Mercalli distrusse completamente il
paese.


Andò in modo peggiore a Montevago
dove, passate le prime leggere scosse, la gente decise di rientrare
nelle case a notte tarda, Quando le scosse di avvertimento
risvegliarono la popolazione non ci fu più tempo per mettersi in
salvo: l'onda d'urto tellurica rase al suolo la maggior parte degli
edifici seppellendo donne, vecchi e bambini. Il terremoto isolò una
vasta zona interrompendo strade, facendo crollare ponti, tagliando
le linee ferroviarie e tranciando quelle telefoniche.


I Carabinieri della legione di
Palermo accorsero con grande tempestività (e con ogni mezzo a
disposizione) sul luogo del disastro. Il loro fu un compito
terribile e doloroso: molti di loro avevano parenti e amici sepolti
sotto le macerie.


Il comandante della legione di
Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, assunse
personalmente il comando delle operazioni. Era un operativo: si era
già distinto da capitano con un gruppo di squadriglie durante la
campagna del CFRB nella rischiosa zona di Corleone, e con grande
senso pratico fece allestire una sala situazione nel comando della
legione per coordinare i soccorsi.


Nella stessa notte fu creato un
centro logistico a Gibellina e furono fatti affluire reparti dalle
legioni di Messina, Bari, Napoli e dal battaglione di Firenze. I CC
schierarono complessivamente: 2.500 militi, 300 automobili, 90
camion, 24 mezzi speciali, 237 motociclette e 6 elicotteri. Non
mancarono gli atti di sciacallaggio e le truffe ai danni di enti
assistenziali, regolarmente denunziati dai Carabinieri.


Lo stesso spirito fu messo in luce
dall'Arma nel terremoto di Tuscania e in quello ben più grave del
Friuli. Le prime violentissime scosse furono avvertite alle 9 di
sera del 6 maggio 1976: ne seguirono altre il giorno 11 e il 15,
con picchi di intensità tra il decimo e l'undicesimo grado della
scala Mercalli. E' il peggiore sisma italiano del secolo.


Ancora una volta i Carabinieri si
mossero con grande rapidità: gli ufficiali della legione di Udine
erano ai loro posti nel giro di pochi minuti; i collegamenti
ressero alla catastrofe; la notte stessa venne formata una
compagnia d'emergenza e fu fatto affluire il personale del XIII
battaglione CC di Gorizia.


Facendo tesoro delle esperienze
precedenti, venne costituito in meno di ventiquattr'ore un centro
di coordinamento dei soccorsi, mentre convergevano le forze del VI
battaglione di Mestre e del VII di Laives. Il giorno 8 le forze
impegnate dall'Arma raggiunsero i 3.000 effettivi con oltre 600
mezzi a disposizione, richiamati da tutto il nord Italia.


Uno dei simboli dell'immane sforzo
compiuto fu la tenda del comando di stazione di Tarcento. La
casermetta era crollata, ma lo stellone repubblicano era lì a
segnalare che gli uomini con gli alamari stavano lavorando per la
collettività. Una terza medaglia d'oro al valor civile premiò lo
spirito e la disciplina con i quali il corpo aveva sfidato la
calamità.

 
 
 

Post N° 37

Post n°37 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Banditismo e calamità
naturali


Premessa



Il Vajont come simbolo delle
grandi calamità naturali che hanno colpito il nostro paese negli
ultimi quarant'anni. Piuna (negli anni Cinquanta), l'alluvione del
Polesine; poi lo straripamento dell'Amo con la violenza subita
dalli città di Firenze. E poi ancora i terremoti nel Belice, in
Friuli e nell'Irpinia. E ancora la teoria infinita delle alluvioni
e delle inondazioni provocate dal disastro idrogeologico che
affligge l'Italia, a causa di mille e una responsabilità politiche
e tecniche.



Ogni volta, in prima linea, i
Carabinieri. Chiamati a soccorrere i feriti, a recuperare le salme,
a scavare fra le macerie, a coordinare gli interventi, a prevenire
le tristi iniziative di sciacallaggio. Una presenza testimoniata
dai tanti riconoscimenti ricevuti per quest'opera, forse meno
appariscente, ed eroica di altri generi di interventi, ma preziosa,
importante, faticosa, pericolosa.


Alle 22.45 del 9 ottobre 1963, gran
parte dell'Italia ha gli occhi fissi al televisore, per assistere
alla partita di Coppa dei Campioni fra Real Madrid e
Glasgow Rangers. E così anche a
Longarone, un paesino del Veneto arrampicato su una montagna.
Il pallone rotola veloce sull'erba, inquadrato dalle
telecamere. Fuori, in una terribile azione rallentata, una
frana di seicento milioni di tonnellate piomba dal monte Toc
nell'invaso della diga del Vajont.



La diga scricchiola orrendamente e regge, ma l'acqua si rovescia
come da un gigantesco catino scosso maldestramente. Un boato
cancella in 120 lunghissimi secondi circa duemila vite umane e
spazza via tutta Longarone. In pochi minuti il Piave freme e si
gonfia di cinque metri. Poche ore dopo arrivano nella desolazione i
primi carabinieri dalle legioni di Bolzano e di Udine. A loro si
uniscono i colleghi dell'XI brigata meccanizzata e degli altri
corpi, nonché i volontari.

 
 
 

Post N° 36

Post n°36 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Il separatismo
siciliano



Enrico De Nicola alla celebrazione del 133° annuale dell'Arma, il 5 giugno 1947In quei
giorni carichi di tensione Brunetti dormiva ogni notte per
poche ore soltanto su una branda al Viminale. Le votazioni si
svolsero senza incidenti il 2 giugno 1946: la Repubblica
ottenne 12 milioni 717.923 voti contro i 10 milioni 719.284
voti raccolti dalla Monarchia. Umberto non sostenne la
successiva campagna dei suoi sostenitori che accusarono il
Ministero dell'Interno di brogli e lasciò l'Italia il 13
giugno per raggiungere il suo esilio a Cascais, in Portogallo.
Quindici giorni dopo il liberale napoletano Enrico De Nicola
fu eletto capo provvisorio della Repubblica. Al suo fianco i
Corazzieri che, sciolti dal giuramento di fedeltà personale al
"re di maggio", diventarono le guardie dei
Presidente.


Nelle elezioni per la Costituente,
le prime elezioni libere dall'ottobre 1922, la Democrazia Cristiana
ottenne il 35,2 per cento dei voti; il 20,7 per cento andò ai
socialisti e il 19 per cento al PCI. E interessante notare che un
buon milione di voti e ben trenta deputati andarono al Fronte
dell'Uomo Qualunque, capeggiato dal drammaturgo Guglielmo Giannini,
un movimento di protesta particolarmente forte nel meridione, dove
l'odio per il governo di Roma era alimentato dalle condizioni di
arretratezza. La mafia rurale stava allora rialzando la testa e
stava stringendo nuovi legami con quella italo?americana impiantata
negli Stati Uniti.


Fu in quel contesto che si sviluppò
la disgraziata idea del separatismo siciliano, funesta come tutti i
tentativi di spaccare la coesione nazionale. I Carabinieri furono
in prima linea nella lotta contro il separatismo.


Il 22 luglio 1943, un giorno prima
della liberazione, il Giornale di Sicilia titolò in prima pagina:
"La Sicilia che non ha mai tradito riconsacra il suo diritto alla
libertà e all'indipendenza", lanciando il primo messaggio
separatista. Cinque giorni dopo un neocostituito CIS (Comitato per
l'Indipendenza della Sicilia) chiese agli alleati la creazione di
un governo provvisorio nell'isola. Nella prima settimana di agosto
fu dato alle stampe il numero 1 del foglio indipendentista Sicilia
liberata. Trascorse un anno prima che le autorità decidessero la
soppressione del foglio.


Salvatore Giuliano con Gaspare Pisciotta, suo braccio destro e poi suo assassinoPER DUE SACCHI
DI GRANO.
Il 2 settembre 1943 un giovanotto proveniente da
San Giuseppe Jato e diretto a sud della natia Montelepre stava
trasportando un paio di sacchi di grano. Non era un semplice
contadino, ma uno dei tanti corrieri del mercato nero del
grano che prosperava sotto l'occhio vigile della mafia e
grazie alla compiacenza di troppe autorità. Giunto alla
località Quattro Molini fu bloccato da due carabinieri e due
guardie campestri. Gli andò male: venne fermato e il carico
gli fu confiscato. Ma a quel punto sopraggiunse un altro
contrabbandiere e tre dei tutori dell'ordine si mossero per
bloccarlo. Uno soltanto era rimasto a sorvegliare il
giovanotto che, con una ginocchiata si sbarazzò dello scomodo
custode, tentando di nascondersi in un boschetto inseguito
dagli altri tutori dell'ordine. Rispose al fuoco uccidendo
l'inseguitore più vicino. Il carabiniere Antonio Mancino fu la
prima vittima del bandito Salvatore Giuliano.


L'Arma si mobilitò per catturare
Giuliano: il 25 dicembre 1943 fu organizzata una gigantesca retata
nei dintorni di Montelepre. Un centinaio di compaesani di Giuliano
(inclusi il padre, lo zio e un cugino), sospettati di complicità,
vennero arrestati. Giuliano venne alla fine scovato, ma riuscì a
sfuggire alla cattura uccidendo un milite e ferendone un altro.
Ebbe così inizio una latitanza tristemente leggendaria che si
protrasse fino al 1950 e che presto si intrecciò con la causa del
separatismo siciliano.


li 4 ottobre 1943 un autorevole
esponente indipendentista, Finocchiaro Aprile, aveva chiesto
esplicitamente l'abdicazione di Vittorio Emanuele III e la
creazione di una repubblica in Sicilia. Il 9 dicembre vi era stata
la pubblica adesione di 11 deputati ex siciliani al CIS,
sottolineata da una petizione agli alleati perché evitassero alla
Sicilia di tornare sotto il governo Badoglio. Con il passaggio dei
poteri dall'AMGOT all'amministrazione italiana l'agitazione
politica per la secessione dall'Italia si intensificò e nell'aprile
1944 il CIS si trasformò nel MIS (Movimento per l'Indipendenza
della Sicilia), che impresse un maggior dinamismo alla lotta.


Fu nel MIS che emerse la figura
carismatica di Antonio Canepa. Iscritto nel 1932 al partito
fascista, aveva partecipato a un colpo di mano per l'annessione di
San Marino all'Italia (1933). Sorpreso in un albergo della piccola
repubblica, mentre era in procinto di organizzare con il fratello
una "marcia su San Marino" alla vigilia dell'operazione, riuscì a
sfuggire alla custodia della locale gendarmeria e a scampare alla
condanna a morte. Nove anni più tardi scrisse, con lo pseudonimo di
Mario Turri, un libello intitolato: "La Sicilia ai siciliani! ?
Documenti per la storia della lotta antifascista in Sicilia".


un comizio al Politeama di Palermo di Andrea Finocchiaro Aprile, fondatore del Movimento per l'Indipendenza della SiciliaL'ILLEGALITÀ
ARMATA.
Nell'isola la situazione diveniva di giorno in
giorno più incandescente: i proprietari terrieri conservatori
non solo giocavano la carta del MIS, ma mantenevano e
sviluppavano i legami mafiosi, anche per difendersi dai
partiti che sostenevano le rivendicazioni contadine.


Le leggi di riforma agraria varate
dal ministro Cullo furono viste come il fumo negli occhi dai
latifondisti, molti dei quali non esitarono ad affidarsi alla mafia
per difendere i loro privilegi.


Nell'ottobre 1944 il primo congresso
del MIS a Taormina non solo riaffermò i suoi orientamenti
repubblicani e separatisti, ma segretamente si preparò per la lotta
armata. Il 14 dicembre gli universitari di Catania, guidati da
Canepa, incaricato di storia delle dottrine politiche nell'ateneo,
organizzarono una dimostrazione contro la leva. Il municipio, il
distretto militare, il tribunale, l'intendenza di finanza e
l'esattoria furono dati alle fiamme. Canepa si incaricò di
scegliere gli studenti che avrebbero costituito il primo nucleo
dell'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia) e
di stampare i primi manifesti a sostegno della causa.


Il più conosciuto fra tali manifesti
fu quello che raffigurava il bandito Giuliano nell'atto di tagliare
le catene che univano la Trinacria al continente, agganciando
l'isola alla terra promessa degli USA. Il testo non lasciava spazio
a compromessi: "A morte i sbirri succhiatori del popolo siciliano e
perché sono i principali radici fascisti, viva il separatismo della
libertà, Giuliano". Si compiva in tal modo la prima significativa
saldatura tra criminalità comune e terrorismo nella storia della
Repubblica. Non sarà l'ultima.


SCACCO ALL'EVIS. In quei
mesi, quando aveva già acquisito una fama che aveva varcato i
confini siciliani e quelli italiani con una lunga serie di delitti,
Giuliano fu avvicinato dai capi separatisti.


un rastrellamento compiuto dai Carabinieri in un casolare della Sicilia centrale. La mafia strinse un'alleanza con gli IndipendentistiIl primo incontro
ebbe luogo nella fattoria dei fratelli Genovese, a passo
Rigano. La proposta operativa di trasferirsi nella zona di
Catania, epicentro dell'EVIS, suscitò la sua diffidenza.
"Supra i lastruni sciggrigu" (sul lastricato scivolo), rispose
il bandito che preferiva operare nella copertura offerta dal
terreno intorno a Montelepre, Giuliano, tuttavia, non rifiutò
di prestare la propria immagine all'EVIS. Ai primi del gennaio
1945 i gravissimi incidenti a Ragusa fomentati dall'EVIS in
seguito all'arresto di nove renitenti, crearono seri problemi
ai Carabinieri per il ristabilimento dell'ordine.

Le unità dell'Arma nella provincia di Catania furono poste in stato
di allerta in seguito a ripetute segnalazioni riguardanti la
presenza di bande armate e agguerritissime.

Il 22 giugno 1945 tre carabinieri furono destinati a un posto di
blocco sulla statale 120: il maresciallo Rizzato, il vicebrigadiere
Rosario Cicciò e il carabiniere Carmelo Calabrese. Alle 8,17 di
mattina intimarono l'alt a un motofurgone che, dopo aver finto di
rallentare, accelerò l'andatura. Un colpo di moschetto in aria
indusse il conducente a rallentare dopo un'altra quarantina di
metri. I carabinieri si avvicinarono al mezzo: Cicciò sul lato del
conducente, Rizzato sull'altro lato e Calabrese sul retro della
vettura.


Si accorsero che dentro al cassone
si nascondevano cinque persone con la tuta mimetica, un fazzoletto
giallorosso al collo ed uno scudetto metallico sul petto con la
scritta 'Sicilia": la divisa dell'EVIS. Lo scontro a fuoco fu
inevitabile. Calabrese e Rizzato furono feriti. Cicciò riusci a
colpire a una coscia uno del camion, che aveva in tasca una bomba a
mano. L'esplosione fu devastante. Nel camion rimasero agonizzanti
Canepa, che si nascondeva dietro le false generalità di Ermanno
Presti, e il suo aiutante Carmelo Rosario.


"A bordo stavano armi, ordigni,
munizioni e valori: due moschetti mitra Breda, due pistole
mitragliatrici tedesche, una carabina automatica americana, due
moschetti mod. 91, tre pistole automatiche, 24 bombe a mano Breda,
due bombe a mano Sipe, sei bombe a mano tedesche, 345 cartucce
varie ed altro materiale di equipaggiamento, nonché la somma di L.
305.000", si legge nel rapporto steso immediatamente dopo.


il famoso manifesto separatista che raffigura Giuliano che taglia le catene che legano Sicilia e Italiagiuliano Lo scontro
permise non soltanto di eliminare una figura di spicco
dell'EVIS, ma soprattutto di avviare una seria azione
investigativa su questo esercito clandestino.

I reclutandi erano inizialmente istradati verso le masserie dei
latifondisti aderenti al movimento e di lì al quartier generale
segreto dell'EVIS. A questo punto i ragazzi sottoscrivevano un
giuramento firmandolo con il nome di battaglia, mentre la loro vera
identità era conosciuta solo da Canepa. Da quel momento
cominciavano gli addestramenti militari in appositi campi.


Gli investigatori ricostruirono
pazientemente la rete dei fiancheggiatori per stringere la morsa
intorno all'organizzazione. Questo lavorio permise alle forze
dell'ordine di contrastare la seconda fase offensiva dell'EVIS,
guidata da Concetto Gallo, designato dal MIS a succedere a Canepa.
Nel suo primo appello ai membri della guerriglia annunciò:
"Fratelli, tenetevi pronti per il gran giorno. Indipendenza o
morte!". Ma il 29 dicembre 1944 i Carabinieri accerchiarono uno dei
suoi campi paramilitari, nella piana di Niscemi.


Per l'EVIS fu un disastro, segnato
anche dalla morte di uno studente palermitano e dell'appuntato
Giovanni Cappello. All'esercito clandestino non restò altro da fare
che stringere ancora i propri legami con il banditismo e la mafia
locali.

 
 
 

Post N° 35

Post n°35 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Al servizio del
popolo



una manifestazione di disoccupati a Milano nel gennaio del 1948. La
scena politica italiana di quegli anni è dominata
essenzialmente da due partiti (li Democrazia Cristiana e il
Partito Comunista) e dai rispettivi leader. Così sono
descritti De Gasperi e Togliatti dallo storico Stuart Hughes:
"Simili per vivacità mentale ed anche per aspetto fisico, i
leader dei due grandi partiti si fronteggiavano l'un l'altro
al tavolo del Consiglio dei Ministri, come due gesuiti, in un
pacato ma incessante confronto di personalità".


Astuto, prudente, colto e altezzoso,
dotato di una innata e sperimentata capacità di sopravvivere a
tutte le tempeste politiche, ma anche stalinista convinto e, se del
caso, implacabile (ma non ottuso), Togliatti sapeva pensare in modo
creativo e possedeva una indiscutibile visione strategica
d'insieme, che lo distaccava dal dogmatismo e dal fideismo di molti
suoi colleghi di altri Paesi e di gran parte della sua base.


il Generale Brunetto Brunetti, Comandante Generale dell'Arma all'epoca dei referendumDi formazione
austroungarica, De Gasperi era stato l'ultimo segretario del
vecchio Partito Popolare. Il suo anticomunismo, coltivato
nelle tumultuose esperienze degli anni Trenta, si lega a un
sincero antifascismo e alla costante adesione alla democrazia
parlamentare. Statista riservato e dignitoso, tattico senza
pari, egli mantiene la DC lontana sia dalle pressioni
conservatrici del Vaticano, sia dalla sinistra radicaleggiante
del suo partito.


Stretto fra questi due vasi di
ferro, il governo Parri non poteva durare a lungo, ma svolse il
fondamentale compito di guidare il Paese verso il referendum tra
Repubblica e Monarchia e verso le prime elezioni politiche
libere.


Già nel gennaio 1944 il primo
congresso dei comitati di liberazione a Bari aveva lanciato un
chiaro segnale alla Monarchia, chiedendo a re Vittorio Emanuele III
di abdicare. Il sovrano non ebbe il coraggio di accettare il
suggerimento e decise invece di trasferire i suoi poteri al figlio
Umberto, nominandolo luogotenente generale all'indomani della
liberazione di Roma e ritirandosi a vita privata.


Nell'imminenza di un referendum
decisivo, accoppiato a cruciali elezioni, il vecchio re si convinse
finalmente ad abdicare il 9 maggio e si ritirò in Egitto, esule
volontario.


LA FUGA DI ROTTA. I
Carabinieri mantennero il sangue freddo anche quando la polemica
politica li toccò direttamente. L'allora Comandante Generale,
Taddeo Orlando, era stato appena rimpiazzato nel marzo 1945
sull'onda della fuga dell'ex capo del SIM (Servizio Informazioni
Militari) Mario Roatta.


Un colonnello del SIM aveva
confessato di aver predisposto l'uccisione dei fratelli Rosselli,
noti antifascisti rifugiati in Francia, su mandato di Roatti, agli
ordini del sottosegretario alla Guerra generale Pariani. In un
Paese appena uscito dalla dittatura è facile immaginare quanta
rabbia suscitasse la fuga di Roatta dal liceo Virgilio a Roma,
allora trasformato in ospedale militare. Una violenta campagna di
stampa costrinse i servizi a cambiare nome, accusando il generale
Orlando di complicità nella fuga.


Anche il suo successore, Brunetto
Brunetti, fu sospettato di partecipazione a complotti
filomonarchici, mentre al tempo stesso veniva fatta circolare la
voce secondo la quale, in caso di vittoria della Repubblica, l'Arma
sarebbe stata sciolta. I Carabinieri Reali risposero con un
disciplinato e leale comportamento, elogiato dallo stesso ministro
dell'Interno, il socialista Romita.


Appena pochi giorni prima del voto
il famosissimo messaggio del generale Brunetti ("Carabinieri: figli
del popolo al servizio del popolo") chiarì in modo inequivocabile
da che parte stesse l'Arma.

 
 
 

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