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Due Figaro… tre... oppure quattro?

Post n°139 pubblicato il 27 Maggio 2011 da feroce.saladino
Foto di feroce.saladino


Due Figaro… tre... oppure quattro?

Insolita questa commedia di Felice Romani, ottimo e prolifico  “poeta” al servizio dell’opera, che da par suo ha sfornato oltre un centinaio di libretti per musicisti contemporanei del calibro di Bellini, Donizetti, Mercadante, ma anche Rossini e il giovane Verdi.

 

L’argomento, innanzi tutto. Prima che Beaumarchais terminasse la sua trilogia di Figaro, un attore della compagnia parigina che rappresentava Le mariage de Figaro, il cittadino Honoré-Francois Richaud, detto Martelly, (1751-1817), per rispondere alle critiche rivoltegli da Beaumarchais in persona in merito alla sua interpretazione di Almaviva, elaborò un testo teatrale con gli stessi personaggi, Les deux Figaro ou Le sujet de comédie, andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1790, poco dopo lo scoppio della rivoluzione francese e rimasto in cartellone fin quasi alla fine dell’avventura napoleonica (1813).

Il musicista Michele Carafa de Colobrano (1787-1872), autore partenopeo di nascita e di formazione, grande  amico ed epigono di Rossini, assistette probabilmente a una di quelle rappresentazioni durante il primo soggiorno a Parigi (1806). Quindici anni dopo, nel 1820, andava in scena al Regio Teatro alla Scala il melodramma: I due Figaro o sia Il soggetto di una commedia, su versi del Romani. La presente pubblicazione riproduce il testo stampato a Milano in concomitanza di quel primo allestimento. Lo stesso libretto verrà in seguito utilizzato da altri compositori: Giovanni Panizza (1824), Dionisio Brogialdi (Barcellona, 1825), Saverio Mercadante (vedi più sopra l’articolo riguardante il ritrovamento a Madrid della partitura completa, datata 1826) e infine Giovanni Antonio Speranza (Torino, 1839, ma preceduta da una “prima” a Napoli, 1838); tutti, tranne Mercadante, musicisti ancor più oscuri e dimenticati del Carafa.

 

Della versione di Mercadante, attendiamo la prima ripresa moderna diretta da Riccardo Muti, a Salisburgo e a Ravenna (giugno 2011).

 

Inaspettatamente, dei versi del Romani per il melodramma musicato da Giovanni Antonio Speranza, si trovano numerose ristampe, in Italia ma anche in Spagna, che testimoniano evidentemente una certa popolarità e/o diffusione dell’opera fra il 1839 e il  1844, quando la spinta eversiva della Rivoluzione francese in Martelly e in seguito gli echi libertari nel clima politico italiano intorno al 1820, quando vedeva la luce il melodramma di Felice Romani-Carafa, si erano spenti.

 

[…]

 

I personaggi.

Figaro, divenuto una figura mitica, la maschera della furbizia e dell’inventiva, qui è un essere meschino. “All’idea di quel metallo” soggiace tutta la sua umanità e fantasia. Mira solo ai soldi e non si fa alcuno scrupolo dei sentimenti di Inez e della Contessa; è in malafede anche nei riguardi della propria sposa, Susanna che evidentemente, 12 anni dopo le nozze, non sopporta più e rappresenta solo un ostacolo alle proprie mire. Significativa anche la sua misoginia che si esprime nei versi:    

Il complotto è sventato... o donne audaci!

Voi congiurar!... tremate... io solo impero…

Quel che voglio sarà... voi tornerete

A strisciar come prima, o vili insetti.   [pag. 34]

Il Conte di Almaviva è ormai un vecchio balordo e cocciuto, facile preda di imbroglioni e servette che sanno il fatto loro. Ha assunto i panni di una tipica figura dell’opera buffa napoletana (ma anche del teatro di Goldoni): il padre autoritario che vuole imporre un matrimonio d’interesse alla figlia, ma anche il tutore geloso, gabbato nella sua “inutile precauzione” di evitare alla pupilla contatti con possibili spasimanti. Il conte si è trasformato nel suo avversario di un tempo, Bartolo, e gli si è spenta anche la libido, la voglia di trasgredire, motore dell’azione nelle Nozze di Figaro di Mozart-Da Ponte: non approfitta nemmeno dell’amata di un tempo, Susanna, quando lei invoca il suo perdono baciandogli devotamente la mano. È un vecchio rassegnato, cinico e deluso dall’amore, che fa queste considerazioni:

Che mai giova al nostro bene

Maritarsi per amor?

Tosto o tardi estingue Imene

Dell’amore il primo ardor.

Come un dì Rosina amai!

Come anch’essa un dì m’amò!

Finalmente la sposai…

L’amo ancora? Non lo so.

O dolci trasporti – di teneri affetti,

Se fuggon sì rapidi – i vostri diletti,

Felice quell’anima – che mai vi provò.   [pag. 16]

[…]

Il grande assente, alfine, in questa commedia, è proprio l’amore, pur essendo il (convenzionale) principio ispiratore di questo genere teatrale e di quasi tutto il teatro tout court, in prosa come in musica.

 

[…]

 

Inez e Cherubino, infine, i due amanti, non si concedono alcun trasporto, alcun abbandono (forse perché impediti dal procedere implacabile degli avvenimenti). Inez è troppo acerba e inesperta, e Cherubino, plasmato dalla rude vita militare, ha pure lui una filosofia di vita, sebbene mitigata dalla giovane età,  pragmatica e cinica; l’amore è una palestra di inganni, dove trionfa chi è più abile e scaltro:

Amor, che i timidi – audaci rendi,

Con noi discendi – a congiurar.

Colle tue solite –  astuzie e frodi

Ne insegna i modi – di trionfar.     [pag. 27]

 

Tutto sommato una commedia composta di splendidi versi, I due Figaro, dove l’amore, con “astuzie e frodi” ha l’ultima parola. Ma sembrano più parole di circostanza, una formula retorica, come lo scontato lieto fine delle favole, più che una genuina fiducia nella forza del sentimento.

 

Da tanti imbrogli e palpiti

Alfin respiri ogni alma:

----

Amor che al nodo è pronubo

Più non la turberà.               [pag. 79]

 

Il nodo matrimoniale, coronamento dell’amore, suggella la fine di ogni turbamento dell’anima, ma anche di ogni passione.

 

                                                      Dino Finetti

 

 

 
 
 
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