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Panetta: «Nella mia vita tutta di corsa ho battuto anche Pantani»

Post n°475 pubblicato il 18 Settembre 2015 da msgemanuelee
 

 

 

 

 

Arrivò dalla Calabria alla fine di settembre e Milano gli apparve nel suo splendore di città senza sole: ma aveva 18 anni, qualche sogno nel cassetto e non sarebbe tornato indietro neppure se si fosse trovato in mezzo al deserto del Gobi, da solo, senza viveri né bussola. Qualche centinaio di chilometri più in giù, a quattordici ore di treno, c' era Siderno Marina, Calabria. Lì a Milano, chiamato da una società storica e importante come la Pro Patria, c' era il Bengodi che aveva sognato da ragazzino che amava correre fino a scoppiare.

Francesco Panetta era appena diventato maggiorenne quando un tecnico di atletica all' avanguardia, Giorgio Rondelli, lo marcò stretto fino a Rovereto e lo vide cadere per aver inciampato in un cordolo traditore: il ragazzino era miope, gli occhiali si appannavano presto e la strada diventava una specie di scena in dissolvenza. Quando cadde, faccia a terra, Panetta pensò che forse non era giornata: invece quel giorno di metà settembre del 1981 rappresentò la svolta della sua vita. Rondelli raccolse gli occhiali semifracassati e gli propose un salto triplo mortale senza rete: trasferirsi al nord. Per uno che amava soltanto correre, che idolatrava Henry Rono e voleva copiare Venanzio Ortis, quello era un rischio di proporzioni gigantesche. Eppure Panetta ci mise un secondo ad accettare. Qualche mese più tardi, quando ormai la nebbia aveva un sapore familiare, avrebbe accettato anche un paio di consigli da Alberto Cova, il cavallo di razza della scuderia Pro Patria: mettiti le lenti a contatto e tagliati quei riccioli. Milano, dunque. Una Bengodi senza sole. «Ricordo il freddo, la nebbia, la pioggia, il gelo: andavo ad allenarmi alla Montagnetta e respiravo quella nebbia, quel freddo. Ecco, questa è la mia Milano, quella che amo di più». Quando approda al nord, ci mette poche settimane a capire come funziona la vita: «Cova era la punta di diamante, io il suo scudiero. Eppure non ho mai considerato Alberto un imbattibile. In allenamento ero l' unico a stargli dietro, e spesso anche davanti. Ricordo un 800 prima degli Europei di Stoccarda: Rondelli mi chiede di tirare la volata ad Alberto ma anche di non mollare prima del traguardo. Tiro la volata, Alberto mi sorpassa ai 50 metri finali, io non mollo e mi sento talmente tanto bene da riprenderlo e sorpassarlo a 20 metri dalla fine. In tribuna c' è chi diventò bianco di spavento. Sa, battere il campione mondiale e olimpico...».

Quasi vent' anni dopo, Francesco Panetta è un giovane adulto di 38 anni che rilegge il proprio passato di atleta con grande disincanto. «Ho un pacco di giornali che parlano di me, ma sopra dev' esserci un dito di polvere. In casa tengo qualche Coppa per metterci le chiavi della macchina: il grosso dei trofei è in solaio. Le medaglie stanno in una cassetta di sicurezza in banca: per il loro valore sentimentale, mica perché sono d' oro vero. Insomma, l' essere stato uno che spesso stava sui giornali e poi un bel giorno stop non mi pesa per nulla. C' è un tempo per tutto e per me il tempo della gloria è finito». Eppure qualcosa ha dato, qualcosa ha fatto in questo piccolo-grande mondo dove la vena aurifera che produceva campioni sembra essersi esaurita: se dici «atletica degli anni ' 80» il pensiero non può che andare a lui, a Panetta Francesco, il ragazzo di Calabria al quale Comencini si ispirò per un film delicato sullo sport e sulla vita. «È stato un bel periodo - dice Panetta -, forse l' ultimo bel periodo dell' atletica italiana. Adesso siamo fermi da anni, immobili ad aspettare chissà che cosa: senza programmazione, senza progetti, senza idee. Così non si va avanti». Il suo progetto era di diventare qualcuno nella corsa: da ragazzino era bravo, un campioncino promettente, ma non baciato dal talento puro, quello che illumina i fuoriclasse e talvolta li illude. Lui per emergere doveva lavorare, lavorare e lavorare: «Tra allenamenti e gare, nella mia vita avrò corso 80 mila chilometri: due volte il giro del mondo. A me sembra di averne fatti almeno il doppio». Gli diedero soprannomi significativi: Diesel, per esempio. «Carburavo tardi, ma andavo avanti quando gli altri cominciavano a rallentare». Oppure il Pirata: merito di quella bandana in testa che nell' iconografia sportiva italiana comparve molto, molto prima della bandana più famosa d' Italia, quella di Marco Pantani: «Era di color verde - ricorda Panetta -. Un regalo di Vanessa, la mia ragazza. La misi a Bologna, ai campionati assoluti, più per ringraziarla del pensiero che per un motivo pratico. Ricordo la data, 2 agosto 1993: arrivai terzo nei 1.500 in 3' 40' ' . Pantani, con la sua bandana gialla, è arrivato tre o quattro anni dopo». Quello del ' 93 era un atleta che aveva già imboccato il viale del tramonto. Non era più il Diesel che nell' 87 aveva vinto oro e argento ai Mondiali di Roma. Non era più l' atleta capace di vincere 27 gare su 32, di centrare record italiani in serie. Non reggeva più i massacranti allenamenti ai quali si era sottoposto negli anni d' oro della carriera. Nell' 88, poco prima dei Giochi di Seul finiti malamente, si era rotta l' armonia con Rondelli: le reciproche incomprensioni sfociarono in divorzio clamoroso e avvelenato che fece male non soltanto ai protagonisti ma a tutta l' atletica italiana. Il Pirata voleva fare da solo, e finì che andò di nuovo sui giornali e in Tv non per una vittoria, non per un' impresa cronometrica, ma per una mano offerta ad Alessandro Lambruschini durante la finale delle siepi agli Europei del' 94. Lambruschini, il gran favorito, a metà gara cadde in curva, e Panetta che lo seguiva si fermò e lo aiutò a rialzarsi. Lambruschini vinse quell' oro e Francesco incassò elogi da Libro Cuore. «Se avessi avuto la forza di vincere non sarei stato lì, ma molto più avanti di Alessandro - scherza adesso -. Però quello fu un episodio preceduto da un fatto strano: molti mesi prima avevo sognato che salvavo Lambruschini dal fuoco di un appartamento in fiamme. A Helsinki lo salvai dall' inferno della sconfitta». Sono passati quasi sette anni: «Lambrusca» è ancora lì a cercare la ribalta agonistica, mentre Panetta gira in «Slk» gialla, abita in una bella casa a Monza e progetta il futuro con la fidanzata Vanessa. È attivo quanto basta per considerarsi un uomo soddisfatto: collabora con la Diadora progettando scarpe da jogging e da competizione, scrive per una rivista di atletica (titolo della rubrica: «L' isola del corsaro»), fa il commentatore alla Rai. Gioca a calcio e calcetto, e non corre più, neanche per diletto. Il fisico ci starebbe: è la mente che non regge lo sforzo. Ciò che è stato un lavoro non può essere un gioco.

 

 

fonte:

http://archiviostorico.corriere.it/2001/febbraio/09/Panetta_Nella_mia_vita_tutta_co_0_0102096892.shtml

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Lwiza il 01/10/15 alle 15:30 via WEB
Tutto è molto aperto e molto chiara spiegazione dei problemi. era veramente informazioni. Il tuo sito web è molto utile. Grazie per aver condiviso. Voyance serieuse
 
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