Franti

LA FINALE.


  Negli  ultimi quindici anni i miei spaghetti sono diventati praticamente perfetti. Un equilibrio nel dosaggio dei condimenti che Gualtiero Marchesi avrebbe bisogno del bilancino della coca per eguagliare il mio colpo d'occhio. L'aglio necessario è grande giusto quanto l'unghia dell'indice della mia mano sinistra. L'olio nella padella, rigorosamente extravergine zona Andria-Corato, ricopre i cinque ottavi del fondo di una padella di trentacinque virgola sette centimetri di diametro. Il sale grosso necessario ai cinque litri di acqua osmotizzata, entra nel cavo della mia mano sinistra, arginato dal pollice a sinistra e dalla eminenza tenar a destra. Il peperoncino è l'ingrediente che presenta più difficoltà. E' infido, a seconda della sua provenienza merita un dosaggio microscopicamente differente ed un ingresso nel soffritto che varia dai primi quindici secondi al minuto. Le alici, direttamente da Trapani, in una capasa da dieci litri, con sale grosso marino per kili uno, in numero di quattro, vengono, ripulite con acqua corrente, per metà sciolte nell'olio bollente in fase di soffritto e per metà sminuzzate in mantecatura. Il pane grattugiato, da crosta di pane di Altamura, spolverizzato negli ultimi dieci secondi di mantecatura.La preparazione di questa pietanza è un rito che officio la sera della Finale, ormai da quindici anni. Una settimana prima della partita mia madre venne tragicamente a mancare. Era la settantatreesima partita che la Juventus ed il Liverpool disputavano, vanamente, per aggiudicarsi il titolo di Coppa dei Campioni. Risalendo con la memoria a quella prima, memorabile partita mi salgono le lacrime agli occhi.Avevo quattordici anni. L'onda emotiva creata dalla tragedia voluta dai Reds spinse l'arbitro ad assegnarci un rigore per un fallo commesso fuori area. Platini, il più grande regista che i prati verdi del calcio abbiano mai conosciuto, commise l'errore più grande della sua vita. Grobelaar lo incantò con un lascivo movimento delle ginocchia. Il più grande regista di tutti i tempi spedì il pallone in orbita geostazionaria. Piatto destro e via. In orbita. Mai più. Nevermore. Un errore che stregò e che continua a stregare le porte dello stadio Heysel, ora stadio Re Baldovino. Mai più nessuna palla è entrata a gonfiare quelle reti, a violare quel territorio piccolissimo che va dalla linea di porta in fondo per due metri fino alla rete. Non bastarono i restanti venti minuti regolamentari. Zero a zero. Non bastarono i tempi supplementari. Ne i rigori. Un arcano sortilegio aveva reso le porte invisibili ed invalicabili muri. Zero a zero. Nevermore. Dopo quattro ore e venticinque minuti la commissione Uefa ordinò la sospensione della partita ed il rinvio a data da destinarsi. La quasi totalità dei giocatori fu inchiodata da dolorosi crampi. Cinque giorni dopo le squadre si ripresentarono alla seconda partita. Altra partita, altro zero a zero. Questa volta i crampi procurarono danni seri e bloccarono la partita dopo due ore e tre quarti.. Due settimane dopo le squadre si ripresentarono al terzo incontro completamente stravolte. Avevamo perduto Boniek, Cabrini e Tardelli. Scirea e Platini vollero scendere in campo a tutti i costi, nonostante le loro condizioni fisiche fossero da recuperare. Altra partita altro zero a zero.Mai più nessuna palla avrebbe violato quelle porte e non le violò quella volta. Si resistette in campo tre ore nette. Erano stati scoccati decine di tiri e battuti centinaia di rigori. Qualsiasi tiro nello specchio della porta finiva magicamente per impennarsi giusto prima di  della linea di porta. Oppure finiva dritto tra le braccia di Grobelaar e Tacconi. In solo tre partite avevano battuto ogni record di imbattibilità.Quella volta gli infortunati non si contarono. I crampi li fermavano come colpi apoplettici in mezzo al campo. Dopo cinque partite in quattro mesi, nessuno dei giocatori che disputarono la prima memorabile partita, era ancora in attività. Soprattutto Grobelaar e Tacconi. Il primo cominciò a dare segni di squilibrio alla terza partita: delirio di onnipotenza. Iniziò a rilasciare dichiarazioni del tipo: Jascin mi fa una sega, Aldous Huxley mi ha dedicato un libro, sarei capace di parare un Tomahawk ,se me lo faceste passare ad una altezza ragionevole naturalmente, e altre cose del genere. Non c'era da biasimarlo, in fondo. La palla non entrava, e lui credeva di averne il merito. La società lo sostituì immediatamente. Tacconi, invece, persona più equilibrata e ragionevole, si limitò ad un piccolo esaurimento nervoso e a un celebratissimo ritiro dallo sport.Da allora la Finale si tenne ad intervalli regolari: più o meno un mese e mezzo. Otto partite l'anno. La Uefa impose una durata standard alle partite: due tempi da quarantacinque minuti e altri tre da dieci. Niente più rigori supplementari. La partita sarebbe stata decisa da un solo goal.Al fatto che non si segnasse nessuno ci badò più. La finale divenne una rappresentazione teatrale fatta di infinite repliche. Dopo quattro anni la passarono dalla prima alla seconda serata. Il numero di telespettatori calava ad ogni rappresentazione e gli sponsor cominciarono a battere in ritirata. Al sesto anno si passò dal primo al terzo canale. Noi, lo zoccolo duro della Finale, gli aficionados, eravamo rimasti in settecentomila e quindi nella media audience di un programma culturale di Raitre in seconda serata. Dopo la partita seguiva il dibattito: sociologi e filosofi, statistici e religiosi si alternavano in un balletto di supposizioni che mi sono sempre state estranee, sembrate lontane dalla verità. Ossia il Caso. Questo mostro che regola ogni attimo della nostra vita senza che nessuno possa ostacolarlo. Fu il Caso a far sì che una leucemia fulminante si trascinasse mia madre nella tomba una settimana prima della partita. In casa rimanemmo io e mio padre. Fu allora che mi allontanai da dio e mi avvicinai all'arte culinaria e feci per la prima volta gli spaghetti alla segarola, l'ostia consacrata al rito della Finale. Mio padre si spense l'anno successivo, alla ottantesima partita. Roberto Baggio pennellò un calcio di punizione che si stampò sul palo alla destra del portiere: infarto miocardico. Mio padre non resistette a quel colpo a sorpresa. Non se lo aspettava proprio. E lo colpì così, a tradimento. In realtà non se lo aspettava nessuno, neanch'io, che svenni crollando rovinosamente a terra. Quel palo di Baggio   mieté più vittime della "Guerra dei Mondi" di Orson Welles. Dodici morti per infarto (tra i quali mio padre) e sei ictus celebrali.Sono passate centonovantacinque partite, centonovantacinque repliche della rappresentazione teatrale "A reti inviolate". Più di vent'anni. Una laurea, un lavoro da impiegato al Ministero delle Poste, un matrimonio, due figli, una separazione ed una riconciliazione.Centonovantacinque partite seguite con assiduità certosina, tutte regolarmente registrate sul vecchio videoregistratore di papà. Anche la numero centododici, che consegnai diligentemente alla Procura di Taranto, denunciando un fallo di mano in piena area di rigore da parte di un red. La mia denuncia sfiorò l'incidente diplomatico e la magistratura fu costretta ad insabbiare tutto. Il Presidente del Consiglio Prodi fece formalmente le scuse al Premier inglese Blair e tutto venne messo a tacere.Il soffritto è pronto in cucina. L'acqua sul fuoco. Siedo sulla poltrona con le mie sigarette a portata di mano. Mia moglie si arrabbierà per la puzza di fumo. Mi ha chiesto non so quante volte di smettere. Ma io non le do più retta. Voler smettere di fumare procura  una sensazione sgradevole. Stai lì, a guardare quel pacchetto così duro, così spigoloso. Mi vengono in mente un fiume di cose, di idee, di dubbi. Forse nessun problema come quello della dipendenza dalla sigaretta ti porta ad una tale introspezione spirituale. È come essere invasati dall'oppio. Guardi il problema come il fulcro dei tuoi problemi e non solo. Ma, di contro, come la base della tua esistenza. Il fumatore incallito percepisce la propria esistenza come l'intervallo interminabile tra una sigaretta e la successiva.Non chiederti perché fumi. Zeno commise lo stesso errore. Continuò a fumare nell'angoscia, nella coscienza del proprio fallimento. Fumare è un piacere, e questo è innegabile. La vita ti offre pochi piaceri: il vino, la lettura, l'amore e la sigaretta. Ognuno disponga poi questi nell'ordine di importanza che crede. Vivrò cinquant'anni? No. Io avrò vissuto cinquant'anni piacevoli, anche grazie alla sigaretta. La sigaretta ti rasserena, ti rilassa, ti tiene compagnia. La sigaretta fa digerire i pasti e le delusioni d'amore. No, non è la nicotina che mi lega. Il vizio della sigaretta è qualcosa di più complesso della tossicomania. Fumare è un rito, un rito religioso. Non potrei negarmi la sigaretta come un sacerdote non potrebbe negarsi la messa. Ogni singolo atto è compiuto con uno zelo compiaciuto, paragonabile solo a quello che proviamo quando spogliamo una donna. Tirare fuori il pacchetto ed aprirlo...sembra quasi di slacciare un reggiseno! Estrarre la sigaretta e sentirla compatta fra le mani...stringila fra le labbra e ritorni bambino. Quasi la ricerca di un affetto che non osiamo più cercare.Accenderla, poi, è come avviare il motore di una magnifica auto: con l'accendino fai scattare una fiammella, regolare, senza pretese. L'avvicini e ...ahh... la prima boccata è sempre la migliore. Il sesso non sarebbe lo stesso senza sigaretta. Le boccate successive sono un vero e proprio amplesso: senti la sigaretta riscaldarsi fra le dita e diventare impercettibilmente più morbida, quasi si stesse abbandonando al piacere lussurioso di essere aspirata...Quando stai per finirla, ti chiedi perché non le fabbrichino più lunghe. Gettarla forse non mi piace. È come perdere una parte di se stessi.Non posso smettere di fumare. È come chiedere ad un bambino di smettere di piangere. Proprio non si può.La partita è ormai al termine. La videocassetta è quasi terminata. Spero basti a contenere tutto. Quella stronza di mia moglie ci ha registrato Rambo 6 e mi ha lasciato meno della metà del nastro per la Finale.Diego Armando jr Maradona sta dando spettacolo. Non ha l'estro del padre ma è di gran lunga più veloce. Peccato che militi tra le casacche rosse del Liverpool. Dribbling, colpi di tacco, progressioni anomale ed il calore napoletano nei gesti e nel linguaggio. È il giocatore più punito del campionato inglese, oltre ad esserne il capocannoniere. Due palloni d'oro e duecentoventi goal in duecento ottanta partite.Sento il bofonchiare dell'acqua in cucina. Mi sollevo dalla poltrona un po' nervoso. Non so che mi prende oggi. Avverto un malessere diffuso, ma non so spiegarne il motivo. Dove diavolo sono le presine...ora che Carla torna dal torneo di burraco mi sente.Gli spaghetti li amo al dente. Dal salone sento la televisione che gracchia, fa un rumore strano. Ad un tratto il silenzio. Che diavolo è? Ti prego, fa che non si sia rotta. Non ora. La registrazione se ne va a puttane, così. Mollo tutto lì. La Finale è più importante. Ma non si è rotta...è lo stadio che è ammutolito. Lo speaker tace. Che cazzo succede? I giocatori sono fermi in mezzo al campo. Paralizzati. Tutto tace. Non si capisce cosa succeda. Il cameraman fa una rapida panoramica sugli spalti. La gente ha gli occhi fissi davanti a se. Qualcuno si porta la mano alla bocca. Minuti interminabili a fissare il campo. Alzo il volume della televisione e sento un leggero brusio, ma crescente. Cresce, cresce sempre di più. La gente sugli spalti si alza, lentamente. Una sciarpa rossa, con la scritta REDS, comincia a sventolare. Qualche bocca mormora la parola mai pronunciata. Non ci credono ancora. Non ne hanno ancora il coraggio. Poi all'improvviso, in un attimo. Quando meno te lo aspetti. La tifoseria inglese esplode: GOOAALL!!!Il cameraman inquadra la nostra porta. Il pallone giace alle spalle del portiere bianconero. Goal? Come è possibile? No, non ci credo, non può essere, non era previsto. E invece si. Tutto si muove, tutto si sveglia all'improvviso. I giocatori inglesi alzano le braccia increduli.Diego...Diego...è lui. Miracolo. Lo ha fatto. Ha violato il sacramento. Goal. Ha segnato. La chiesa è violata. La vergine stuprata. Hanno vinto. Noi abbiamo perso. PERSO. Dopo venticinque anni. Abbiamo perso. La mia vita è qui. L'acqua bolle. Apro una confezione di spaghetti di Gragnano. Poi una seconda. E una terza. Una quarta. Immergo lentamente i due kili di pasta nell'acqua in bollore. I dieci minuti corrono sull'orologio  da muro. Scolo, manteco, salto e impiatto nell'insalatiera.  Lentamente.  Mi siedo. Impugno la forchetta come un pugnale da harakiri. Le lacrime mi cascano nel piatto abbondanti, come condimento supplementare. Saranno solo un po' più salati. Inforco il primo boccone. Chissà quanti ne servono per sfondarsi lo stomaco. Due chili dovrebbero bastare ad ammazzarsi. Andiamo.