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DUE SOLDI…

Post n°5 pubblicato il 22 Febbraio 2012 da giuseppelatanza

Più o meno la fine del secolo scorso. Le chiappe al caldo del broccato che rivestiva il trono d'Italia eran dell'Umberto, di quell'Umberto, quello Buono, mandante di una strage che se stavamo in Francia le chiappe dal trono gliele scollavano col piede di porco in un attimo, quello che fece sparare dal generalissimo Bava Beccaris sulla folla affamata che a Milano reclamava del pane, ottanta straccioni abbattuti come tordi perché il calore delle chiappe lo si paga con le brioches e con la farina un tanto al chilo. Quell'Umberto che adesso è solo un nome sul marmo della via principale di ogni città, corso Umberto, Viale Umberto, come a ricordare che non ci possiamo far nulla, era il re, e siamo tenuti al rispetto.  Se fossi il sindaco le farei diventare tutte Via Gaetano Bresci, quello sì uno in gamba.

Ad ogni modo, Taranto non era mica brutta all'epoca. Certo, magari povera per la gran parte, ma vista dalla fine del XX secolo pare molto bella, colle case bianche e i vicoli stretti e la gente per strada a tirar la chiacchiera e a mescere vino diluito che veniva dall'entroterra secco e ventoso. Quella sera di maggio un vento caldo gonfiava i panni stesi ad asciugare sui balconcini e le vele delle paranze ormeggiate al porto, paranze liquamose di scolatura di pesce e raggrinzite dalla brezza salmastra del Mar Piccolo.

In una stanza, interna e fresca di una bilocale di via Cava,  Carmela ansimava sotto i colpi morbidi delle anche muscolose di Egidio, giovane manovale, di bell'aspetto, che ai giorni nostri avrebbe fatto la pubblicità e che allora si limitava a sbriciolare cuori di adultere .

Damiano, era il marito, un ometto tutto educato, devoto della mignotta di cui sopra, e umilissimo impiegato della regia cooperativa di pescatori. A tener i conti del pesce pescato era l'unico capace di tutta la cooperativa, ed era il motivo per cui lo tenevano lì, in una stanzetta a far di conto col pennino e non sulla paranza a spaccarsi le mani colle reti e i cestoni di vimini. Il padre di Damiano era un marinaio che aveva imparato a leggere sulle navi a Genova, grazie a un capitano inglese che detestava gli italiani che non sapevano leggere.

Successe che Damiano un giorno, nel suo ufficietto non aveva da scriver nulla, che la paranza della cooperativa era ferma agli ormeggi per ridipingerla e i pescatori a tribolare sulle paranze altrui, a portar il pane a casa. Damiano la paga ce l'aveva anche se la paranza stava ferma, erano gli accordi presi coi pescatori fin dall'inizio. Damiano pensò di tornare a casa, quella mattina, e i telefoni non esistevano mica, altrimenti tutto quello che successe dopo non starei qui a raccontarlo. La strada da fare non era tanta, da piazza dell'Orologio alla punta di via Cava, vicino al ponte girevole, non saranno neanche due chilometri. Damiano se la prese comoda, e in via Cava, presa dall'inizio, era tutta un tramestio di pentoloni, di fumi di frittura di paranza, di sbatacchi di tappeti e scrocchi di ceste intrecciate. Un ragazzetto di nome Giuseppe, che pareva uscito dalle mani di un falegname tant'era secco, sbirciò fuori dalla salumeria dove lavorava e vide Damiano che sfiorava la larghe foglie di una pianta d'arredo del negozio di fronte, quello di Savino Fanigliulo, e che se stava tornando a casa sua forse le cose per suo fratello Egidio si mettevano male.

-          Maestro? - fa Giuseppe a mastro Saracino, il salumiere.

-          Che vuoi, Pino?

-          Devo andare a casa che mi sono scordato...mi sono scordato...

-          Che ti sei scordato?

Giuseppe si guardò i piedi nudi e neri e sbottò:

-          Le scarpe! Mi sono scordato le scarpe a casa.

-          Ma se le scarpe non ce le hai mai avute?

-          Non è vero, è che non le metto perché si sporcano dentro qua.

-          E tu qua dentro devi stare...

-          Sì, ma devo andare a casa, a nasconderle, se no se le mette mio fratello per andare a camminare in giro.

Giuseppe si affacciò e vide che Damiano era andato avanti spedito e che non mancava molto che arrivasse a casa e trovasse suo fratello Egidio lì dove non doveva stare. A dirla tutta Giuseppe non doveva saperne niente di quello che Egidio andava a fare in giro, ma sapeva che Egidio gli piacevano le femmine, e soprattutto quelle sposate, e che già una volta le aveva prese da Michele Pignatelli, quello che porta il latte alla gente per bene di Taranto. Michele aveva trovato Egidio nel portone di casa sua, proprio un secondo dopo che era uscito da casa sua. Pensò che Egidio aveva fatto le moine colla moglie e senza neanche chiedere aveva inseguito Egidio per tutta via di Mezzo e poi l'aveva preso a sassate.

Giuseppe scappò fuori ma a fermare Damiano non ci riuscì mica. Lo vide entrare nel portone quando mancava uno sbaffo ad acciuffarlo, ma si fermò sull'uscio, perché anche se lo fermava non avrebbe saputo che castroneria inventarsi per fermarlo. E così successe tutto.

Melina a letto col marito faceva la maria vergine immacolata, colla veste candida fino ai piedi e un taglio di forbice all'altezza della gnocca, si trombava una volta a settimana, di sabato sera, con Damiano che ansimava per due minuti fino al botto e Melina che guardava il soffitto che pareva Bernadette colla madonna, che certe volte Damiano pensava che la moglie avesse le visioni davvero. Figli non ne avevano ancora, e la gente già diceva che Damiano non era mica buono a far figli e che Melina stava sempre in ginocchio davanti alla statua di Santa Rita a chiedere la grazia e che la grazia non arrivava mica. Era forse per questo che Melina apriva la porta ad Egidio? Ma Egidio lo sapeva e al momento opportuno ingranava la retromarcia.

A letto con Egidio Melina era un'altra cosa. Era capace di tenerselo in bocca per due ore di fila. Ed era proprio quello che stava facendo ad Egidio quando Damiano comparve sulla porta.

Uno si immagina che succede il finimondo. Egidio lo sapeva che prima o poi succede. Che il marito ti entra in casa che ha avuto la soffiata. Che ti piomba addosso colla roncola del nonno. E che ti separa la testa dal collo. O almeno ci prova. Ad Egidio era già successo. E mica una volta sola. Ma certe volte nella vita succedono le cose che non ti aspetti.

Damiano si fermò sulla porta. Melina non si accorse di nulla e continuò a pompare rumorosamente. Egidio era impietrito. Non riuscì a dire nulla. Prese la testa di Melina dai capelli e la sollevò. Si sentì lo stappo, come quello dello spumante a natale.

Sapere che tua moglie ti ha manufatto un bel paio di corna lucide  e lunghe è un conto. Vederla mentre si adopera per favorire l'orgasmo a colpi di cervice ad un altro uomo è tutt'altra cosa. Che cosa volete che accada in certi frangenti? Pare che uno sia pure giustificato quantomeno a irritarsi. Ma a volte succede che il cervello corre più del cuore. O della pancia. E la cosa si fa divertente.

Damiano era serafico sulla porta, appoggiato allo stipite con la spalla sinistra e con le braccia conserte. Era serio ma non arrabbiato.

Melina era bianca come un sudario, come se avesse perso di botto tutto il sangue. Era seduta sul letto colle mani sulla bocca e guardava nel vuoto.

Egidio era immobile, in piedi. Tremava in modo impercettibile. Osservava con la coda dell'occhio la finestra chiusa. Poteva sfondarla lanciandosi fuori.

-           Vestiti e va via.

Damiano parlò bonariamente, come un padre comprensivo parla al proprio figlio. Fu proprio questa la sensazione che Egidio provò mentre si infilava i calzoni. Questo mi manda via, non mi farà niente perché è buono, forse più stupido che buono, ma meglio così, meglio non fare storie e filare via prima che ci ripensi, prima che cambi idea e mi scanni come un vitello. Ora Damiano è con le mani affondate nelle tasche e le spalle poggiate al muro. Attende. Egidio fai in fretta, dice a se stesso il giovane manovale, prima che ci ripensi. La porta è li a tre metri e Egidio si avvia frettolosamente, ma senza fuggire. Non voglio dargli l'impressione di scappare. Apro la porta. La maniglia sembra congelata nonostante la calura mi faccia ansimare.

-          Aspetta.

Egidio sentì gelarsi le vene del collo. Ecco, ora mi ammazza

-          Dammi due monete.

Egidio rimase di sasso a quella stramba richiesta. Guardò Melina. Ma Melina era voltata e guardava il muro di fronte a se. Guardò Damiano. Sorrideva bonariamente, come se gli avesse posto la richiesta più naturale del mondo. Poi, lentamente, cacciò le mani nella tasca del calzone e trasse fuori tre monete da un soldo e le porse a Damiano.

-          Due. Voglio solo due soldi. Non uno di più.

Egidio prese con due dita della mano sinistra un soldo dal palmo della mano destra a allungò il braccio verso Damiano.

-          Grazie.

Damiano prese con naturalezza i due sodi e lo congedò con una pacca sulle spalle. Ciao. Poi chiese la porta. Melina non alzò lo sguardo. Non era pentita. Aveva troppa paura per avere spazio per una sensazione che non fosse Terrore. Damiano si levò la giacca, riponendola sullo schienale della sedia. Mise in tasca i due soldi e sorrise.

-          Cosa si mangia stasera, cara?

Solo allora Melina si voltò a guardarlo. Sorrideva ancora,come se nulla fosse accaduto. Inghiottì la saliva.

-          Allora? Cosa si mangia?

-          Minestra. - rispose con voce rotta Melina.

Questo folle comportamento del marito la terrorizzava. Avrebbe preferito che avesse impugnato la cinghia di cuoio e l'avesse rincorsa per i vicoli del borgo. Ma quella calma no, proprio non riusciva a sopportarla. Dio, ti prego, fa che mi ammazzi subito. No, forse no. Forse è meglio assecondarlo. Si forse è meglio assecondarlo. Damiano era seduto al tavolo della piccola cucina e tambureggiava impaziente sul legno con i polpastrelli. Melina dispose i due piatti sul tavolo, come aveva fatto ogni giorno dei loro vent'anni di matrimonio. Il profumo della minestra aveva colmato la stanza. Quando tornò al tavolo con il pentolone fumante Damiano le sorrise. Melina resisti, vedrai che prima o poi quest'incubo finirà, vedrai che prima o poi esplode. Rovescerà il tavolo e la minestra, mi picchierà, mi butterà per strada mezza morta. Ma almeno la pianterà di sorridere. Melina impugnò il mestolo, lo affondò nella minestra fumante e ne versò un'abbondante porzione nel piatto del marito. Poi riaffondò una seconda volta il mestolo per servirsi e ting! ting! Damiano pose le due monete nel piatto della moglie. Melina scappò via in lacrime, cercando rifugio nella camera da letto, ad affondare la testa nel cuscino ed implorare Morfeo di spegnere, almeno per quella sera, la sua cupa disperazione. Il sole era già alto quando Melina, con gli occhi gonfi di lacrime e una dolorosa fitta alle tempie, si svegliò. Damiano era già andato via. Ora non le restava che far finta di niente e riprendere la sua vita normale, le sue abitudini. Quella mattina però evitò di andare a far la spesa al mercato, per evitare che gli sguardi della gente, che certamente conosceva ormai la storia, la inchiodassero alla gogna della sua nuova reputazione. Certamente Egidio avrà fatto la sua parte, avrà spiattellato tutto agli amici, ridendo attorno ad una bottiglia di vino all'osteria. Certamente ora Melina non è più semplicemente Melina, la moglie di Damiano, ma sarà divenuta Melina la zoccola, moglie di Damiano il cornuto. La gente del borgo viveva di questo. La gente del borgo non aspettava altro. L'avevano saputo? Beh, che se la tenessero pure. Che si divertissero pure, quelle quattro comari. Tanto, almeno per oggi, non mi vedranno.
All'ora di pranzo la chiave girò nella toppa. Damiano entrò, sorridendo.

-          Ciao, cara.

Melina esitò. Poi, per darsi un contegno, ricambiò il saluto. Damiano si sedette al tavolo e le sorrise. Melina rispose mordendosi le labbra.

-          Allora, si mangia? Sento un buonissimo odore. Sono rape...

Melina accennò un sì col capo. Poi apparecchiò la tavola nuda con due piatti, due bicchieri e due cucchiai di stagno. Portò il pentolone di rape al tavolo. L'effluvio dello stufato le risvegliò lo stomaco. Era a digiuno da molte ore e si sentiva debole. Riempì il piatto di Damiano e mentre riaffondava il mestolo...ting! ting! Damiano fece scivolare i due soldi sul piatto. Melina rimase paralizzata. Non sapeva se scoppiare in lacrime e correre in camera da letto o infuriarsi. Decise di sedersi al tavolo comunque. Anche quel giorno non avrebbe mangiato.
Damiano stava giocando come il gatto col topo. Ma quanto tempo sarebbe durato questo gioco
crudele? Melina chiedeva a se stessa e a Dio quando sarebbe stata riammessa al desco familiare, quando il marito le avrebbe concesso di mangiare. Le forze cominciavano a venir meno.
Purtroppo Melina fu costretta a sentir tintinnare quelle due maledette monete nel proprio piatto anche i giorni successivi. Quell'apparentemente innocuo giochetto con le monete, quell'apparentemente piccola ritorsione si stava rivelando un crimine efferato e lucidamente calcolato. Fino a che punto poi il marito avrebbe portato questo orrendo gioco Melina lo capì dieci giorni dopo, quando, stremata, crollò nella piazza del mercato. La gente accorse per rianimarla. Ma Melina non rispondeva più. Melina non avrebbe risposto più. Il funerale si tenne a San Domenico. La chiesa era ricolma di gente che era venuta a celebrare non la morte di Melina, ma l'onore salvato di Damiano. Per loro, Dio gli avrebbe sottratto la consorte per sottrarre lui al disonore. Loro non sapevano. Ma Damiano non guardava loro. Guardava la bara della moglie. Sorrideva. Ad un certo punto della funzione religiosa, Damiano si alzò e sotto gli occhi di tutti si avvicinò alla cassetta delle offerte. Si cacciò la mano nella tasca dei calzoni, tirò fuori due soldi e li fece scivolare nella fessura delle offerte...ting! ting! La salma di Melina sembrò sussultare al suono delle due monete.
Ma fu solo un'impressione.

 

 

 

 

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Commenti al Post:
diletta.castelli
diletta.castelli il 11/10/16 alle 16:16 via WEB
Ho letto molto volentieri questo post. Complimenti da <http://kepago.it/creme-antirughe/37522-crema-alla-bava-di-lumaca-per-il-viso.html">kepago
 
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