Funambola

Qualcosa di me


Il tizio a cui ho stretto la mano oggi, non deve avermi dato una mano vera da stringere. Era un qualcosa di più vicino ad un guanto di gomma, molle e inerme. E mentre mi tuffavo, in avanti quasi, con la mia stretta che voleva essere energica, forte - la mia stretta di sempre - mi sono sentita come un naufrago a cui avessero mollato un salvagente sgonfio. Per un attimo mi sono sentita appesa al nulla, temevo quasi di perdere l’equilibrio. E mi è venuta in mente quella volta, in chiesa – avevo undici anni, più o meno – al momento dello scambio del ‘segno di pace’, quando ho stretto la mano ad un ragazzino nel banco dietro al mio. “Decisa, eh” fu il suo commento sussurrato, tra i nostri “Pace a te”.Mio padre, quando ero piccola, non era capace di fare il padre. Era sempre troppo preso dai suoi impegni di banca, i suoi amici, i suoi libri. Lo ricordo costantemente immerso nella lettura. Da bambina ero un essere insicuro e timido, silenzioso. Odiavo essere al centro dell’attenzione; quando andavamo a casa di altri facevo sempre in modo di confondermi tra le sedie, mi appiccicavo alle pareti della stanza, nell’ingenua speranza di mimetizzarmi più facilmente. Ma morivo dalla voglia di avere un briciolo delle attenzioni di mio padre. Un pomeriggio di fine settembre avevo deciso di far bella figura con lui. Avevo preso il libro d’inglese di mia sorella – di lì a pochi giorni avrei iniziato le medie – ed imparato a recitare a memoria l’alfabeto e a contare fino a one hundred. Un intero pomeriggio da autodidatta. Non vedevo l’ora che lui arrivasse, per fargli vedere com’ero stata brava. Ero fiera di me. Quando lui arrivò, aspettai pazientemente che si cambiasse le scarpe e venisse in soggiorno. “Papà, ho imparato tutto l’alfabeto inglese da sola e so pure contare! Guarda: ei, bi, si, di…” Mi fermò con una mano sulla testa – forse voleva essere anche una carezza – “Non ora, topolino, più tardi”. Non ha mai saputo come ero stata brava a fare tutto da sola. Non era mai il momento giusto. Poi andai alle medie ed allora fu tutto scontato.Crescendo, ho visto mio padre trasformarsi. Non nel padre che desideravo, ma in un qualcosa di diverso. Forse più vicino ad un fratello o uno zio. Figlio unico, era abituato ad avere le attenzioni familiari concentrate su di sé. Ma, una volta cresciuti, gli dev’essere stato più facile trovare con noi figli un canale di comunicazione più diretto, meno a frangisole. Non con tutti e tre allo stesso modo, ovviamente. Ma immagino che in un certo senso dovesse sentirsi sollevato della nostra accresciuta autonomia. La nuova dimensione del rapporto cambiato, almeno nei miei confronti, mi si mostrò in tutta la sua evidenza quando lasciai il mio primo ragazzo. A quell’epoca ero iscritta al secondo anno di università. Di passaggio per motivi di lavoro, si fermò a trovare me e mia sorella. Mi trovò distesa sul letto, in lacrime. Non mi chiese nulla, né mi disse nulla. Mi invitò semplicemente a fare due passi. Mi comprò anche un paio di scarpe nuove. Al momento di partire, mi diede un bacio sulla fronte e mi disse qualcosa che non avrei più dimenticato. Che i migliori matrimoni sono quelli che non si fanno per forza.Oggi mio padre è una persona completamente diversa dall’uomo che ho vissuto da bambina. Un inguaribile ottimista che di primo mattino fischietta arie della Boheme o della Traviata. Che accudisce nostra madre – sua moglie - con un amore che non aveva mai mostrato così apertamente. Che prima che io esca per andare al lavoro mi chiede sempre cosa voglio trovare per cena e quando torno mi chiede se è andato tutto bene e se io sto bene. L’uomo che non ha mai mosso un dito in casa in vita sua, ora lava i piatti, cucina, mi stira i pantaloni. Va a fare la spesa e mi compra quella pizza al taglio che mi piace tanto. Ed è ancora quell’uomo che ad ogni mia delusione sentimentale mi ha incoraggiata a non mollare. A credere che, prima o poi, l’amore – quello vero - arriva. Un uomo dalla stretta di mano energica e forte. Decisa.