Funambola

Sotto pelle


Avevo ventitrè anni, quando lo conobbi. Ufficiale dell’Aeronautica militare, alto e ombroso, era straordinariamente bello. Per la prima e unica volta nella mia vita, mi innamorai perdutamente. Anche se lo sentivo diverso da me: eravamo come due estremi che una strana alchimia unisce e allontana. Mi innamorai, così, semplicemente. Della sua insicurezza che sfociava troppo spesso in una gelosia cupa e dolorosa; dei suoi silenzi che parlavano della solitudine di un ospedale in una terra che non gli apparteneva, di un rapporto difficile con un padre autoritario ed esigente.Con il tempo avevo imparato a gestire anche la sua gelosia, che mi costringeva a rimanere in casa nelle ore più improbabili aspettando una sua telefonata dall'aeroporto; a rinunciare agli amici e persino alla danza. Conoscevo i suoi segreti, sapevo cosa si nascondeva dietro quell’alienante insicurezza. Ma avevo imparato ad amarlo, ritagliando la mia vita a pezzettini sempre più piccoli, finché di essa non rimase più nulla.Poi arrivò quella telefonata. Secca, brutale. Cattiva.Inaspettata.Non ti amo più. Ho un’altra. Da tempo.Mi hanno raccontato che mi trovarono svenuta per terra, con ancora la cornetta del telefono in mano. Dall’altra parte, solo un ‘tu-tu, tu-tu’ insistente. Io non ricordo nulla di quello che successe, fino a quando riaprii gli occhi e mi ritrovai nel mio letto. Ricordo solo gli sguardi preoccupati di mio cognato e di mia sorella, delle mie amiche. Non lo sapevo ancora, ma quel giorno una parte di me si era ammalata per sempre.Poi mi ammalai sul serio: due mesi a letto con la febbre alta e le mie amiche che si alternavano per tentare di sbollentarmi con impacchi di acqua fredda e alcol sulla pelle. Nei due anni successivi non diedi più esami; dormivo e mangiavo pochissimo, ma fumavo come una scannata, come se le sigarette potessero mantenermi agganciata alla vita di tutti i giorni. C’è una mia foto di quel periodo che non riesco ancora oggi a guardare senza rabbrividire, ma non ho il coraggio di buttarla via. Magra da far paura, uno scarno fagiolino verde infilzato nella forchetta e una sigaretta tra le dita.Poi le mie amiche cominciarono a sposarsi, una dopo l’altra: quell’anno dissero il loro sì in cinque. Aprire la busta color avorio dell’invito era una sofferenza. Ogni volta inventavo una scusa per non esserci. Febbroni, esami improrogabili, una caviglia slogata. Qualcuna ha capito, qualcun’altra mi ha perdonata dopo tempo.Quando mi si avvicinava qualcuno per cui provavo attrazione, scappavo. Come quel pomeriggio in un negozio di scarpe, quando entrò un ragazzo alto e biondo che gli somigliava tantissimo: fuggii all’improvviso, senza una parola, lasciando la commessa impietrita. Era una cosa istintiva, come un cane da corsa che comincia a correre appena vede il coniglio finto. Mi faceva impressione questa cosa, questo malessere che si insinuava anche negli strati normali della mia vita quotidiana. Non scemava mai; neanche quando, qualche tempo dopo la fine di quella storia, mi legai ad un’altra persona. Forse era troppo presto, non so. Ma segnai il destino di quest’uomo, e di quelli che vennero dopo, come lui, l’ufficiale, ha segnato la mia. Da allora sono sempre in fuga. Non riesco a lasciare a nessuno il tempo necessario per fermarsi abbastanza a lungo sotto pelle.Non so perché ho raccontato questa storia. Forse perché spero che la paura dell’abbandono si sia risolta per sempre. Però è vero che scrivere è un gesto quasi catartico: rileggere queste righe, che ho tracciato per la prima volta, dà un leggero senso di liberazione. È come se questa storia non mi appartenga. Non più.There you'll be