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« SCRIVERE SOPRAVVIVEREESSERI DEL BUIO »

UNA BASTARDA DI RAZZA

Post n°3 pubblicato il 14 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl

 

Ben era single, viveva da solo e abitava ormai da 15 anni nel quartiere. Era domenica. La caffettiera elettrica borbottava.Il giornale era nella buca delle lettere e aspettava solo di essere prelevato e letto. Ben aprì la porta di casa. Il verde dei prati gli diede il buongiorno.

Pestò la merda nel momento stesso in cui posò la pantofola, giù dal terzo scalino che portava al vialetto. Avvertì il contatto morbido sotto la scarpa foderata di costoso camoscio. Qualcuno diceva che portava fortuna ma lo diceva chi la pestava e probabilmente solo per consolarsi. Dal fondo della pancia la rabbia si fece spazio salendo su su su verso i polmoni, fino alla cassa toracica. Gli irrigidì la gola. La  bocca gli si serrò in una smorfia tipo paresi facciale. E gli occhi presero la forma di due palline da golf.

“Maledetto cagnaccio,  che il dio dei canidi ti fulmini ovunque ti trovi, che Hanubi il dio sciacallo ti prenda con sé trascinandoti nell’Ade e che il fuoco sacro dell’inferno ti bruci quel maledetto buco del culo”. Era un erudito Ben. In quella casa scriveva, studiava, ascoltava la sua musica. Non gradiva le intrusioni e voleva solo essere lasciato in pace. Le incursioni della bestia gli risultavano insopportabili, odiava il maledetto, bastardo, infido, cane dei vicini di casa. Anzi la cagna.  La setter irlandese femmina di 2 anni, con un pedigree di un chilometro che aveva scelto il suo giardino  per vomitare, defecare, strappare piante, mangiare tappetini.Ben fece per rientrare in casa invocando il nome  di una serie di santi.Inciampò nello scalino stramazzando con un tonfo sonoro a pelle d’orso sulla veranda e la porta gli si chiuse davanti alla faccia. L’urlo di rabbia che emise venne scambiato dal vicinato per un guaito.“Zitta bestiaccia !” strillò l’ingegnere che viveva nel villino di fronte. In soffitta c’era un vecchio fucile da pesca subacquea di tipo Arbalete ad elastico, polinesiano e  micidiale. Ben, sdraiato per terra e chiuso fuori di casa, immaginò di sparare con quello prima all’ingegnere, più facile da cogliere seduto com’era sotto il porticato all’ingresso, poi subito dopo alla maledetta cagna. La bestia avrebbe richiesto una caccia più impegnativa perché sicuramente in quel momento se ne stava intanata da qualche parte a godersi lo spettacolo. Bastarda ! Poi gli venne in mente che la porta sul retro era aperta. Attraversò il giardino saltellando su un piede per non finire di sporcare la veranda, mentre il cane nascosto lo stava osservando. In quell’angolo buio di vegetazione solo un occhio attento e molto allenato avrebbe potuto individuare l’animale. Difficile dire cosa potesse passare nella sua mente. Ma se qualcuno avesse potuto osservare la scena avrebbe detto con sicurezza che il setter rosso guardava l’uomo con uno strano ghigno sul muso. Intanto Ben furibondo era  riuscito a raggiungere la porta del retro. Lasciata con un’imprecazione blasfema la pantofola imbrattata sullo stuoino, entrò in casa.

Due ore dopo il suo umore era leggermente migliorato. Rasato, rilassato da una doccia calda e da un’abbondante colazione, indossava un pantalone sportivo morbido, una camicia cachi e un maglione. Sedette alla scrivania davanti al computer in sottofondo la musica, un cd dei Doors. Lavorò per un paio d’ore. L’orologio a parete bianco e nero modello stazione ferroviaria segnava le tre del pomeriggio quando decise di fare due passi e uno spuntino alla tavola calda. Mise il pc in standby spense lo stereo e indossato un giubbotto sportivo blu scuro uscì. La merda era sul tappetino. Sembrava appena fatta. Era di dimensioni notevoli e allungata come un siluro. Gli occhi di Ben si gonfiarono assumendo un profilo rotondo, come due palline da ping pong.

“Stronza malefica, infame bastarda” urlò a squarciagola.

“La smetta di trattar male le signore – lo apostrofò con voce isterica la moglie dell’ingegnere dal villino di fronte credendo di essere la testimone di un alterco tra innamorati – e non urli così stronzo maschilista”. In quel momento Ben perse il controllo. Saltò a piè pari la cacca e si diresse verso il casotto degli attrezzi. C’era una pistola sparachiodi. L’aveva acquistata per sistemare lo steccato. Avrebbe sistemato con quella anche la dirimpettaia, il marito ingegnere e il maledetto cane. Poi però vide la vanga. Quella dal manico lungo, rossa, nuova fiammante. Fu come un’illuminazione. Con un ghigno satanico prese l’attrezzo. Raggiunse le feci deposte sul tappetino con su scritto “welcome” e le raccolse. Con la vanga imbracciata e il suo carico avanzò lungo il giardino e si posizionò.

Poi fece fuoco. Come una catapulta Ben lasciò partire alla massima velocità il fagottino marrone. Una parabola a suo modo affascinante portò la merda, con una traiettoria obliqua a sorvolare il giardino per finire dritta dritta dentro la finestra spalancata sulla facciata della casa. La terza del pianterreno per essere precisi. Fu un centro perfetto. Ben si complimentò con se stesso ed esultò come un centravanti dopo un golden goal. Si chiese se la finestra dava sul salotto o direttamente sulla cucina. “Ma in fondo chissenefrega”, si disse saltellando via silenzioso. Poi andò a riporre la vanga nella casetta degli attrezzi e imboccato il vialetto si diresse alla tavola calda. Era quasi buio quando tornò a casa. Il piccolo incidente era accantonato. Le luci della casa dei vicini erano tutte accese. Sentì distintamente la moglie dell’ingegnere che a voce alta parlava di un cane che era entrato in casa e aveva cagato sul tavolo della cucina nel mezzo di quella bella torta di mele che stava preparando. Piangeva. Ben rise a crepapelle dentro di sè.

Il cane nascosto nella siepe lo stava osservando ancora. Questa volta neanche un occhio attento avrebbe potuto individuare l’animale acquattato nell’oscurità. E anche riuscendoci sarebbe stato estremamente difficile dire cosa potesse passare nella sua mente di animale. Ma se qualcuno avesse potuto farlo avrebbe detto con sicurezza che il cane guardava Ben con uno strano ghigno sul muso, e che con una certa fantasia, quel ghigno, si sarebbe potuto scambiare per una muta risata.

 

 

 

 

 
 
 
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