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Post N° 5

Post n°5 pubblicato il 15 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl

Mi sveglio e cerco di realizzare dove mi trovo. "E' camera mia, sono a casa mia, come al solito no ?" E' buio nella stanza. Mi accorgo di essere nudo sotto le lenzuola anzi sotto le coperte perchè le lenzuola le ho ammucchiate intorno ai piedi. "Fa caldo qui, manca l'aria". Ho in bocca un saporaccio. Vorrei dell'acqua fresca ma per fare questo dovrei alzarmi e ancora non ce la faccio. "Prima devo connettere". Me ne sto lì a cercare di vedere un soffitto che non vedo e che non riesco a riconoscere perchè non lo vedo e magari è meglio se gli occhi li tengo in chiusi. Potrei dormire, vorrei dormire ancora un po' prima che suoni la sveglia a rovinare tutto e togliermi da questo stato di limbo in cui galleggio come una merda in acqua.

"Che ho fatto ieri sera ? Boh ?! Il nulla. Mi ricordo l'aperitivo. I bicchieri. Tanti. C'erano donne ? O uomini ? Cazzo con chi ero, che ho fatto ? Non me lo ricordo proprio. Però ho sicuramente bevuto". Probabilmente la solita serata, nel solito locale con la solita gente. E' proprio buio. Buio pesto. Magari è ancora notte fonda e dovrei solo rigirarmi nel letto e rimettermi a dormire. Vorrei muovermi ma non ci riesco, le lenzuola devono essersi intrecciate all'altezza della caviglie perchè non riesco a muovermi. C'è odore di chiuso e anche un po' di muffa, dovrei chiamare la signora del piano di sotto per le pulizie. E' un po' che mi sono lasciato andare. Colpa dell'ufficio, di quel lavoro di merda che non mi lascia un minuto per vivere. No colpa mia che non faccio un cazzo per migliorare la mia vita.

Penso a quando non ero solo a fare il single a quando la mattina mi svegliavo con l'odore di pulito e di caffè e i calzini e le mutande sporche nel cestone della biancheria non strabordavano come un'onda di melma sporca per tutta la casa. Lei mi aveva mollato per un altro e fine della storia ero ripiombato nel caos. Sì il caos quello stato di disordine che si infila negli intertizi della tua esistenza come il silicone sigillandoti in odori e sapori che non vorresti ma ai quali ti abitui in fretta.

"Ecco si la cava ora mi ricordo". Un posto esclusivo, The Cave lo avevo trovato su internet. Volevo provare qualcosa di nuovo. Ora ricordavo quel mastodonte all'ingresso vestito di pelle nera. La parola d'ordine ricevuta via e mail e tutta quella gente così strana. Poi la musica un  buum buum secco come se le casse fossero state innestate direttamente nell'ipotalamo.

Il letto è così grande da solo che posso occuparlo tutto aperto come un Cristo. Non dormo spesso nudo perchè mi eccita. Le lenzuola sulla pelle  mi danno i brividi e me lo fanno venire duro. Meglio dormire.

"Chissà se ho scopato ? Cazzo non mi ricordo " Però c'erano donne bellissime o almeno sembravano tali dopo un paio di martini. Una alta i capelli scuri con gli occhiali da sole a specchio i tacchi alti e una minigonna di pelle. Un tatuaggio sul pancino scoperto e il peircing all'ombelico. Ricordavo le sua labbra carnose e quel seno traboccante dal corpetto in latex. Mmmh questo era eccitante. Magari non era andata così ma io me la ricordavo in questo modo ed era meglio perchè fondamentalmente volevo sognare e perchè tra poco sarebbe suonata la sveglia e sarei tornato alla realtà, alle file in macchina, al parcheggio alle sei ore di nulla dopo aver badgiato.

Sì... mi si era avvicinata al bancone del bar, senza dire una parola mi aveva strofinato le labbra sul collo e avevo sentito il suo respiro caldo nell'orecchio, era profumata un'essenza da farlo rizzare ad un cadavere. Avevo messo il viso in mezzo a quelle bellissime tette ed erano così morbide. Comincio a ricordare. Lei mi aveva preso per mano e l'avevo seguita. Il locale era illuminato a flash dalle luci psichedeliche. Avevamo salito una scala. Al piano superiore in piccoli corridoi semibui altre coppie ma anche uomini da soli. Poi eravamo entrati in una sala più grande. Su un divanetto una bionda imperiale nuda stava sulle ginocchia di un uomo con una mascherina nera tipo Zorro che la sculacciava e lei gemeva forte. Ci fermammo a guardarli un attimo. Ora non ero più eccitato ma solo arrapato. Avrei scopato qualsiasi cosa avrei goduto in qualsiasi modo. Ed era come se il mio cervello fosse disceso sempre più in basso trascinandomi lungo le nervature del mio pene che ora sentivo come se fosse vivo, un cuore che batteva.

C'erano degli uomini che guardavano la scena, uomini di ogni genere. In jeans e maglietta, in giacca e cravatta, giovani e meno giovani. Un'umanità multiforme unita dal desiderio e dai sensi, da quel sogno collettivo e immenso che era la figa. Era come se volessimo tornare tutti nello stesso posto attratti da un'entità aliena. Se avesse voluto divorarci ne avrebbe avuto il potere perchè ne eravamo tutti allo stesso modo inevitabilmente soggiogati.

Il ragno tesse la sua tela lentamente e con grande pazienza. Le zampette nere sono come piccoli aghi che lavorano lavorano lavorano in attesa soltanto di una preda.

Decido di alzarmi. Apro gli occhi ma è come se fossero chiusi vedo solo il buio. Allungo una mano per girarmi ma non ci riesco. E' come se qualcosa me lo impedisse. Il mio polso destro è immobilizzato trattenuto da qualcosa e anche il sinistro. Le lenzuola hanno preso vita e mi hanno imprigionato. Sono legato al letto. Non posso muovermi. Non ci riesco. Tutto questo non ha senso, legato nel letto di casa mia. Al buio. Da solo. Non vivo con nessuno, nessuno mi può aiutare...ora. E allora non mi resta che una cosa da fare e la faccio ora subito prima che sia troppo tardi.

Urlo forte molto forte qualcuno magari mi sentirà dalla scala. Ora sono sveglio. Il cervello è in piena attività smosso dalla paura. Urlo ancora e ancora e ancora. Urlo fino a scoppiare. Finchè sento le tempie battere e gli occhi spingere verso l'esterno quasi volessero uscire con tutto il mio fiato.

Ma nessuno mi sente.

Il tempo quando sei in certe situazioni non passa veramente mai. Ho perso il senso delle ore, dei minuti. Da quanto mi trovo qui non saprei proprio dirlo. Comincio ad avere sete. Sento la gola secca come una foglia e penso che presto si riempirà di rughe e diventerà vecchia e secca. E lentamente morirò di sete prima che di fame e mi ritroveranno qui come si legge ogni tanto sui giornali e il mio corpo magari sarà una cosa putrida e inguardabile. Non vorrei proprio morire. Urlo ancora devo farlo ora che ho ancora le forze per farlo.

La porta si apre all'improvviso. La luce entra violenta e bianca come se dall'altra parte ci fosse un gigantesco neon di luce fredda o una gigantesca fotoelettrica puntata direttamente sulla mia faccia . Chiudo gli occhi per difenderli da quell'esplosione improvvisa che ferisce le retine lasciandole impressionate come dal flash di una gigantesca macchina fotografica. Poi la porta, come si era aperta si richiude e il rumore che fa mi esplode nel cervello cerco di liberarmi tirando forte ma è come se i nodi si stringessero ancora di più facendomi male.

E ripiombo nel buio. Penso che forse ho commesso qualcosa di male. Chi può volere farmi tutto questo ? Chi mi odia a tal punto ? Mi sento sempre più debole. La coperta che mi copriva, o almeno quello che sembrava essere una coperta, è scivolata via. Forse dovrei dormire e sperare di risvegliarmi fuori da tutto questo.

Il ragno una volta catturata la preda la osserva da un angolo della sua ragnatela. La osserva dibattersi disperata perchè sa che morirà e poi sarà inevitabilmente mangiata. Il ragno deve solo stendere la sua trappola e aspettare paziente che il il suo pasto la smetta di dibattersi. Forse quando sarà mangiato ancora vivo il piccolo insetto caduto nella tela ringrazierà inconsapevolmente il suo carnefice per averlo liberato da quell'infinito tormento. 

Mi addormento in un limbo di nulla e mi lascio come galleggiare o meglio cadere nel vuoto. Potrei essere un naufrago nello spazio alla deriva in una navicella se non fosse per questi lacci che mi legano mani e piedi alla mia zattera, l'ultimo superstite di un equipaggio che ancora si sostenta solo con l'aria che respira e con il calore che nonostante sia nudo mi avvolge. Sogno la notte o almeno quella che credoa sia stata la mia ultima notte slacciato da questi legami. La donna che mi accompagnava guardava come ipnotizzata la bionda castigata. Si poggiò al mio inguine con le chiappe dure ed ebbi come l'impressione che volesse qualcosa del genere. Le alzai la minigonna scoprii le cosce e il culo e cominciai a batterla.

Ebbi come l'impressione che un uomo tra gli altri fosse più interessato a noi in quell'angolo che alla coppia che si esibiva al centro della sala. La mia compagna in effetti spingeva il corpo verso di me sobbalzando ad ogni colpo. La castigavo con la mano aperta ripetutamente da dietro mentre con l'altra le accarezzavo i seni ripempiendo le mie mani quasi fossero delle coppe. Nonostante la musica sentii i suoi gemiti. Nel mio sogno confuso ricordo nettamente il suo piacere da cui derivava il mio. Anche l'uomo si era avvicinato e ora ci stava di fronte le spalle rivolte allo show della bionda sculacciata, compresi che eravamo noi due l'oggetto della sua attenzione. Quando ci ritrovammo in tre in una piccola stanza con la chiave non ebbi alcuna sorpresa. C'era un letto e la mia accompagnatrice si stava spogliando in ginocchio al centro del materasso. La luce era bassa ovattata ma tutto era chiaramente distinto, anche l'uomo si stava sfilando qualcosa ma non per spogliarsi. Lo vidi levarsi la cintura di cuoio mentre le si sdraiava carponi sul letto, le gambe leggermente aperte il culo esposto. Ebbe un sobbalzo quando cominciò a colpirla sulle natiche nude.

Mi sveglio o almeno così mi sembra perchè non vedo nulla. Questa stato inedito di vedere il buio con gli occhi aperti mi sta mandando fuori di testa. Non sento nemmeno rumorio a parte il mio respiro. Eppure avverto qualcosa di nuovo una sensazione diversa. Il contatto con qualcosa intorno alla testa all'altezza degli occhi. Mi hanno bendato. Cazzo mi hanno bendato ! Questi bastardi figli di una puttana sudicia mi hanno bendato gli occhi. Allora c'è qualcuno in questo buco di culo in cui sono finito. Mentre dormivo qualcuno deve essere entrato nella stanza per togliermi la vista ora sono al buio anche se un po' di luce fioca filtra debole da sotto  la benda. Avverto del movimento intorno a me. "C'è qualcuno...vi prego vi prego basta. Liberatemi non ce la faccio più. Cosa vi ho fatto di male ? Cosa ?". Ma nessuno risponde. Sento dei passi ed è come se mi girassero intorno per fare non so bene cosa. Perchè lo fanno ? "Guardate che posso pagare o qualcuno pagherà per me...vi prego liberatemi" sento la mia voce querula mentre piagnucolo le parole; sono patetico e so benissimo di esserlo ma vorrei solo che mi liberassero le mani e i piedi, camminare sarebbe bellissimo e rivedere la luce del giorno.

Ora una mano mi sta sfiorando. Tocca il polkso, poi i capezzoli. Cerco di muovermi nel letto poi scatto verso l'alto spingendo il puvbe ed è come se urtassi qualcosa. Mi aspetto un urlo, iuna voce, delle parole ma niente nessuno parla. Eppure ho colpito qualcosa, ho sbattuto contro un corpo. L'ho sentito bene distintamente. "Chi siete ? Lasciatemi andare. Non vi ho fatto nulla di male. Lasciatemi vi prego?".

 
 
 

ESSERI DEL BUIO

Post n°4 pubblicato il 14 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl

Appoggiò la spada sulle spalle e guardò la sua vittima l'ultima di quel giorno spegnersi lentamente. Un giovane guerriero biondo alto ora era morto a suoi piedi. Lo aveva trapassato da parte a parte affondando la spada sotto lo sterno quasi fino all'elsa.

E il gelo del ferro sembrava essersi trasmesso a quegli occhi che lui aveva guardato nell'istante della morte.

Uccidere con le proprie mani è lavoro da allevatori, fatto di lame, di arnesi creati solo per quello scopo; solo chi alleva animali, chi li fa venire al mondo, li cresce e li nutre ha poi la capacità estrema di ucciderli nel modo migliore. Sapendo dove si deve si può colpire implacabili e dare la morte immediata, la migliore. Non avrebbe mai fatto soffrire il suo cane o il suo cavallo, se obbligato avrebbe dato fine all'esistenza di queste creture così vicine al suo cuore con un solo colpo mortale. Allo stesso modo duellando e combattendo poteva uccidere il nemico con un solo affondo deciso o con una rotazione circolare della spada che come una falce poteva recidere lo stelo di una giovane vita. Era un terribile potere quello che dei oscuri e terribili gli avevano dato, un potere tanto micidiale quanto effimero perchè il pararsi davanti del suo destino finale poteva farlo scomparire all'istante insieme alla sua vita.

Si lasciò cadere vicino al suo scudo, era stanco di combattere e di uccidere, la battaglia era vinta. I corvi volteggiavano sul campo in mezzo ai mucchi di cadaveri. Per i feriti e i moribondi il colpo di grazia pietoso di una picca o di una lancia. Ora era solo tempo di sciacalli per l'ultimo scempio su quei corpi straziati dalla sconfitta. L'ultimo sgarbo la spoliazione degli averi e il taglio delle teste che evrebbero ornato l'entrata del tempio e ricordato la vittoria di quel giorno. Bisogna sapere quanto si è ucciso... contare i nemici che non ci disturberanno più e prendere loro le cose e la forza. Perchè in finale è solo ruberia e rapina estrema anche se cammuffata da giusta causa di guerra. La sua spada era ancora calda di guerra e di sangue, avvertì un brivido un mesto e inumano piacere. Quanto aveva ucciso. Anche questa volta. La morte lo aveva sfiorato ancora ma non aveva vinto. Eppure era così stanco. Osservò due guerrieri contendersi le spoglie di un caduto. La ricchezza delle proprie armi non aveva valore una volta uccisi. Il nulla prendeva tutto e i tuoi uccisori si accaparravano quello che di te era rimasto. Nemmeno le tue ragioni sopravvivevano perchè per quanto poteva essere crudele e malvagio chi ti aveva schiacciato di te non lasciava niente altro che un corpo inanimato e le tue ragioni morivano con te. Sul campo dei caduti nessuno avrebbe ricordato la causa che aveva portato a quei lutti e a quella rovina. Solo le madri avrebbero pianto i figli, le vedove i loro uomini e appena smesso il pianto avrebbero ricominciato per loro stesse perchè il destino degli sconfitti era quello ineluttabile dei prigionieri e degli schiavi. I giovani uomini erano morti e quelli che gli erano sopravvissuti perchè avevano vinto erano ormai vecchi guerrieri, la morte vista e data aveva conferito loro una nuova età imprimendo per sempre l'orrore nei loro occhi.

Erano dei sopravvissuti.  

Non restava che provare a rallegrarsene e bere nei teschi dei nemici uccisi .  Vide il guerriero dai capelli rossi avvicinarsi. Portava sulle spalle legato ad una cinghia il pesante scudo ogivale con le rune celesti dipinte. Le streghe dicevano che quelle rune davano l'invincibilità sui nemici ma guardando quell'uomo si aveva la sensazione che bastasse la forza di quel braccio e la sua imponenza a fare a pezzi gli avversari. La barba lunga e i capelli erano ancora intrisi di sangue e di terra. La lunga spada era riposta nel fodero così come il pugnale corto dalla lama triangolare. Solo la pesante ascia era ancora snudata. Era un vero gigante e aveva schiacciato tutti i nemici che lo avevano affrontato. Se un dio della guerra esisteva era certo che aveva impresso in quell'uomo tutta la sua terribile forza. Vedendolo combattere si poteva capire cos'era il furore guerriero, una sorta di estasi mistica dove la morte era un'arte terribile e una religione allo stesso tempo. Chiuse gli occhi per un istante l'unico rumore era il gracchiare dei corvi che iniziavano a banchettare in mezzo ai cadaveri. Il fragore della battaglia era solo un ricordo ora ma ancora poteva sentire il rumore delle armi, le urla dei guerrieri, per un istante rivide gli occhi del suo avversario,  farsi vitrei mentre la lama della sua spada lo trapassava da parte a parte uccidendolo all'istante, Quello era lo sguardo gelido della morte e lui l'aveva guardato fisso. Eppure non era la prima volta che uccideva, in un tempo in cui la pace era strettamente legata alla guerra la morte era cosa di tutti i giorni. Le urla delle donne lo destarono da quel sogno così reale. I suoi compagni avevano scovato delle prigioniere. Voltò lo sguardo in direzione di quelle urla e vide i guerrieri trascinare un gruppetto di ragazze. Una urlava e scalciava. "Presto sarà morta" pensò "la uccideranno per dare un esempio alle altre e farle stare tranquille". Ma contro ogni previsione quella estrasse da sotto le vesti un pugnale e lo affondò nel cuore del guerriero che più le stava vicino. Il più giovane del clan guardò quella lama conficcata fino all'elsa nel suo petto con uno stupore di bambino, era sopravvissuto alla battaglia a guerrieri alti e forti e alle loro armi affilate, per morire così miseramente colpito da un coltello come un qualsiasi animale, a tradimento mentre trascinava una schiava. Portò le mani al pugnale come per strapparselo via insieme alla morte che già incombeva su di lui ma l'unico effetto fu quello di far uscire il sangue dal suo corpo in un getto caldo e denso. Cadde in ginocchio ai piedi della sua assassina guardandola fisso in viso, una fanciulla più giovane di lui che forse in un'altra vita avrebbe potuto essere la sua sposa, ma che in questa invece della verginità e del calore del suo corpo, gli stava dando quel dono estremo e così difficile da accettare, una fine ingloriosa e priva di ogni onore. Per un attimo fu come se quella scena si fosse fermata cristallizzata nella sua drammatica essenzialità. Poi il soldato cadde in avanti morto. La previsione di massacro di pochi istanti prima si fece realtà nella spada dei due uomini che erano più vicino al caduto, senza una sola parola affondarono semplicemnte le loro armi calandole dall'alto come mannaie sul corpo della giovane che con un solo urlo acuto colpita cadde uccisa e dilaniata. Le altre osservavano impietrite, forse tra pochi istanti sarebbe accaduto a loro. Quasi che la morte non volesse più staccarsi da quella terra ormai imbevuta la macabra danza dell'omicidio e della strage continuava quel giorno. "Gli dei non sono ancora sazi" pensò alzandosi gli occhi fissi sul nuovo massacro "vogliono altri tributi". Fu allora che decise di porre fine alla strage e di fermare la morte "per oggi hai mangiato abbastanza". Ma gli dei della guerra e della morte chiedevano altro sangue. Si alzò per raggiungere  gli uomini del clan. L'uccisione del giovane loro congiunto non sembrava essere stata placata dalla sommaria giustizia inferta alla sua assassina. Le tre donne supersisti stavano strette una all'altra come a proteggersi dalla furia dei loro persecutori. Sulla collina una roccia bianca si stagliava contro l'orizzonte e la luce ormai cremisi del tramonto. Gli dei avevano dato una ben cupa atmosfera a quello scorcio di giornata arrossendo come di sangue il cielo. La pietra sembrava risplendere nelle luci del tramonto quasi fosse un sole a parte. E quando le donne vennero portate alla sua base e scannate come animali sacrificali si arrossò di sangue scuro. Le vittime si spensero senza grida quasi sapessero di dover morire. Il guerriero intanto stava correndo verso di loro ma era come se una forza lo trattenesse... non fece in tempo a fermare il massacro e nemmeno ad opporsi. La morte era stata più forte. La morte aveva preso in quella piccola valle tutto quello che aveva potuto prendere come un ladro frettoloso incalzato dal tempo.

Ma una di loro era viva. Nascosta tra i rami della piccola foresta aveva osservato la scena maledicendo quei guerrieri venuti dal nord. Il suo popolo non c'era più, si era estinto in un solo giorno, il suo piccolo clan era stato cancellato. Ai corvi i cadaveri degli uomini, al dio delle pietra il sacrificio delle sue sorelle e cugine che ora giacevano morte sulla collina. Non riusciva a piangere. La furia, un odio che picchiava dal cuore allo stomaco, glielo impediva. Come odiava quei barbari che avevano distrutto il suo piccolo mondo, se avesse potuto li avrebbe schiacciati, uccisi strappando loro la pelle e dal petto il cuore.

Imprecò e maledisse la banda tracciando con le dita invisibili segni nell'aria mentre il sole ormai scompariva in un cielo cremisi. Pregò e pregò, gli occhi iniettati di rosso quello delle lacrime soffocate nel battito di quel giovane cuore. Una litania erompeva dalle labbra serrate come un prodigio una flebile voce fuoriusciva dalla bocca chiusa. La voce erompeva da dentro ed era un sibilo un soffio che si perdeva nei rumori del piccolo bosco. Li guardò accendere un grande fuoco alla base della roccia e ringraziò in cuor suo gli dei neri che adorava. Quegli uomini apparentemente imbattibili avevano finalmente commesso un errore...lo avrebbero pagato.

Una magia antica aleggiava ancora sulla terra. Prima ancora degli albori del mondo esseri antropomorfi vivevano e morivano in base a leggi naturali ormai perdute negli eoni del tempo. Poi erano arrivati gli uomini e l'evoluzione lenta ma inesorabile li aveva portati al predominio su tutto quello che allora li circondava. I loro utensili le loro armi dapprima rozze come le clave o le selci di pietra erano cresciute con loro arrivando a forgiare lame per il lavoro dela terra come le falci e gli aratri e buone per la guerra come le spade e i pugnali. Forti di questa tecnologia rozza ma efficace gli uomini erano cresciuti tanto da non ricordare se non nelle loro superstizioni gli antichi nemici costretti ormai al buio e alle tenebre. I pochi sopravvissuti di quella inumanità appena accennata e inespressa avevano  trovato rifugio sotto la superficie della terra in antri e caverne e il buio era diventato il loro regno. Ancora oggi quando le tenebre calavano sul mondo gli esseri trovavano il coraggio di uscire dalle loro tane e di affrontare coloro che si erano avventurati nell'oscurità o ancora meglio vi si erano perduti. Ormai accecati dalla luce del sole gli esseri non potevano competere nemmeno con un bambino armato di bastone ma in assenza di luce mantenevano la loro micidiale pericolosità, artigli affilati e zanne taglienti capaci di spegnere una vita con discreta facilità. E allora quando un pastore o un contadino sorpreso dal buio fuori dal proprio villaggio scompariva senza lasciare traccia o, più raramente, veniva ritrovato al mattino orrendamente assassinato, si tornava a parlare di loro chiamandoli in molti modi. Le streghe e gli sciamani dei villaggi si tramandavo litanie e scongiuri per tenerli lontani dalle case ma anche tra questi erano veramente pochi quelli che li conoscevano davvero. Era difficilissimo vederli e chi c'era riuscito spesso molto spesso non aveva avuto tanta fortuna da sopravvivere e da poterlo raccontare. E gli esseri delle tenebre vivevano ancora. Gli accessi al loro regno erano perfettamente nascosti mimetizzati nelle campagne e nelle foreste più fitte e solo in rari casi, laddove la memoria degli uomini aveva perpetrato il ricordo di loro qualcuno nei secoli passati aveva lasciato un segno a monito di chi viveva in quelle zone.

La collina era uno di quei luoghi. Su quell'erba una notte ormai perduta nel tempo guerrieri armati di lame di bronzo e di clave avevano affrontato l'orda oscura di quei mostri massacrandoli. I pochi superstiti avevano trovato un estremo rifugio nelle cavità sotterranee della valle il cui accesso principale si apriva proprio sull'altura. E l'accesso era stato chiuso da un massiccio dolmen. Le rune sulla roccia erano incantesimi antichi tracciati per esorcizzare quell'oscuro male. Ma in realtà quello che teneva lontani gli esseri erano la luce del sole, il ferro delle spade degli uomini ma soprattutto il loro stesso isolamento. Per questo gli abitanti della valle si tenevano alla larga dalla collina. Non volevano disturbare i suoi oscuri abitanti con le loro voci e i loro stessi passi attirandoli magari per un ultima volta all'aperto di un mondo che a loro ormai doveva essere precluso per sempre. Una verità sconosciuta ai guerrieri che ora bevevano vino e affilavano le spade alla luce dei fuochi accesi tutti intorno alla roccia sul colle e che ignari stavano per lasciarsi andare al sonno della notte.

Epilogo

Nessuno vide quello che accadde nella notte intorno al tumulo... al mattino due giovani cacciatori che si erano avventurati nella valle trovarono solo quella donna dall'età indefinita i capelli imbiancati terrorizzata e balbettante. Indicava in maniera confusa la piccola collina piangendo e graffiandosi il viso. Quando i cacciatori arrivarono sul posto trovarono le armi sparpagliate sul terreno, i segni di un fuoco di bivacco ancora caldo e un dolmen nero ricoperto di sangue.

"Sappi viandante che fummo valorosi guerrieri

combattemmo nostri pari con coraggio e ardore

ma qui vittime delle nostre stesse più riposte paure

morimmo... tutti".

 
 
 

UNA BASTARDA DI RAZZA

Post n°3 pubblicato il 14 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl

 

Ben era single, viveva da solo e abitava ormai da 15 anni nel quartiere. Era domenica. La caffettiera elettrica borbottava.Il giornale era nella buca delle lettere e aspettava solo di essere prelevato e letto. Ben aprì la porta di casa. Il verde dei prati gli diede il buongiorno.

Pestò la merda nel momento stesso in cui posò la pantofola, giù dal terzo scalino che portava al vialetto. Avvertì il contatto morbido sotto la scarpa foderata di costoso camoscio. Qualcuno diceva che portava fortuna ma lo diceva chi la pestava e probabilmente solo per consolarsi. Dal fondo della pancia la rabbia si fece spazio salendo su su su verso i polmoni, fino alla cassa toracica. Gli irrigidì la gola. La  bocca gli si serrò in una smorfia tipo paresi facciale. E gli occhi presero la forma di due palline da golf.

“Maledetto cagnaccio,  che il dio dei canidi ti fulmini ovunque ti trovi, che Hanubi il dio sciacallo ti prenda con sé trascinandoti nell’Ade e che il fuoco sacro dell’inferno ti bruci quel maledetto buco del culo”. Era un erudito Ben. In quella casa scriveva, studiava, ascoltava la sua musica. Non gradiva le intrusioni e voleva solo essere lasciato in pace. Le incursioni della bestia gli risultavano insopportabili, odiava il maledetto, bastardo, infido, cane dei vicini di casa. Anzi la cagna.  La setter irlandese femmina di 2 anni, con un pedigree di un chilometro che aveva scelto il suo giardino  per vomitare, defecare, strappare piante, mangiare tappetini.Ben fece per rientrare in casa invocando il nome  di una serie di santi.Inciampò nello scalino stramazzando con un tonfo sonoro a pelle d’orso sulla veranda e la porta gli si chiuse davanti alla faccia. L’urlo di rabbia che emise venne scambiato dal vicinato per un guaito.“Zitta bestiaccia !” strillò l’ingegnere che viveva nel villino di fronte. In soffitta c’era un vecchio fucile da pesca subacquea di tipo Arbalete ad elastico, polinesiano e  micidiale. Ben, sdraiato per terra e chiuso fuori di casa, immaginò di sparare con quello prima all’ingegnere, più facile da cogliere seduto com’era sotto il porticato all’ingresso, poi subito dopo alla maledetta cagna. La bestia avrebbe richiesto una caccia più impegnativa perché sicuramente in quel momento se ne stava intanata da qualche parte a godersi lo spettacolo. Bastarda ! Poi gli venne in mente che la porta sul retro era aperta. Attraversò il giardino saltellando su un piede per non finire di sporcare la veranda, mentre il cane nascosto lo stava osservando. In quell’angolo buio di vegetazione solo un occhio attento e molto allenato avrebbe potuto individuare l’animale. Difficile dire cosa potesse passare nella sua mente. Ma se qualcuno avesse potuto osservare la scena avrebbe detto con sicurezza che il setter rosso guardava l’uomo con uno strano ghigno sul muso. Intanto Ben furibondo era  riuscito a raggiungere la porta del retro. Lasciata con un’imprecazione blasfema la pantofola imbrattata sullo stuoino, entrò in casa.

Due ore dopo il suo umore era leggermente migliorato. Rasato, rilassato da una doccia calda e da un’abbondante colazione, indossava un pantalone sportivo morbido, una camicia cachi e un maglione. Sedette alla scrivania davanti al computer in sottofondo la musica, un cd dei Doors. Lavorò per un paio d’ore. L’orologio a parete bianco e nero modello stazione ferroviaria segnava le tre del pomeriggio quando decise di fare due passi e uno spuntino alla tavola calda. Mise il pc in standby spense lo stereo e indossato un giubbotto sportivo blu scuro uscì. La merda era sul tappetino. Sembrava appena fatta. Era di dimensioni notevoli e allungata come un siluro. Gli occhi di Ben si gonfiarono assumendo un profilo rotondo, come due palline da ping pong.

“Stronza malefica, infame bastarda” urlò a squarciagola.

“La smetta di trattar male le signore – lo apostrofò con voce isterica la moglie dell’ingegnere dal villino di fronte credendo di essere la testimone di un alterco tra innamorati – e non urli così stronzo maschilista”. In quel momento Ben perse il controllo. Saltò a piè pari la cacca e si diresse verso il casotto degli attrezzi. C’era una pistola sparachiodi. L’aveva acquistata per sistemare lo steccato. Avrebbe sistemato con quella anche la dirimpettaia, il marito ingegnere e il maledetto cane. Poi però vide la vanga. Quella dal manico lungo, rossa, nuova fiammante. Fu come un’illuminazione. Con un ghigno satanico prese l’attrezzo. Raggiunse le feci deposte sul tappetino con su scritto “welcome” e le raccolse. Con la vanga imbracciata e il suo carico avanzò lungo il giardino e si posizionò.

Poi fece fuoco. Come una catapulta Ben lasciò partire alla massima velocità il fagottino marrone. Una parabola a suo modo affascinante portò la merda, con una traiettoria obliqua a sorvolare il giardino per finire dritta dritta dentro la finestra spalancata sulla facciata della casa. La terza del pianterreno per essere precisi. Fu un centro perfetto. Ben si complimentò con se stesso ed esultò come un centravanti dopo un golden goal. Si chiese se la finestra dava sul salotto o direttamente sulla cucina. “Ma in fondo chissenefrega”, si disse saltellando via silenzioso. Poi andò a riporre la vanga nella casetta degli attrezzi e imboccato il vialetto si diresse alla tavola calda. Era quasi buio quando tornò a casa. Il piccolo incidente era accantonato. Le luci della casa dei vicini erano tutte accese. Sentì distintamente la moglie dell’ingegnere che a voce alta parlava di un cane che era entrato in casa e aveva cagato sul tavolo della cucina nel mezzo di quella bella torta di mele che stava preparando. Piangeva. Ben rise a crepapelle dentro di sè.

Il cane nascosto nella siepe lo stava osservando ancora. Questa volta neanche un occhio attento avrebbe potuto individuare l’animale acquattato nell’oscurità. E anche riuscendoci sarebbe stato estremamente difficile dire cosa potesse passare nella sua mente di animale. Ma se qualcuno avesse potuto farlo avrebbe detto con sicurezza che il cane guardava Ben con uno strano ghigno sul muso, e che con una certa fantasia, quel ghigno, si sarebbe potuto scambiare per una muta risata.

 

 

 

 

 
 
 

SCRIVERE SOPRAVVIVERE

Post n°2 pubblicato il 01 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl
 

Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge.
Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz'altro un modo di fare esperienza.
 

Non c'è bisogno che usciate dalla stanza. Restate seduti alla scrivania ad ascoltare. Non ascoltate neanche, aspettate semplicemente. Non aspettate nemmeno, restate del tutto immobili e soli. Il mondo vi si offrirà liberamente. Per essere smascherato, non ha scelta. Rotolerà in estasi ai vostri piedi.


Kafka
 

 
 
 

Maria Sofia

Post n°1 pubblicato il 01 Novembre 2006 da Ghostwriterdgl
 

La poesia che segue, tratta da Ferdinando Russo è dedicata all'ultima Regina di Napoli, Maria Sofia, moglie del Sovrano FrancescoII. La descrizione è quella data da un semplice soldato partenopeo, all'epoca dell'assedio di Gaeta:

E a' Riggina! Signò!...Quant' era bella!

E che core teneva! E che maniere!

Mo na bona parola 'a sentinella,

mo na strignuta 'e mana a l'artigliere...

Steva sempe cu nuie!...Muntava 'nsella

currenno e 'ncuraggianno juorne e sere,

mo cca', mo lla'...V' 'o ggiuro nnanz' 'e sante!

Nu' 'eramo nnammurate tuttequante!

Cu' chillo cappellino 'a cacciatora,

vui qua' Riggina! Chella era na' Fata!

E t'era buonaùrio e t'era sora,

quanno cchiù scassiava 'a cannunata!...

Era capace 'e se fermà pe' n'ora,

e dispensava buglie 'e ciucculata...

Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia...

Cadiva muorto? Te teneva 'mbraccia...

 

 

 
 
 
 
 

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