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« LA VERA RICCHEZZAPIETRO MASO AL LAVORO »

CHI MERITA DIU ESSERE POVERO

Post n°142 pubblicato il 24 Ottobre 2008 da giannipardo

CHI MERITA DI ESSERE POVERO
Quando si parla di ricchezza di solito lo si fa in una di queste due direzioni: o ci si riferisce alla produzione di beni e servizi, all’interno di un Paese, e in questo caso è un concetto positivo, oppure ci si riferisce alla quantità di beni posseduta da una singola persona, e in questo caso è un concetto tendenzialmente negativo. Dalla constatazione dell’esistenza di poveri e ricchi si passa infatti alla condanna dell’ingiusta distribuzione della ricchezza, come se mai qualcuno l’avesse distribuita.
Le “disparità sociali” suscitano immagini mentali costanti. Il povero è un padre di famiglia che vive in un tugurio, che non sa che cosa dare da mangiare a dei figli smunti e vestiti di stracci, mentre il ricco è un signore panciuto che vive circondato dal lusso più sfrenato, senza fare assolutamente niente. E mentre il primo non ha nessuna possibilità di sfuggire al suo infame destino, il secondo non ha fatto nulla per meritare la sua situazione di privilegio. L’idea di base è che “qualcuno” abbia dato poco ad uno e troppo all’altro: e per questo si parla di “ridistribuzione”.
Questa diagnosi della realtà – fondamentalmente falsa - ha qualche giustificazione storica. In passato la massima ricchezza – quasi l’unica – è stata la terra. E poiché la proprietà terriera si tramandava di padre in figlio, c’era chi nasceva ricco, e rimaneva tale per tutta la vita, e c’era chi nasceva povero e tale rimaneva. Un tempo la possibilità di passare dalla povertà alla ricchezza, o viceversa (mobilità sociale) è stata molto scarsa.
La situazione ha del resto giustificato in parte le teorie di Jean-Jacques Rousseau e il sentimento, largamente diffuso, per cui la possibilità di lasciare in eredità ai propri figli infingardi la ricchezza accumulata è un’ingiustizia. Né lontano da queste idee è stato Karl Marx il quale, assegnando allo Stato la proprietà dei mezzi di produzione (e il primo mezzo di produzione è la stessa terra), aboliva la ricchezza ereditaria. Purtroppo queste teorie, plausibili dal punto di vista morale, sono rovinose dal punto di vista economico. Chi ha tentato di applicarle ha abolito i ricchi (non quelli “più uguali degli altri”) ma ha impoverito gli stessi poveri. Tanto che oggi nessuno ne parla più.
La migliore soluzione, per attenuare le ingiustizie sociali, è la possibilità di cambiare la propria situazione col proprio lavoro e con la propria genialità. Cosa certo possibile nella civiltà contemporanea. Negli Stati Uniti dei tempi eroici ci si vantava della possibilità di cambiare la propria sorte, passando da spiantati a miliardari. E anche in Italia si è a lungo parlato della sorte di alcuni Martinitt - bambini allevati in un orfanotrofio - che sono diventati magnati dell’industria: un nome per tutti, Angelo Rizzoli. La mobilità sociale non è una comoda autostrada ed anzi la scalata al successo e alla ricchezza è raro che riesca: ma non è impossibile.
Nella società contemporanea ognuno non si deve tanto chiedere se la propria situazione sia giusta o ingiusta, quanto che cosa ha fatto per divenire ricco e se ne ha la capacità. Non c’è infatti tanto una “distribuzione” della ricchezza quanto una “conquista” della ricchezza.
È vero che per questa impresa alcuni partono meglio equipaggiati di altri – il figlio dell’avvocato può ereditare la clientela del padre – ma nessuno è escluso dalla corsa. Come prova la storia di molti, anche semi-analfabeti.
In questo esame di coscienza bisogna escludere quei meriti che sono molto apprezzati dallo stesso interessato ma non dalla società. Se uno ha le mani che non tremano e sa costruire mirabolanti castelli di carte non per questo dovrà attendersi pubblici riconoscimenti e milioni di euro. Analogamente, se ci si considera ottimi scrittori, pittori di genio, o inventori di miracolosi congegni, è inutile rammaricarsi. Questi diplomi nessuno li può attribuire a se stesso ed anzi in linea di principio bisogna accettare l’idea che si è ricchi o poveri esattamente secondo ciò che s’è saputo fare nella vita. Proprio per questo personalmente riconosco che merito di essere povero. Ammesso che avessi qualche merito, non ho mai saputo monetizzarlo – per ignavia, per orgoglio, per mancanza di ambizione e soprattutto per pigrizia – e non si vede perché dovrei essere ricco, avere una carica importante o esercitare una professione di prestigio.
Chi legge oggi avrà finalmente conosciuto uno che dice: sono un povero che merita di essere povero.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
23 ottobre 2008

 
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