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CONFESSIONI DI UN VAMPIRO

Post n°24 pubblicato il 18 Febbraio 2013 da graphitis

CHIARO DI LUNA

 Amo la Luna. Cancello affannosamente: non voglio lasciar traccia e inizio con una dichiarazione d’amore così sospetta? Potrei scrivere che m’appassiona l’osservazione della Luna, delle sue ombre e delle sue luci, del suo volto misterioso. Misterioso non va, evade dalla pura osservazione di mari e crateri, trascende l’osservazione scientifica o anche solo quella estetica. Estetica riconduce alla bellezza, alla sua percezione, allo spirito; e il passo è breve. Non potrò dunque scrivere senza tradirmi? Proviamo diversamente.

Era una notte di plenilunio, una calda notte d’estate. La Luna illuminava il giardino con un’intensità che ridava agli alberi e alle cose un pallido colore e presto sarebbe entrata dalla finestra spalancata di fronte al letto. Ero rimasto sveglio per vederla e, in mancanza di un telescopio, tenevo accanto al guanciale un binocolo da campo. Spuntò infine con lentezza maestosa e pareva più grande del solito, più grande ancora di quando sorgeva sulla collina. Invase la stanza. Non nascondo che ebbi un fremito quando l’inquadrai nel binocolo e che n’ebbi sgomento. Di solito do alla Luna uno sguardo ammirato: vederla così enorme, incombente, precisa nei suoi lineamenti era invece ben altro, un confronto, un incontro.  Posai il binocolo e continuai a guardarla, mentre lentamente si spostava nello specchio della finestra. Presto mi avrebbe abbandonato e mi colse la tristezza; ma ero troppo stanco per alzarmi e continuare a guardarla finché non fosse tramontata.

Fu allora che vidi la luce di perla oscurarsi e come due ali veleggiare verso di me. Poi la luce tornò come se avessi acceso l’abat-jour, e sul mio grembo c’era un libro aperto. Ancora le pagine tremavano per il lungo volo e il freddo della notte. Le carezzai, le sfogliai dolcemente e ancora non osavo leggerci, quasi che già qualcosa confidassero al palmo della mano, al dito che cercava parole. Fu così che mi addormentai? Che mi svegliai di soprassalto cercandolo, cercando la Luna dissolta nell’aurora? Il libro non c’era più, non nelle pieghe del lenzuolo, non sotto il guanciale. Che fosse caduto per un mio movimento involontario, che si fosse sciupato, che si sentisse respinto? Inutilmente lo cercai per tutta la stanza, e sempre mi perseguitava il disordine in cui anche un libro poteva smarrirsi.

“Ma poi lo trovò.

“Sì, lo trovai”.

“E dove?”

“Nella libreria. Per caso. Cercavo un classico e non sapevo più se lo possedessi ancora o se lo avessi prestato. Mi sorprese per il suo formato insolito. Quando lo separai dagli altri libri, parve schermirsi. Aveva una sopraccoperta in carta da imballaggio come quella con cui nei miei anni di liceo proteggevo i testi scolastici, con su scritto in calligrafia, con un lieve svolazzo finale, De rerum natura. Mi rallegrai perciò e aprii a casaccio, cercando i fini esametri e chiedendomi quanto attuali fossero ancora le mie conoscenze linguistiche. Non una parola di latino. Sembravano divagazioni, tra fantasticherie e riflessioni. La carta era preziosa, si sarebbe detta a mano; i quinterni, ben più della metà intonsi. Così mi ricordai di un mio sotterfugio, quando in collegio volevo leggere in pace letteratura proibita: semplicemente la travestivo con una copertina innocua.

“Dov’è ora questo libro?”

“Ah, non so. Sarà volato.”

“Imputato! Abbia rispetto per la corte!”

“Signora giudice, il massimo rispetto. Vede, non saprei distinguere tra sogno e realtà. Chi mi dice che quel libro fosse vero, che fosse entrato dalla finestra?”

“Insiste con questa storia della finestra?”

“Forse prima ho trovato il libro e poi ho sognato che entrasse dalla finestra”.

“Le diamo per buona questa seconda versione”.

Il cancelliere: “Vostro onore, è la quinta”.

“Effettivamente. Ignoriamo il libro. In ogni caso abbiamo un manoscritto. Riconosce la sua grafia?”

“Certamente, signora giudice. Questi appunti sono miei”.

“Che motivo c’era di prendere degli appunti, se aveva il libro?”

“Era il mio modo di studiare, per favorire la memoria”.

“Vuol dire che intendeva imparare a memoria queste storie?”

“Beh, mi piacevano”.

“Qui leggo: Quando cadde dall’alto platano, pensai che fosse un’ultima foglia che aveva resistito all’inverno. Ma, seguendola con lo sguardo fino alla radice dell’albero, vidi invece un grumo peloso non più grande di una castagna. Mi avvicinai e notai un lieve movimento; così mi piegai a guardar da vicino. Era come un topolino peloso. Poi spiegò un’ala: un pipistrello. Una nottola – dissi alle signore al tavolo accanto che avevano interrotto il fitto cicaleccio e ora mi chiedevano: “Che cosa ne vuol fare?” “Lo voglio portare al sicuro; qui fa ancora troppo freddo” - risposi. Lo raccolsi con un fazzoletto e lo misi in tasca, mentre una diceva senza ritegno: “Che schifo!” Tornai al mio tavolo, alla mia bibita e al giornale; poi andai alla cassa a pagare. Avevo fretta di tornare a casa e pensavo ad una sistemazione opportuna. La legnaia! Abbastanza calda e con mille anfratti per nascondersi. Quando sciolsi il fazzoletto, il piccolo scivolò nel palmo della mano ed era caldo e soffice. Vidi due occhi tondi e dolci che mi guardavano, mentre con le zampine e le ali l’animaletto si arrampicava sul mignolo. Mi guardò ancora con fiducia e cominciò a poppare; poi sentii una lieve puntura, più lieve di quando l’infermiera raccoglie una goccia di sangue. Una piccola goccia, in realtà, colava dalla bocca del chirottero; e i suoi occhi mi guardavano con fiducia. Ricordo ancora il senso di piacere nel vederlo succhiare e quel vago ricordo di un bimbo che si attacca al seno, di mia madre che ancora mi rimproverava perché da lattante mi piaceva mordicchiarle i capezzoli coi primi dentini. Sono del libro, questi ricordi?”

“No, signora giudice. Sono miei”. La presidente parlotta con il suo a latere; poi sospende la seduta. So che cosa intende fare: rimandarmi in psichiatria. Ma per fortuna non ha letto oltre. O forse io non ho scritto che, mentre il piccolo vampiro si nutriva del mio sangue, una piacevole sensazione m’invadeva l’anima: condividevo il suo piacere d’essere accolto, amato.

Ah! – penserete. È un vampiro: si capiva già. Dipende da quello che intendete, da ciò che pensate dei vampiri. Avete notato la tristezza negli occhi smarriti di Nosferatu, le orecchie a sventola, il corpo magro di bambino troppo cresciuto per il suo cappotto?  Qualche volta mostro la mia tristezza alla donna che amo. Smettila! – mi dice rabbrividendo, e non mi dà il tempo di scoprire i canini che il tempo ha limato. Per sdrammatizzare, devo muovere le orecchie; ma solo un po’, per non evocare un agitare di braccia e dita palmate.  Se ripeto la mimica allo specchio, riesco a convincere anche me stesso, e la tristezza m’invade davvero. Sono un vampiro? Dipende.

La corte si ritira. In piedi, in tutto rispetto, seguo la liturgia delle precedenze, lo svolazzare di toghe: qualcosa di familiare. La presidente incede verso l’uscita, stringendo il fascicolo al seno. Lo porterà con sé per leggerlo con calma. Forse una sensibilità si è salvata dal filtro dei codici: la sua lettura vibrava di un lieve turbamento.

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