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Creato da graphitis il 27/11/2008

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LAPIS - parte seconda.

Post n°21 pubblicato il 06 Maggio 2012 da graphitis

LAPIS -Il dilemma di Antigone

Racconto a puntate  - Cercare nel blog le puntate precedenti
2. Puntata 

ANTIGONE

 

 

 

Angelo – ma il suo nome si perdeva nelle pieghe del tempo – attese ancora un giorno; tornò, ora che il vento era mutato, sulla riva, se mai le onde avessero riportato una tavola, un segno. Poi spinse in acqua la piroga finemente scavata e vi saltò dentro leggera, bilanciandosi sulla falcata a muovere i remi con gesti ellittici, mentre l’acqua s’increspava sulla fiancata a manca come un saluto. Puntò dritto verso l’isola, come la barca del pescatore aveva dovuto fare, in balia della tramontana - e non valeva bordeggiare, combattere: una forza immane la trascinava sulle rocce dove nidificano i cormorani. Il lago appariva innocente, ora, appena solcato da correnti come pennellate trasversali. Angelo aveva superato la linea mediana che mai il suo popolo osava sorpassare; oltre vivevano gli altri: ancora non si conosceva la parola “nemico”. Era l’alba. Non c’era nebbia sul lago, ma l’umidità dava alle forme una dolcezza sonnolenta. Angelo contava di raggiungere l’isola prima che il sole sorgesse dalle colline boscose, dietro il suo villaggio. Non temeva d’esser vista, rimanendo a ridosso dell’isola; eppure, per una certa ansia o prudenza, affrettò la remata. La videro, invece, che era già vicina, e una frotta di maschi mugolò perché aveva notato le sue forme. Ora la barca e l’agile corpo si stagliavano contro il sole nascente, spezzando il barbaglio di luce. I maschi corsero sulla spiaggia per vederla di traverso, prima che l’isola la nascondesse. Angelo non aveva più dubbi, ora che, conficcate tra gli scogli, aveva scorto schegge modellate. Ancorò con un sasso la piroga sotto la roccia ferrigna, perché non c’era spiaggia, e saltò in acqua dove uno stormo di gabbiani più si accaniva. Fu così che vide il cadavere, in alto tra gli scogli, come se fin lì il pescatore si fosse arrampicato per salvarsi o come se lassù l’avesse gettato un ultimo frangente. Si arrampicò – e i maschi sulla spiaggia non lontana uggiolavano – lottò a lungo, perché il peso del corpo era enorme e le membra già si sconnettevano per gli insulti della burrasca. Fu una lotta immane; e qualcuno pensò che la si poteva sorprendere così, se avessero messo in acqua una barca.

“Ragazzacci!” – gridò la donna; ma in verità non era adusa ad alzar la voce - e tutti si dispersero brontolando. Lei aveva visto Angelo; ora i suoi sforzi le erano chiari, perché si trascinava un corpo e cercava d’issarlo sulla piroga. Per un momento la vide accasciarsi nell’acqua e già si moveva a soccorrerla. Angelo si riprese; vide la donna dalla lunga veste, sul petto un amuleto. Portò la mano al suo. L’altra levò un braccio. Angelo rispose; poi volse la prua verso il Gran Carro. (*2)

 

       “È una missione”. Ogni fatica riposava sulla consapevolezza di un compito sacro, e qualcosa di sacrale era nella sua persona. Marco doveva contraddirla.

“Se io dovessi morire in mare, dove i pesci – non solo i pescecani, ma anche i più piccoli – si ciberebbero di me, o in un deserto dove i coyote e gli avvoltoi banchetterebbero una volta tanto, non vorrei che tu mi riportassi in questa giungla di convenzioni. È mio diritto, non solo morire, ma decompormi in armonia con la natura”. Angelo rimase silenziosa; alzava le difese delle convinzioni da cui ricavava la sua forza. “Vedi, da ragazzo salivo spesso sull’Etna e mi sorprendevo a pensare che sarebbe stato bello cadere nel cratere. Quale cremazione sarebbe più grandiosa, quale trasformazione nei primi elementi più rapida? E poi, dicevo, avrò un monumento di tremila metri. Empedocle, forse, con gli stessi sentimenti andò incontro al vulcano”. Angelo taceva; ma Marco era nel gorgo dei pensieri e non poteva interrompersi. “Forse dovresti aiutare anche chi ha il mio punto di vista. La famiglia non è tutto: ogni uomo appartiene a se stesso”.

“In Svizzera ci sono organizzazioni che aiutano a morire”.

“Lo so.” Pensava a Lucio, il bel Lucio. Rideva un po’ del suo fascino; seguiva, ma critico, i suoi percorsi. Poi apprese della sua scelta, del commiato. Gli parve un po’ borghese, ma non osò parlarne. Come i viaggi organizzati, le crociere: “Una vacanza di sogno ad un prezzo eccezionale!”  Come macabra la pubblicità che nessuno aveva il buon gusto di ritirare, le rutilanti navi che inesorabilmente rimandavano al relitto spiaggiato davanti all’isola esclusiva! “Non a queste fasulle uscite di scena, pensavo. Mi chiedo se invece tu, come angelo, non potresti essere la guida di un viaggio oltre ogni umana avventura”.

“E che senso avrebbe la mia presenza? Quel viaggio si affronta da soli”.

“Sai il mito di Persefone? Tu conosci le vie dell’Ade. Vai a strapparne le vittime fin sulla soglia, perché i vivi abbiano pace. E se indicassi il percorso a chi definitivamente cerca la pace? Vedi, non è l’assenza di dolore o il conforto che nell’ultimo viaggio si cerca, ma la verità”.

“Non è il mio compito” – disse Angelo dopo un lungo silenzio.

“Non può essere un compito” – rispose Marco. “Potrebbe essere una ricerca, un’esplorazione. Tu non sai ancora fin dove le tue ali ti portano”.

 

Marco da un po’ aveva strani pensieri; strani, se si pensa alla sua reazione quando vedeva giovani appena usciti dall’adolescenza scherzare con la morte. Scherzare? Era un gioco ben tragico, come si potrebbe dire della roulette russa. Anzi, quello, un gioco sconsiderato, questa, un’ipoteca, un patto – come piacciono ai ragazzi i patti di sangue! Rosa, ad esempio, che portava al collo un piccolo Buddha d’argento.

“Che bell’amuleto! Che cos’è?”

“È… Si apre, vedi? E dentro c’è un’ampolla”. E, poiché gli occhi di Marco l’interrogavano preoccupati: “La porto sempre con me: c’è un potente veleno”.

“Chi te l’ha dato?” – avrebbe voluto gridare Marco. Chiese, invece: “Non ti fa triste?”

“No, perché?” Marco non seppe mai se l’amuleto fosse vuoto; non volle scoprire i suoi dubbi. Pensò che quella ragazza sul ciglio del vento credeva di avere ali per spiccare il volo quando voleva.

O quando parlavano di droghe con leggerezza: “Mi piace provare”. Provare che cosa? Provare a demolire un pezzo di te per vedere se funziona ancora? Strapperesti un’ala ad un uccello per provare se vola ancora?

I ragazzi parlano di morte come per gioco, e più ne sognano quanto più sono abbagliati dalla vita; ma il suicidio è stanchezza mortale, non torpore di primavera. Alda Merini ne rimase atterrita. Quando quasi stavo per morire, mi si aprì davanti una visione terrificante: vidi l’Inferno e fu talmente orribile che mi vestii in fretta e dissi a mio marito: “Sono pronta per il manicomio, qualunque cosa mi succeda non tenterò più di suicidarmi” (*3).

 

“La mia amica Lavinia ha sognato che eravamo sulla nave a prendere il sole. Ad un tratto mi ha visto correre, l’accappatoio svolazzante, verso il parapetto e scavalcarlo d’un balzo. Non ho osato dirle che proprio questo, qualche volta, immagino”.

“Eppure sembri un uomo che gusta la vita”.

“Gusto anche il vino, ma so quando fermarmi”. 

 

“Da ragazzo sono stato in collegio. Una volta al mese ci facevano fare “l’esercizio di buona morte”. Si fermava la scuola, il chiasso del cortile; due e tre volte in chiesa a sentire prediche orripilanti. Poi le invocazioni: Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che il mio cammino in questo mondo sta per finire, misericordioso Gesù abbiate pietà di me! E così di seguito in un elenco di sintomi del lento spegnersi di un vegliardo circondato da figli e nipoti. Allora non si conoscevano pallottole vaganti o motociclette che abbattono urlando il guardrail. Per questi casi si usava il termine subitanea ed improvvisa morte, considerata come la cosa più orrenda. Perché non lasciava il tempo di confessarsi, salvarsi per una lacrimetta (*4) mentre si andava in giro rotolandosi nei peccati. Ma tu di una morte così che ne pensi?”

“Direi: Sorpresa! E sono in mezzo al party”.

“Vedi? È quello che penso anch’io”.

“Ma di metter prima le cose in ordine non mi dispiacerebbe”.

“Sai, a volte mi sorprendo a chiedermi: come sto per l’ultimo incontro?”

“Quando succede, non hai tempo per pensarci. Gli altri, sì, ci pensano: Gli metta la maglietta della Roma, era un tifoso!”

 

“Tu li riporti in patria”.

“Sì”.

“Sto pensando ad Arafat. Lui non è potuto tornare. Ma è sepolto nella sua terra: qualche quintale di terra. È questo che voleva?”

“Anche questo ha un senso. Simbolico. Tutte le tombe sono un simbolo”.

“Certo: la colonna spezzata, la donna piangente, l’angelo…”

“Non solo. Pensa alle tombe preistoriche, ai tumuli. A me ricordano un ventre gravido. A volte penso che io li metto a dimora come alberi, li riporto nel ventre materno, dal quale rinasceranno”.

“Vorrei capire se è l’idea dell’aldilà che produce il culto dei morti o l’amore oltre la morte che immagina l’aldilà”.

“L’aldilà non è immaginario: esiste”.

“Come puoi asserirlo?”

“Asserirlo, hai detto bene. Non dimostrarlo, ma affermarlo. Tutta l’umanità ne è convinta, in ogni tempo”.

“Ti pare un argomento? Non sarà una proiezione collettiva?”

“A questi livelli, ci sono forze sufficienti per creare una realtà”.

“Interessante!”

“Perché non l’hai considerato abbastanza. Forse ora, se saranno numerosi quelli come te, che non credono più alla continuità della specie, alla vita oltre la morte, anche l’Aldilà potrà scomparire nelle nebbie d’Averno. Ma se tutti o i più, molti o solo alcuni, credono ad un mondo oltre questo mondo, allora questo mondo c’è”.

“Soggettivismo, ontologizzazione”.

“Scendi nelle tombe – qui camminiamo sulle tombe, ignote o violate e depredate; qui non c’è adulto che non sia stato tombarolo: si favoleggia di chiocce e pulcini d’oro – scendi nelle tombe e te ne convincerai”.

“Non oserò disturbare i fantasmi. Del resto anch’io da ragazzo sognavo con Orazio un monumento più duraturo del bronzo. La poesia, sì. Supposto che ci sia qualcuno capace di gustarla”.

“Io dico una tomba reale. Ti sei chiesto perché la gente è disposta ad impiegare tutti i suoi risparmi in una tomba di famiglia?”

“Un amico mi raccontava di una povera donna che viveva di stenti e alla fine, per suo interessamento, ha ricevuto una pensione; con gli arretrati: un mucchio di soldi. ‘Pensare che se ne poteva veder bene, poverina, per i giorni che le rimanevano’. E che ne ha fatto? Glielo chiese, e lei, tutta raggiante: ‘Mi sono comprata la tomba!”

“Vedi? Allora?”

“Che sarebbe pensier non troppo accorto – perder due vivi per salvare un morto”.

“Che cos’è?”

“L’arguzia di Ludovico Ariosto, la sua versione della vicenda di Eurialo e Niso”.

Se non sbaglio, i due amici volevano recuperare il cadavere di un cavaliere”.

“È così: Cloridano e Medoro si gettano nella mischia, affrontando la morte, ma per salvare un morto, per dargli onorata sepoltura”.

“Potrebbe essere il mio modello”.

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!”

“Ancora?”

“Sì, credo che i tuoi criteri appartengano ad un mondo scomparso”.

 

 

(Continua)

 

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redpiuma70
redpiuma70 il 06/05/12 alle 23:48 via WEB
Ciao, puoi anche tu aiutare a fare chiudere l'orrore di Green Hill, nel mio blog c'č la petizione da firmare. Grazie. redpiuma70
 
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