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Post n°7 pubblicato il 03 Febbraio 2009 da graphitis
GRAFITE INCIPIT Nella notte accarezzo i tasti del mio notebook. Voi non sapete che cos’è un notebook. I più vecchi rideranno. Sì, quella strana valigetta che tutti portavano con sé per darsi un tono e che in treno aprivano per battere sui tasti... Non avete ancora capito? Un computer, piccolo, portatile. Naturalmente: un computer è piccolo e, in un certo senso, portatile. Che cosa devo dire ancora? In fondo per chi scrivo? Sì, scusate, io dovrei spiegare anche la parola scrivere. Scrivere è comunicare con segni grafici – grapho vuol dire io scrivo. Così mi è riuscita anche una tautologia e non ho spiegato niente. Ormai nessuno scrive più. Pochi parlano ancora. Non vogliate credere che gli uomini siano diventati una comunità d’introversi; al contrario, essi hanno raggiunto un massimo di capacità comunicativa, ma di altro genere. Se un giorno qualcuno si chiederà come mai una cultura si sia trasformata così radicalmente, queste note potranno essergli utili, supposto che sappia interpretarle. Perché scrivo, allora? Scribo, ergo sum. Scherzo: scrivo per me, per il futuro, per il passato. Tutto iniziò una tarda mattina d’aprile. Avevo collegato il notebook al computer della mia università e mi preparavo ad un esame. Tra le due macchine e me c’era la primavera e mi fu subito chiaro che ogni ricerca, ogni accurata raccolta di informazioni, nulla avrebbero potuto contro la primavera: quello che avevo raccolto, che studiando mi aveva entusiasmato, ora mi risultava estraneo. Ero sfiduciato, distratto come un bambino che sogna. Per scherzo staccai il cavo di collegamento e avvicinai lo spinotto alla tempia sinistra. Al contatto del cavo con la tempia, sentii un doloroso ronzio e provai un’allucinazione, come di righi di un libro allineati. Contemporaneamente a 360 gradi si era formata una striscia di immagini sovresposte non identificabili. Mi spaventai e allontanai il cavo. L’immagine sparì. Lo portai di nuovo alla tempia: apparve un’altra immagine, che mutava ad ogni movimento del cavo. Sul mio orecchio destro portavo una matita, secondo l’uso dei falegnami, come facevo già da bambino quando leggevo e come faceva mio padre quando lavorava. Presi la matita per prendere appunti: l’immagine sparì. Il mio cuore partì all’impazzata, mentre io, come in trance, movevo la matita a contatto del capo e immagini tridimensionali, scritti, colori e movimenti si proiettavano attorno a me, fermandosi o fuggendo. Archimede uscì nudo dalla vasca da bagno e corse gridando, fuori di sé dalla gioia, eureka! Io ero come inchiodato alla sedia, in un bagno di sudore. Tentativi con la penna a sfera, con le forbici, con una riga di legno mi fecero capire che la produzione delle immagini era da attribuire alla mina di grafite. Grafite, grapho, scrivo. Dopo una lunga interruzione per far passare il capogiro e per analizzare le sensazioni, colorai con la matita un pezzetto di carta. Non mi fermai, finché non ebbi un denso strato di grafite. Quando portai il foglio ad una tempia e appoggiai all’altra parte lo spinotto, mi sentivo come alla roulette russa. Si formò una cupola d’informazioni, paesaggi in movimento, formule e calcoli che io non capivo, ma in mezzo ai quali mi muovevo con una certa sicurezza, nel senso che potevo mettere a fuoco, solo desiderandolo, un particolare o un aspetto. Dunque i miei neuroni si caricavano di dati, non stabilmente, ma per il tempo in cui rimanevano collegati con un computer. Se avessi trovato una soluzione, come una fasciatura alla testa o un grosso cerotto e il collegamento ad un minicomputer, i miei esami sarebbero stati salvi. Più dello spirito goliardico, mi venne in mente sempre più il pensiero che avevo fatto una scoperta interessante. E questo per la mia età era troppo, senza considerare che, alcuni anni prima, avevo scoperto il moto perpetuo, cosa che mi era costata una gran presa in giro. Mi venne idea di utilizzare i miei esami per annunciare ufficialmente la mia invenzione. (continua)
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