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XVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Post n°165 pubblicato il 29 Luglio 2017 da IMMAGINIRCFO

XVII Domenica del Tempo Ordinario Anno A 

http://3.bp.blogspot.com/-rNfGlGjLiSU/U9QLhNmV0rI/AAAAAAAAD4E/Z3wY6cFXeh0/s1600/perla01.jpg

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 13,44-52

Il Regno dei Cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il Regno dei Cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Il Regno dei Cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli Angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed Egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del Regno dei Cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta

Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

Volume 4 - Capitolo 239 - pagina 73

Sono tutti riuniti nella vasta stanza superiore. Il temporale violento si è risolto in una pioggia persistente, che ora si fa lieve fin quasi a sospendere e ora infittisce con improvvisa furia. Il lago non è certo azzurro oggi, ma giallastro, con strie di spume nei momenti di vento e acquazzone, grigio plumbeo con spume bianche nelle soste dell’acquazzone.

Le colline, tutte grondanti d’acqua, con le fronde ancora piegate da tanto che sono molli di pioggia, con qualche ramo che pende spezzato dal vento e molte foglie strappate dalla grandine, mostrano righe di ruscelli da ogni parte, acque giallognole che riversano nel lago foglie, sassi, terra rapita alle chine. La luce è rimasta offuscata, verdognola.

Nella stanza sono, sedute presso una finestra che guarda le colline, la Vergine Maria con Marta e la Maddalena, più due altre donne che non so di preciso chi siano. Ma ho l’impressione che siano già conosciute da Gesù e Maria e dagli apostoli, perché sono a loro agio. Certo più della Maddalena, che sta ferma ferma, a capo chino, fra la Vergine e Marta. 

Gli abiti riasciugati alla fiamma, spazzolati dal fango, sono stati rimessi. Ma dico male. È stato indossato dalla Vergine il suo di lana azzurro cupo. Ma la Maddalena ha una veste di imprestito, corta e stretta per lei alta e formosa, e cerca di riparare alle manchevolezze della veste stando avvolta nel mantello della sorella.

Si è raccolta i capelli in due grosse trecce annodandosele sulla nuca in qualche modo, perché per sostenere quel peso ci vuole ben più delle poche forcine racimolate lì per lì. Infatti, dopo, io ho sempre visto che la Maddalena aiuta le forcine con un nastrino che le fa quasi un diadema sottile, perdendosi col suo colore paglia nell’oro dei capelli.

Nell’altro lato della stanza, seduti chi su sgabelli, chi sui davanzali delle finestre, sono Gesù con gli apostoli e il padrone di casa. Manca il servo di Marta. Pietro e gli altri pescatori studiano il tempo, facendo pronostici per il domani. Gesù ascolta, oppure risponde a questo e a quello.

«Ad averlo saputo, di questo, avrei detto a mia madre di venire. È bene che la donna sia messa subito a suo agio con le compagne» dice Giacomo di Zebedeo sbirciando verso le donne.

«Eh! Ad averlo saputo!… Ma perché poi la mamma non è venuta con Maria?» chiede il Taddeo al fratello Giacomo.

«Non lo so. Me lo chiedo anche io».

«Non si sentirà male?».

«Maria lo avrebbe detto».

«Io glielo chiedo», e il Taddeo va dalle donne.

Si sente la voce limpida di Maria rispondere: «Sta bene. Sono stata io che le ho evitato uno strapazzo con questo caldo. Siamo scappate come due bambine, non è vero, Maria? Maria è venuta a sera oscura e all’alba siamo partite. Non ho che detto ad Alfeo: “Ecco la chiave. Tornerò presto. Dillo a Maria”. E sono venuta».

«Torneremo insieme, Madre. Non appena il tempo sarà buono e Maria avrà una veste, noi andremo, tutti insieme, per la Galilea, accompagnando le sorelle fino alla via più sicura. Così saranno conosciute anche da Porfirea, da Susanna, dalle vostre mogli e figlie, Filippo e Bartolomeo».

È squisito quel dire: «saranno conosciute», per non dire: «Maria sarà conosciuta»! È forte, anche. E abbatte tutte le prevenzioni e restrizioni mentali degli apostoli verso la Redenta. La impone, vincendo le riluttanze di loro, le vergogne di lei, tutto. Marta splende nel viso, Maria Maddalena avvampa e ha uno sguardo supplice, riconoscente, turbato, che so?… Maria Santissima ha il suo sorriso soave.

«Dove andremo per primo luogo, Maestro?».

«A Betsaida. Poi per Magdala, Tiberiade, Cana, a Nazaret. Di lì per Jafia e Semeron, andremo a Betlem di Galilea e poi a Sicaminon e a Cesarea…».

Gesù è interrotto da uno scoppio di pianto della Maddalena. Alza il capo, la guarda e poi riprende come nulla fosse: «A Cesarea troverete il vostro carro. Ho ordinato così al servo, e andrete a Betania. Ci rivedremo poi, ai Tabernacoli».

Maddalena si riprende presto e non risponde alle domande della sorella, ma esce dalla stanza ritirandosi forse in cucina per qualche tempo.

«Maria soffre, Gesù, nel sentire che deve venire in certe città. Bisogna capirla… Lo dico più per i discepoli che per Te, Maestro» dice umile ed affannata Marta.

«È vero, Marta. Ma così deve avvenire. Se ella non affronta subito il mondo e non strozza quell’orrendo aguzzino del rispetto umano, rimane paralizzata la sua eroica conversione. Subito e con noi».

«Con noi nessuno le dirà nulla. Te lo assicuro, Marta, anche per tutti i compagni miei» promette Pietro.

«Ma certo! La circonderemo come una sorella. Così ha detto Maria che ella è, e così sarà per noi» conferma il Taddeo.

«E poi!… Siamo tutti peccatori e il mondo non ci ha risparmiato neppure noi. Comprendiamo perciò le sue lotte» dice lo Zelote.

«Io più di tutti la capisco. Nei posti dove peccammo è molto meritorio vivere. Le persone sanno chi siamo!… È una tortura. Ma è anche una giustizia e una gloria resistere lì. Appunto perché è palese in noi la potenza di Dio, noi siamo oggetto di conversioni anche senza usare le parole». Dice Matteo.

«Tu vedi, Marta, che tua sorella è compresa da tutti e amata da tutti. E lo sarà sempre di più. Lei diverrà un segno indicatore per tante anime colpevoli e pavide. È una grande forza anche per i buoni. Perché Maria, quando avrà frantumato le ultime catene della sua umanità, sarà un fuoco d’amore. Non ha che cambiato direzione all’esuberanza del suo sentimento. Ha riportato questa sua potente facoltà di amare in un piano soprannaturale. E ivi compierà prodigi. Ve lo assicuro.

Ora è ancora turbata. Ma la vedrete giorno per giorno pacificarsi e irrobustirsi nella sua nuova vita. In casa di Simone ho detto: “Molto le è perdonato perché molto ella ama”. Ora vi dico che in verità tutto le sarà perdonato perché ella amerà con tutta la sua forza, la sua anima, il suo pensiero, il suo sangue, la sua carne, fino all’olocausto, il suo Dio».

«Lei beata che merita queste parole! Vorrei meritarle anche io» sospira Andrea.

«Tu? Ma tu le meriti già! Vieni qui, mio pescatore. Ti voglio raccontare una parabola che pare pensata proprio per te».

«Maestro, attendi. Vado a prendere Maria. Desidera tanto sapere la tua dottrina!…».

Mentre Marta esce, gli altri dispongono i sedili in modo da fare un semicerchio intorno a quello di Gesù. Tornano le due sorelle e riprendono posto vicino a Maria Santissima.
Gesù inizia a parlare:

«Dei pescatori uscirono al largo e gettarono nel mare la loro rete, e dopo il tempo dovuto la tirarono a bordo. Con molta fa­tica compivano così il loro lavoro per ordine di un padrone che li aveva incaricati di fornire di pesce prelibato la sua città, di­cendo loro anche: “Però quei pesci che sono nocivi o scadenti non state neppure a trasportarli a terra. Ributtateli in mare. Altri pescatori li pescheranno e, poiché sono pescatori di un altro padrone, li porteranno alla città dello stesso, perché là si consuma ciò che è nocivo e che rende sempre più orrida la città del mio nemico. Nella mia, bella, luminosa, santa, non deve entrare nulla di malsano”.

Tirata perciò a bordo la rete, i pescatori iniziarono il lavoro di cernita. I pesci erano molti, di diverso aspetto, grossezza e colore. Ve ne erano di bell’aspetto, ma con una carne piena di spine, dal cattivo sapore, dal grosso buzzo pieno di fanghiglia, di vermi, di erbe marce che aumentavano il sapore cattivo del­la carne del pesce. Altri invece erano di brutto aspetto, un mu­so che pareva il ceffo del delinquente o di un mostro da incubo, ma i pescatori sapevano che la loro carne è squisita.

Altri, per essere insignificanti, passavano inavvertiti. I pescatori lavora­vano, lavoravano. Le ceste erano colme di pesce squisito ormai e nella rete erano i pesci insignificanti. “Ormai basta. Le ceste sono colme. Gettiamo tutto il resto a mare”, dissero molti pe­scatori.

Ma uno, che poco aveva parlato, mentre gli altri avevano magnificato o deriso ogni pesce che capitava loro fra le mani, rimase a frugare nella rete e tra la minutaglia insignificante scoperse ancora due o tre pesci, che mise al disopra di tutti nelle ceste. “Ma che fai?”, chiesero gli altri. “Le ceste sono complete, belle. Tu le sciupi mettendovi sopra per traverso quel povero pesce lì. Sembra che tu lo voglia celebrare come il più bello”. “Lasciatemi fare. Io conosco questa razza di pesci e so che rendimento e che piacere danno”.

Questa è la parabola, che finisce con la benedizione del pa­drone al pescatore paziente, esperto e silenzioso, che ha saputo discernere fra la massa i migliori pesci.

Ora udite l’applicazione di essa.

Il padrone della città bella, luminosa e santa, è il Signore. La città è il Regno dei Cieli. I pescatori, i miei apostoli. I pesci del mare, l’umanità nella quale è presente ogni categoria di persone. I pesci buoni, i santi.

Il padrone della città orrida è satana. La città orrida, l’in­ferno. I suoi pescatori, il mondo, la carne, le passioni malvagie incarnate nei servi di satana sia spirituali, ossia demoni, sia umani, ossia uomini che sono i corruttori dei loro simili. I pesci cattivi, l’umanità non degna del Regno dei Cieli: i dannati.

Fra i pescatori delle anime per la Città di Dio ci saranno sempre quelli che emuleranno la capacità paziente del pesca­tore che sa perseverare nella ricerca, proprio negli strati dell’umanità, dove altri suoi compagni, più impazienti, hanno levato solo le bontà che appaiono tali a prima vista. E vi sa­ranno purtroppo anche pescatori che, per essere troppo svagati e ciarlieri, mentre il lavoro di cernita esige attenzione e silen­zio per udire le voci delle anime e le indicazioni soprannatura­li, non vedranno pesci buoni e li perderanno. E vi saranno quelli che per troppa intransigenza respingono anche anime che non sono perfette nell’aspetto esteriore ma ottime per tutto il resto.

Che vi importa se uno dei pesci che catturate per Me mostra i segni di lotte passate, presenta mutilazioni prodotte da tante cause, se poi queste non ledono il suo spirito? Che vi importa se uno di questi, per liberarsi dal Nemico, si è ferito e si pre­senta con queste ferite, se il suo interno mostra la sua chiara volontà di voler essere di Dio? Anime provate, anime sicure. Più di quelle che sono come infanti salvaguardati dalle fasce, dalla cuna e dalla mamma, e che dormono sazi e buoni, o sor­ridono tranquilli, ma che però possono in seguito, con la ragio­ne e l’età, e le vicende della vita che avanzano, dare dolorose sorprese di deviazioni morali.

Vi ricordo la parabola del figliuol prodigo. Altre ne udrete, perché sempre Io mi studierò a infondervi un retto discerni­mento nel modo di vagliare le coscienze e di scegliere il modo con cui guidare le coscienze, che sono singole, ed ognuna, per­ciò, ha il suo speciale modo di sentire e di reagire alle tentazio­ni e agli insegnamenti.

Non crediate facile l’essere cernitore di animi. Tutt’altro. Ci vuole occhio spirituale tutto luminoso di luce divina, ci vuole intelletto infuso di divina sapienza, ci vuole possesso delle virtù in forma eroica, prima fra tutte la carità. Ci vuole capa­cità di concentrarsi nella meditazione, perché ogni anima è un testo oscuro che va letto e meditato. Ci vuole unione continua con Dio, dimenticando tutti gli interessi egoisti. Vivere per le anime e per Dio.

Superare prevenzioni, risentimenti, antipatie. Essere dolci come padri e ferrei come guerrieri. Dolci per con­sigliare e rincuorare. Ferrei per dire: “Ciò non è lecito e non lo farai”. Oppure: “Ciò è bene si faccia e tu lo farai”. Perché, pen­satelo bene, molte anime saranno gettate negli stagni infernali. Ma non saranno solo anime di peccatori. Anche anime di pe­scatori evangelici vi saranno: quelle di coloro che avranno mancato al loro ministero, contribuendo alla perdita di molti spiriti.

Verrà il giorno -l’ultimo giorno della Terra, il primo della Gerusalemme completata e eterna- in cui gli Angeli, come i pescatori della parabola, separeranno i giusti dai malvagi, per­ché al comando inesorabile del Giudice i buoni passino al Cie­lo e i cattivi nel fuoco eterno. E allora sarà resa nota la verità circa i pescatori ed i pescati, cadranno le ipocrisie e apparirà il popolo di Dio quale è, coi suoi duci e i salvati dai duci. Vedre­mo allora che tanti, fra i più insignificanti all’esterno o i più malmenati all’esterno, sono gli splendori del Cielo, e che i pe­scatori quieti e pazienti sono quelli che più hanno fatto, splen­dendo ora di gemme per quanti sono i loro salvati.

La parabola è detta e spiegata».

«E mio fratello?!.. . Oh! ma!…». Pietro lo guarda, lo guarda… poi guarda la Maddalena…

«No, Simone. In quella io non ci ho merito. Il Maestro solo ha fatto», dice schietto Andrea.

«Ma gli altri pescatori, quelli di satana, prendono dunque gli avanzi?», chiede Filippo.

 
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Continua

Post n°164 pubblicato il 29 Luglio 2017 da IMMAGINIRCFO

«Tentano prendere i migliori, gli animi capaci di maggior prodigio di Grazia, ed usano degli stessi uomini per farlo, oltre che delle loro tentazioni. Ce ne sono tanti nel mondo che per un piatto di lenticchie rinunciano alla primogenitura!» .

«Maestro, l’altro giorno Tu dicevi che molti sono quelli che si lasciano sedurre da cose del mondo. Sarebbero ancora quelli che pescano per satana?», chiede Giacomo d’Alfeo.

«Sì, fratello mio. In quella parabola l’uomo si lasciò sedurre dal molto denaro che poteva dare molto godimento, perdendo ogni diritto al Tesoro del Regno. Ma in verità vi dico che su cento uomini solo un terzo sa resistere alla tentazione dell’oro o ad altre seduzioni, e di questo terzo solo la metà sa farlo in maniera eroica.

Il mondo muore asfissiato per aggravarsi vo­lontariamente dei lacci del peccato. Vale meglio essere spogli di tutto anziché avere ricchezze irrisorie e illusorie. Sappiate fare come i saggi gioiellieri, i quali, saputo che in un luogo è stata pescata una perla rarissima, non si preoccupano di trat­tenere tante piccole gioie nei loro forzieri, ma di tutto si libe­rano per acquistare quella perla meravigliosa».

«Ma allora perché Tu stesso metti delle differenze nelle mis­sioni che dai alle persone che ti seguono, e dici che noi le mis­sioni le dobbiamo tenere come dono di Dio? Allora bisognereb­be rinunciare anche a queste, perché anche queste sono bricio­le rispetto al Regno dei Cieli», dice Bartolomeo.

«Non briciole: mezzi sono. Briciole sarebbero, meglio anco­ra, sarebbero festuche di paglia sudicia, se divenissero scopo umano nella vita. Quelli che armeggiano per avere un posto a scopo di utile umano fanno di quel posto, anche se santo, una festuca di paglia sudicia. Ma fatene una ubbidiente accettazione, un gioioso dovere, un totale olocausto, e ne farete una perla rarissima. La missione è un olocausto, se compiuta senza riser­va, è un martino, è una gloria. Gronda lacrime, sudore, san­gue. Ma forma corona di eterna regalità».

«Tu sai proprio rispondere a tutto!».

«Ma mi avete capito? Comprendete ciò che Io dico con pa­ragoni trovati nelle cose di ogni giorno, illuminate però da una luce soprannaturale che ne fa spiegazione a cose eterne?».

«Sì, Maestro».

«Ricordatevi allora il metodo per istruire le turbe. Perché questo è uno dei segreti degli scribi e dei rabbi: ricordare. In verità vi dico che ognuno di voi, istruito nella sapienza di pos­sedere il Regno dei Cieli, è simile ad un padre di famiglia che trae fuori dal suo tesoro ciò che serve alla famiglia, usando co­se antiche o cose nuove, ma tutte per l’unico scopo di procurare il benessere ai propri figli».

L’acqua è cessata. Lasciamo in pace le donne e andiamo dal vecchio Tobia che sta per aprire i suoi occhi spirituali sulle albe dell’aldilà. La pace a voi, donne».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

 
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XVI Domenica del Tempo Ordinario anno A

Post n°163 pubblicato il 22 Luglio 2017 da IMMAGINIRCFO
 

Allora i giusti splenderanno come il sole
nel regno del Padre loro.
Chi ha orecchi, intenda!

https://3.bp.blogspot.com/-_7WeUTECj60/WLQAeMx_HkI/AAAAAAAAAxI/NIR2TJ1Jljcgd5arPscS0OUhOReRmv6UQCLcB/s320/masa%2Bpenuain.jpg

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 13,24-43

Un’altra parabola espose loro così: «Il Regno dei Cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio». Un’altra parabola espose loro: «Il Regno dei Cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». Un’altra parabola disse loro: «Il Regno dei Cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti». Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed Egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’Uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del Regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’Uomo manderà i suoi Angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta

Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

Volume 3 - Capitolo 181 - pagina 17

(8 giugno 1945)

Un’alba chiara imperla il lago e fascia i colli di una nebbia leggera come velo di mussola da cui appaiono, ingentiliti, ulivi e noci, e case e dossi dei paesi del lago. Le barche scivolano quiete e silenziose, dirette verso Cafarnao. Ma ad un certo punto Pietro piega la barra del timone così rudemente che la barca si inchina da un lato.

«Che fai?» chiede Andrea.

«C’è la barca di un gufo. Esce ora da Cafarnao. Ho buoni occhi e, da ieri sera, fiuto di segugio. Non voglio che ci vedano. Torno al fiume. Andremo a piedi».

Anche l’altra barca ha seguito la manovra, ma Giacomo, che regge il timone, chiede a Pietro: «Perché fai questo?».

«Te lo dirò. Vienimi dietro».

Gesù, che è seduto a poppa, si riscuote quando è quasi all’altezza del Giordano.

«Ma che fai, Simone?» chiede.

«Si scende qui. C’è uno sciacallo in giro. Non si può andare a Cafarnao oggi. Prima vado io a sentire un poco. Io con Simone e Natanaele. Tre degne persone contro tre indegne persone… se pure le indegne non saranno di più».

«Non vedere insidie da tutte le parti, ora! Quella non è la barca di Simone il fariseo?».

«È proprio quella».

«Non c’era alla cattura di Giovanni».

«Non so niente io».

«È sempre rispettoso verso di Me».

«Non so niente io».

«Mi fai parere vile».

«Non so niente io».

Per quanto Gesù non abbia voglia di ridere, deve sorridere per la santa cocciutaggine di Pietro. «Ma a Cafarnao dovremo pure andare. Se non oggi, più tardi…»

«Ti ho detto che vado prima io e sento e… all’occorrenza… farò anche questa… sarà una grossa spina da inghiottire… ma lo farò per amore di Te… Andrò… andrò dal centurione a chiedere protezione…»

«Ma no! Non occorre!».

La barca si arresta sulla spiaggetta deserta, opposta a Betsaida. Scendono tutti.

«Venite voi due. Vieni anche te, Filippo. Voi giovani state qui. Faremo presto».

Il neo discepolo Elia prega: «Vieni in casa mia, Maestro. Ne sarei tanto felice di ospitarti…»

«Vengo. Simone, mi raggiungerai alla casa di Elia. Addio, Simone. Va’. Ma sii buono, prudente e misericordioso. Vieni, che ti baci e benedica».

Pietro non assicura di essere né buono, né paziente, né misericordioso. Tace e scambia il bacio col suo Maestro. Anche lo Zelote, Bartolomeo e Filippo scambiano il bacio di addio e le due comitive si separano andando in opposta direzione.

Entrano in Corozim che l’aurora è già finita in giorno pie­no. Non vi è stelo che non brilli per gemme di rugiada. Gli uc­celli cantano per ogni dove. Vi è un’aria pura, fresca, che pare sappia persino di latte, di un latte più vegetale che animale. L’odore dei grani che si formano nelle spighe, dei mandorleti carichi di frutti… un odore che ho sentito nelle fresche mattine nei campi opimi della pianura padana.

La casa di Elia è presto raggiunta. Ma già molti in Corozim sanno che è giunto il Maestro e, mentre Gesù sta per porre pie­de sulla soglia, una madre accorre gridando: «Gesù, Figlio di Davide, pietà della mia creatura!». Ha sulle braccia una fan­ciulla di un dieci anni circa, cerea e magrissima. Più che cerea, giallastra.

«Che ha tua figlia?».

«Le febbri. Le ha prese alla pastura lungo il Giordano. Per­ché siamo i pastori di un ricco. Io sono stata chiamata dal pa­dre presso la bambina ammalata. Egli ora è tornato ai monti. Ma Tu sai che con questo male non si può passare in luoghi al­ti. Come posso stare qui? Il padrone mi ha lasciata fino ad ora. Ma io sono alle lane e alle figliate. Viene il tempo del lavoro per noi pastori. Saremo licenziati o divisi se io resto. Vedrò morire la figlia se vado all’Hermon».

«Hai fede che Io possa?».

«Ho parlato con Daniele pastore di Eliseo. Mi ha detto: “Il nostro Bambino guarisce ogni male. Vai dal Messia”. Da oltre Meron sono venuta con questa fra le braccia cercando Te. Avrei sempre camminato fino a trovarti…».

«Non camminare più altro che per tornare a casa, al lavoro sereno. Tua figlia è guarita perché Io lo voglio. Va’ in pace».

La donna guarda la figlia e guarda Gesù. Forse spera di ve­dere tornare grassa e colorita la fanciulla all’istante. Anche la fanciulla sgrana i suoi occhi stanchi, che prima teneva chiusi, in volto a Gesù e sorride.

«Non temere, donna. Non ti inganno. La febbre è sparita per sempre. Di giorno in giorno ella tornerà fiorente. Lasciala andare. Non barcollerà più e non sentirà stanchezza».

La madre posa al suolo la fanciulla, che sta ben ritta e sor­ride sempre più giuliva. Infine trilla con la sua voce argentina: «Benedici il Signore, mamma! Sono ben guarita! Lo sento», e nella sua semplicit� di pastorella e di fanciulla si lancia al col­lo di Gesù e Lo bacia. La madre, riservata come l’età insegna, si prostra e bacia la veste benedicendo il Signore.

«Andate. Ricordatevi del beneficio avuto da Dio e siate buo­ne. La pace sia con voi».

Ma la gente si affolla già nell’orticello della casa di Elia e reclama la parola del Maestro. E per quanto Gesù non abbia molta voglia di farlo, addolorato come è per la cattura, e per il modo come è avvenuta, del Battista, pure si arrende e all’om­bra degli alberi inizia a parlare.

«Ancora in questo bel tempo di grani che spigano, Io vi vo­glio proporre una parabola presa dai grani. Udite.

Il Regno dei Cieli è simile ad un uomo che seminò buon se­me nel suo campo. Ma, mentre l’uomo e i suoi servi dormivano, venne un suo nemico e sparse seme di loglio sui solchi e poi se ne andò. Nessuno sul principio si accorse di nulla. Venne l’in­verno con le piogge e le brine, venne la fine di tebet e germogliò il grano. Un verde tenero di foglioline appena spuntate. Parevano tutte uguali nella loro infanzia innocente. Venne sce­bat e poi adar e si formarono le piante e poi granirono le spi­ghe. Si vide allora che il verde non era tutto grano ma anche loglio, ben avviticchiato coi suoi vilucchi sottili e tenaci agli steli del grano.

I servi del padrone andarono alla sua casa e dissero: “Si­gnore, che seme hai seminato? Non era seme eletto, mondo da ogni altro seme che grano non fosse?”.

“Certo che lo era. Io ne ho scelto i chicchi tutti uguali di formazione. E avrei visto se vi fossero stati altri semi”. “E come allora è nato tanto loglio fra il tuo grano?”.

Il padrone pensò, poi disse: “Qualche nemico mio mi ha fat­to questo per farmi danno”.

I servi chiesero allora: “Vuoi che andiamo fra i solchi e con pazienza liberiamo le spighe dal loglio, strappando quest’ulti­mo? Ordina e lo faremo”.

Ma il padrone rispose: “No. Potreste nel farlo estirpare an­che il grano e quasi sicuramente offendere le spighe ancora te­nerelle. Lasciate che l’uno e l’altro stiano insieme fino alla mietitura. Allora io dirò ai mietitori: ‘Falciate tutto insieme; poi, avanti di legare i covoni, ora che il seccume ha fatto fria­bili i vilucchi del loglio mentre più robuste e dure sono le ser­rate spighe, scegliete il loglio dal grano e fatene fasci a parte. Li brucerete poi e faranno concime al suolo. Mentre il buon grano lo porterete nei granai e servirà ad ottimo pane con scorno del nemico, che avrà guadagnato solo di esser abbietto a Dio col suo livore”‘.

Ora riflettete fra voi quanto sovente avvenga e numerosa sia la semina del Nemico nei vostri cuori. E comprendete come occorra vigilare con pazienza e costanza per fare sì che poco loglio si mescoli al grano eletto. La sorte del loglio è di ardere. Volete voi ardere o divenire cittadini del Regno? Voi dite che volete essere cittadini del Regno. Ebbene, sappiatelo essere. Il buon Dio vi dà la Parola. Il Nemico vigila per renderla nociva, poiché farina di grano mescolata a farina di loglio dà pane amaro e nocivo al ventre. Sappiate col buon volere, se loglio è nell’anima vostra, sceglierlo per gettarlo onde non essere inde­gni di Dio.

Andate, figli. La pace sia con voi».

La gente sfolla lentamente. Nell’orto restano gli otto apostoli più Elia, suo fratello, la madre e il vecchio Isacco, che si pasce l’anima nel guardarsi il suo Salvatore.

«Venitemi intorno e udite. Vi spiego il senso completo della parabola, che ha due aspetti ancora, oltre quello detto alla folla.

Nel senso universale la parabola ha questa applicazione: il campo è il mondo. Il buon seme sono i figli del Regno di Dio, seminati da Dio sul mondo in attesa di giungere al loro limite ed essere recisi dalla Falciatrice e portati al Padrone del mon­do, perché li riponga nei suoi granai.

Il loglio sono i figli del Maligno, sparsi a loro volta sul campo di Dio nell’intento di dare pena al Padrone del mondo e di nuocere anche alle spighe di Dio.

Il Nemico di Dio li ha, per un sortilegio, seminati apposta, perché veramente il diavolo snatura l’uomo fino a farne una sua creatura, e questa semina, per traviare altri che non ha potuto asservire altrimenti.

La mietitura, anzi la formazio­ne dei covoni e il trasporto degli stessi ai granai, è la fine del mondo, e coloro che la compiono sono gli Angeli. A loro è ordi­nato di radunare le falciate creature e separare il grano dal lo­glio e, come nella parabola questo si brucia, così verranno bru­ciati nel fuoco eterno i dannati, all’Ultimo Giudizio.

Il Figlio dell’Uomo manderà a togliere dal suo Regno tutti gli operatori di scandali e di iniquità. Perché allora il Regno sarà e in Terra e in Cielo, e fra i cittadini del Regno sulla Terra saranno mescolati molti figli del Nemico. Questi raggiungeranno, come è detto anche dai Profeti, la perfezione dello scan­dalo e dell’abominio in ogni ministero della Terra, e daranno fiera noia ai figli dello spirito.

Nel Regno di Dio, nei Cieli, già saranno stati espulsi i corrotti, perché corruzione non entra in Cielo. Ora dunque gli Angeli del Signore, menando la falce fra le schiere dell’ultimo raccolto, falceranno e separeranno il gra­no dal loglio e getteranno questo nella fornace ardente dove è pianto e stridor di denti, portando invece i giusti, l’eletto gra­no, nella Gerusalemme eterna dove essi splenderanno come so­li nel Regno del Padre mio e vostro.

Questo nel senso universale. Ma per voi ve ne è un altro an­cora, che risponde alle domande che più volte, e specie da ieri sera, vi fate. Voi vi chiedete: “Ma dunque fra la massa dei di­scepoli possono essere dei traditori?”, e fremete in cuor vostro di orrore e di paura. Ve ne possono essere. Ve ne sono certo.

Il seminatore sparge il buon seme. In questo caso, più che spargere, si potrebbe dire: “coglie”. Perché il Maestro, sia che sia Io o sia che fosse il Battista, aveva scelto i suoi discepoli. Come allora si sono traviati? No, anzi. Male ho detto dicendo “seme” i discepoli. Voi potreste capire male. Dirò allora “cam­po”.

Tanti discepoli tanti campi, scelti dal maestro per costi­tuire l’area del Regno di Dio, i beni di Dio. Su essi il maestro si affatica per coltivarli, acciò diano il cento per cento. Tutte le cure. Tutte. Con pazienza. Con amore. Con sapienza. Con fati­ca. Con costanza. Vede anche le loro tendenze malvagie. Le lo­ro aridità e le loro avidità. Vede le loro testardaggini e le loro debolezze. Ma spera, spera sempre e corrobora la sua speranza con la preghiera e la penitenza, perché li vuole portare alla perfezione.

Ma i campi sono aperti. Non sono un chiuso giardino cinto da mura di fortezza, di cui sia padrone solo il maestro e in cui solo lui possa penetrare. Sono aperti. Messi al centro del mon­do, fra il mondo, tutti li possono avvicinare, tutti vi possono penetrare. Tutti e tutto. Oh! non è il loglio solo il mal seme se­minato! Il loglio potrebbe essere simbolo della leggerezza ama­ra dello spirito del mondo. Ma vi nascono, gettati dal Nemico, tutti gli altri semi. Ecco le ortiche. Ecco le gramigne. Ecco le cuscute. Ecco i vilucchi. Ecco infine le cicute e i tossici. Per­ché? Perché? Che sono?

Le ortiche: gli spiriti pungenti, indomabili, che feriscono per sovrabbondanza di veleni e danno tanto disagio.

Le grami­gne: i parassiti che sfiniscono il maestro senza saper fare altro che strisciare e succhiare, godendo del lavoro di lui e nuocendo ai volonterosi, che veramente trarrebbero maggior frutto se il maestro fosse non turbato e distratto dalle cure che esigono le gramigne.

I vilucchi inerti che non si alzano da terra che fruen­do degli altri.

Le cuscute: tormento sulla via già penosa del maestro e tormento ai discepoli fedeli che lo seguono. Si unci­nano, si conficcano, lacerano, graffiano, mettono diffidenza e sofferenza.

 
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continua

Post n°162 pubblicato il 22 Luglio 2017 da IMMAGINIRCFO

I tossici: i delinquenti fra i discepoli, coloro che giungono a tradire e a spegnere la vita come le cicute e le altre piante tossiche. Avete mai visto come sono belle coi loro fiorel­lini che poi divengono palline bianche, rosse, celeste-viola? Chi direbbe che quella corolla stellare, candida o appena rosata, col suo cuoricino d’oro, quei coralli multicolori, tanto simili ad altri frutticini che sono la delizia degli uccelli e dei pargoli, possano, giunti a maturazione, dare morte? Nessuno. E gli innocenti ci cascano. Credono tutti buoni come loro… e ne colgono e muoiono.

Credono tutti buoni come loro!

Oh! che verità che sublima il maestro e che condanna il suo traditore! Come? La bontà non disarma? Non rende il malvolere innocuo? No. Non lo ren­de tale, perché l’uomo caduto preda del Nemico è insensibile a tutto ciò che è superiore.

E ogni superiore cosa, cambia per lui aspetto.

La bontà diviene debolezza che è lecito calpestare e acuisce il suo malvolere come acuisce la voglia di sgozzare, in una fiera, il sentire l’odore del sangue. Anche il maestro è sempre un innocente… e lascia che il suo traditore lo avveleni, perché non vuole e non può lasciar pensare agli altri che un uomo giunga ad essere micidiale a chi è innocente.

Nei discepoli, i campi del maestro, vengono i nemici. Sono tanti. Il primo è satana. Gli altri i suoi servi, ossia gli uomini, le passioni, il mondo e la carne. Ecco, ecco il discepolo più fa­cile ad essere percosso da essi perché non sta tutto presso al maestro, ma sta a cavaliere fra il maestro e il mondo.

Non sa, non vuole separarsi tutto da ciò che è mondo, carne, passioni e demonio, per essere tutto di chi lo porta a Dio.

Su questo spar­gono i loro semi e mondo e carne, e passioni e demonio. L’oro, il potere, la donna, l’orgoglio, la paura di un mal giudizio del mondo e lo spirito di utilitarismo. “I grandi sono i più forti. Ecco che io li servo per averli amici”. E si diventa delinquenti e dannati per queste misere cose!…

Perché il maestro, che vede l’imperfezione del discepolo, anche se non vuole arrendersi al pensiero: “Costui sarà il mio uccisore�, non lo estirpa subito dalle sue file? Questo voi vi chiedete.

Perché è inutile farlo. Se lo facesse non impedirebbe di averlo nemico, doppiamente e più sveltamente nemico per la rabbia o il dolore di essere scoperto o di essere cacciato. Dolo­re. Sì. Perché delle volte il cattivo discepolo non si avvede di essere tale. È tanto sottile l’opera demoniaca che egli non l’av­verte.

Si indemonia senza sospettare di essere soggetto a que­sta operazione. Rabbia. Sì. Rabbia per essere conosciuto per quello che è, quando egli non è incosciente del lavoro di sata­na e dei suoi adepti: gli uomini che tentano il debole nelle sue debolezze per levare dal mondo il santo che li offende, nelle lo­ro malvagità, con il paragone della sua bontà.

E allora il santo prega e si abbandona a Dio. “Ciò che Tu permetti si faccia, sia fatto”, dice. Solo aggiunge questa clau­sola: “purché serva al tuo fine”. Il santo sa che verrà l’ora in cui verranno espulsi dalle sue messi i logli malvagi. Da chi? Da Dio stesso, che non permette oltre di quanto è utile al trionfo della sua volontà d’amore».

«Ma se Tu ammetti che sempre è satana, e gli adepti di lui… mi sembra che la responsabilità del discepolo scemi», di­ce Matteo.

«Non te lo pensare. Se il Male esiste, esiste anche il Bene, ed esiste nell’uomo il discernimento e con esso la libertà».

«Tu dici che Dio non permette oltre di quanto è utile al trionfo della sua volontà d’amore. Dunque anche questo errore è utile, se Egli lo permette, e serve ad un trionfo di volontà divina», dice l’Iscariota.

«E tu arguisci, come Matteo, che ciò giustifica il delitto del discepolo. Dio aveva creato il leone senza ferocia e il serpente senza veleno. Ora l’uno è feroce e l’altro è velenoso. Ma Dio li ha separati dall’uomo per ciò. Medita su questo e applica. Andiamo nella casa. Il sole è già forte, troppo. Come per inizio di temporale. E voi siete stanchi della notte insonne».

«La casa ha la stanza alta, ampia e fresca. Potrete riposare», dice Elia.

Salgono per la scala esterna. Ma solo gli Apostoli si stendo­no sulle stuoie per riposare. Gesù esce sulla terrazza, ombreg­giata in un angolo da un altissimo rovere, e si assorbe nei suoi pensieri.


Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

 
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XIV Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Post n°161 pubblicato il 09 Luglio 2017 da IMMAGINIRCFO
 

Dal Vangelo secondo Matteo 11, 25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a Me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e Io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da Me, che sono mite e umile di Cuore, e troverete ristoro per le vostre anime.  Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».


Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta


Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

Volume 4 - Capitolo 268 - pagina 292


Gesù e Mannaen  giungono a Cafarnao quando già gli apostoli sono arrivati. Seduti sul terrazzo, all’ombra della pergola, intorno a Matteo, narrano le loro gesta al compagno che non è ancora guarito. Si voltano al lieve scalpiccio dei sandali sulla scaletta e vedono la testa bionda di Gesù emergere sempre più dal muretto della terrazza. Corrono a Lui che sorride… e restano di stucco vedendo che dietro a Gesù è un povero bambino.

La presenza di Mannaen, che sale pomposo nella sua veste di lino candido -resa ancor più bella dalla cintura preziosa, del mantello rosso fiamma di lino tinto, così lucido da parer seta, appena appoggiato alle spalle a fargli quasi strascico dietro le spalle, e dal copricapo di bisso tenuto da un sottile diadema d’oro, una lamina bulinata che gli taglia a metà la fronte spaziosa dandogli quasi un’aria di re egizio- trattiene una valanga di domande che gli occhi però esprimono ben chiare. Ma dopo i saluti reciproci, seduti ormai presso Gesù, gli apostoli chiedono: «E questo?», accennando al bambino.

«E questo è la mia ultima conquista. Un piccolo Giuseppe, legnaiolo come il grande Giuseppe che mi fu Padre. Perciò a Me carissimo, come Io carissimo a lui. Non è vero, bambino? Vieni qui, che ti faccio conoscere questi miei amici dei quali hai tanto sentito parlare. Questo è Simon Pietro, l’uomo più buono coi bambini che ci sia. E questo è Giovanni, un grande fanciullo che ti parlerà di Dio anche giocando. E questo è Giacomo suo fratello, serio e buono come un fratello maggiore. E questo è Andrea, fratello di Simon Pietro: andrai subito d’accordo con lui perché è mite come un agnello.

E poi ecco Simone lo Zelote: questo ama tanto i bambini senza padre che credo girerebbe tutta la Terra, se non fosse con Me, per cercarli. Poi ecco qui Giuda di Simone e con lui Filippo di Betsaida e Natanaele. Vedi come ti guardano? Hanno bambini anche loro e amano i bambini. E questi sono i miei fratelli Giacomo e Giuda. Essi amano tutto ciò che Io amo, perciò ti ameranno. Ora andiamo noi da Matteo, che spasima per il suo piede eppure non ha rancore per i bambini che, giocando sventatamente, lo hanno colpito con una selce aguzza. Non è vero Matteo?»

«Oh! No, Maestro. È figlio della vedova?».

«Sì. È molto bravo, ma è rimasto molto triste».

«Oh! Povero bambino! Ti farò chiamare Giacomino e giocherai con lui», e Matteo lo carezza attirandoselo con una mano vicino.

Gesù termina la presentazione con Tommaso che, pratico, la completa offrendo al bimbo un grappolo d’uva staccata dalla pergola.

«Ora siete amici», conclude Gesù sedendo di nuovo, mentre il bambino succhia la sua uva rispondendo a Matteo che se lo tiene vicino.

«Ma dove sei stato tutto solo per tutta la settimana?».

«A Corozim, Simone di Giona».

«Questo lo so. Ma che ci hai fatto? Sei stato da Isacco?».

«Isacco l’Adulto è morto».

«E allora?».

«Non te lo ha detto Matteo?».

«No. Ha detto soltanto che eri a Corozim dal giorno dopo la nostra partenza».

«Matteo è più bravo di te. Egli sa tacere e tu non sai frenare la tua curiosità».

«Non la mia. Quella di tutti».

«Ebbene, sono andato a Corozim per predicare la carità in atto».

«La carità in atto? Che vuol dire?», chiedono in molti.

«A Corozim c’è una vedova con cinque bambini e una vecchia malata. L’uomo è morto all’improvviso al banco di lavoro, lasciando dietro di sé miseria e lavori incompiuti. Corozim non ha saputo trovare un briciolo di pietà per questa famiglia infelice. Io sono andato a finire i lavori e…».

Avviene un pandemonio. Chi domanda, chi protesta, chi brontola con Matteo per averlo permesso, chi ammira e chi critica. E, purtroppo, chi protesta o critica è la maggioranza.

Gesù lascia che la burrasca si quieti così come si è formata e, per tutta risposta, dice:

«E ci tornerò dopodomani. E così farò finché ho finito. E voglio sperare che almeno voi comprendiate. Corozim è un nocciolo serrato e mancante del germe. Siate almeno voi noccioli col germe. Tu, bambino, dammi la noce che Simone ti ha dato e ascolta anche tu.

Vedete questa noce? E prendo questa perché non ho altri gusci sotto le mani, ma per capire la parabola pensate ai noccioli dei pinoli o delle palme, ai più duri, a quelli delle ulive per esempio. Sono astucci serrati, senza fessure, durissimi, di un legno compatto. Sembrano scrigni magici che solo una violenza può aprire.

Eppure, se uno di essi viene gettato nella terra, anche semplicemente a terra e il passante lo affonda, col passarvi sopra, quel tanto che esso si adagi nel suolo, che avviene? Che il forziere si apre e fa radici e foglie. Come avviene da sé? Noi dobbiamo battere molto col martello per riuscirvi e invece, senza colpi, il nocciolo si apre da sé. È dunque magico quel seme? No. Ha dentro una polpa. Oh! Una cosa debole rispetto al duro guscio!

Eppure, essa nutre una ancora più piccola cosa: il germe. E questo è la leva che sforza, apre, dà pianta con fronde e radici. Provate a seppellire dei noccioli e poi attendete. Vedrete che alcuni nascono, altri no. Estraete quelli che non sono nati. Apriteli col martello e vedrete che sono semivuoti. Non è dunque l’umido del suolo né il calore quelli che fanno aprire il nocciolo. Ma è la polpa, e più: l’anima della polpa, il germe che, gonfiando, fa da leva e apre.

Questa è la parabola. Ma applichiamo a noi.

Che ho fatto che non andasse fatto? Ci siamo ancora capiti così poco da non comprendere che l’ipocrisia è peccato e che la parola è vento se non è convalidata dall’azione? Che vi ho sempre detto Io? “Amatevi gli uni con gli altri. L’amore è il precetto e il segreto della gloria”. E Io, che predico, dovrei essere senza carità? Darvi l’esempio di un maestro menzognero? No, mai!

Oh! amici miei. Il nostro corpo è il nocciolo duro, nel nocciolo duro è chiusa la polpa: l’anima; in essa è il germe che Io ho deposto. Esso è fatto di molti elementi. Ma il principale è la carità. Essa è che fa da leva per schiudere il nocciolo e liberare lo spirito dalle costrizioni della materia ricongiungendolo a Dio, che è Carità.

La carità non si fa solo di parole o di denaro. Si fa la carità con la sola carità. E non vi paia uno scherzo di parole.

Io non avevo denaro, e le parole non bastavano per questo caso. Qui vi erano sette persone sulle soglie della fame e dell’angoscia. La disperazione avanzava le sue branche nere per ghermire e affogare. Il mondo si ritirava duro ed egoista davanti a questa sventura. Il mondo mostrava di non avere capito il Maestro nelle sue parole.

Il Maestro ha evangelizzato con le opere. Io avevo capacità e libertà di farlo. E avevo il dovere di amare per tutto il mondo questi meschini che il mondo disama. Io ho fatto tutto questo. Potete criticarmi ancora? O devo essere Io che -alla presenza di un discepolo che non si è scandalizzato di portare la sua persona fra la segatura e i trucioli per non abbandonare il Maestro e che, ne sono convinto, si sarà fatto più persuaso di Me vedendomi curvo sul legno di quanto non sarebbe stato persuaso vedendomi in trono, e di un bambino che ha sentito Me per quello che sono nonostante la sua ignoranza, la sventura che l’ottunde, e la sua assoluta verginità di conoscenza col Messia quale esso è in realtà- o devo essere Io che vi critico?

Non parlate? Non vi mortificate soltanto, mentre Io alzo la voce a raddrizzare idee errate. E per amore lo faccio. Ma mettete in voi il germe che santifica e apre il nocciolo. O sarete sempre degli esseri inutili. Quello che Io ho fatto, voi dovete essere pronti a fare. Per amore del prossimo, per portare a Dio un’anima, nessun lavoro vi deve pesare. Il lavoro, quale esso sia, non è mai umiliante.

Mentre umilianti sono le azioni basse, le falsità, le denunce bugiarde, le durezze, i soprusi, gli strozzinaggi, le calunnie, le lussurie.

Queste mortificano l’uomo.

Eppure si fanno senza vergognarsene, anche da parte di quelli che vogliono dirsi perfetti e che certo si sono scandalizzati di vedermi lavorare di sega e di martello. Oh! Oh! il martello! L’indegno martello, se è per mettere chiodi in un legno a formare un oggetto atto a dar da mangiare a degli orfanelli, come diverrà nobile! Il martello, ignobile se nelle mie mani e per fine santo, come non apparirà più tale, e come lo vorranno avere tutti quelli che ora si darebbero a gridare il loro scandalo per esso!

Oh! Uomo, creatura che dovresti essere luce e verità, come sei tenebra e menzogna! Ma voi, voi almeno, comprendete cosa è il bene! Cosa è la carità. Cosa è l’ubbidienza. In verità vi dico che molti sono i farisei. E che non sono assenti fra quelli che mi circondano».

«No, Maestro. Non lo dire! Noi… è perché ti amiamo che non vogliamo certe cose!…».

«È perché non avete ancora capito nulla. Vi ho parlato della fede e della speranza, e credevo che non necessitasse parola novella per parlarvi della carità, perché Io tanto l’emano che dovreste esserne saturi. Ma vedo che la conoscete solo di nome, senza saperne la natura e la forma. Così come conoscete la luna.

Vi ricordate quando ho detto che la speranza è come il braccio traverso del dolce giogo che sorregge la fede e la carità, ed è il patibolo dell’umanità e il trono della salvezza? Sì? Ma non avete compreso le mie parole nel loro significato. E perché non me ne avete chiesto spiegazione? Ve la do Io. È giogo perché obbliga l’uomo a tenere bassa la sua superbia stolta sotto il peso delle verità eterne. Ed è patibolo di questa superbia.

L’uomo che spera in Dio suo Signore, di necessità umilia il suo orgoglio, che vorrebbe proclamarsi “dio”, e riconosce che egli è nulla e Dio è tutto, che egli può nulla e Dio può tutto, che egli-uomo è polvere che passa e Dio è eternità che eleva la polvere a superiore grado, dandogli premio di eternità.

L’uomo si inchioda alla sua croce santa per raggiungere la Vita. E ve lo configgono le fiamme della fede, della carità, ma lo alza verso il Cielo la speranza che è fra questa e quella. Però, ritenete la lezione: se manca la carità, il trono è senza luce e il corpo, schiodato da un lato, pende verso il fango, non vedendo più il Cielo. Annulla così gli effetti salutari della speranza, e finisce col rendere sterile anche la fede perché, staccati da due delle tre teologali virtù, si cade in languore e in gelo mortale.

Non rifiutate Dio neppure nelle minime cose. Ed è rifiutare Iddio respingere un aiuto al prossimo per orgoglio pagano.

La mia dottrina è un giogo che piega l’umanità colpevole ed è un maglio che rompe la scorza dura per liberarne lo spirito. È un giogo ed è maglio, sì. Ma pure chi la accetta non sente la stanchezza che danno tutte le altre dottrine umane e tutte le altre cose umane. Ma pure chi se ne fa colpire non sente il dolore di essere frantumato nell’io umano, ma prova un senso di liberazione. Perché cercate di liberarvene per sostituirla da tutto ciò che è piombo e dolore?

Voi tutti avete i vostri dolori e le vostre fatiche. Tutta l’umanità ha dolori e fatiche, superiori alle forze umane talora. Dal bambino come questo, che già porta sulle piccole spalle un grande peso che lo fa piegare e che leva il sorriso del fanciullo alle sue labbra e la spensieratezza alla sua mente che, sempre umanamente parlando, non sarà perciò mai più stata fanciulla, al vecchio che piega alla tomba con tutti i disinganni e le fatiche, e i pesi, e le ferite della sua lunga vita. Ma nella mia dottrina e nella mia fede è il sollievo da questi pesi accascianti.

Perciò è detta la “Buona Novella”. E chi l’accetta e l’ubbidisce sarà beato dalla Terra, perché avrà Dio a suo sollievo e le virtù a rendergli facile e luminoso il cammino, quasi fossero buone sorelle che, tenendolo per mano, con le lampade accese ne rischiarano la via e la vita e gli cantano le eterne promesse di Dio, fino a quando, piegando in pace il corpo stanco sulla Terra, si risveglia in Paradiso.

Perché volete, o uomini, essere affaticati, desolati, stanchi, disgustati, disperati, quando potete essere sollevati e confortati?

Perché anche voi, miei apostoli, volete sentire la stanchezza della missione, la sua difficoltà, la sua severità, mentre avendo la fiducia di un bambino potete avere solo ilare solerzia, luminosa facilità a compierla e comprendere e sentire che essa è severa solo agli impenitenti che non conoscono Dio, ma per i fedeli suoi è come mamma che sorregge sul cammino, indicando ai piedi incerti del pargolo i sassi ed i pruni, i nidi di serpi ed i fossati, perché egli li conosca e non vi pericoli?

Voi ora siete desolati. La vostra desolazione ha avuto un inizio ben miserabile! Voi siete desolati prima della mia umiltà come di un delitto contro Me stesso. Ora siete desolati perché avete capito di avermi addolorato e di essere così lontani ancora dalla perfezione. Ma in pochi questa seconda desolazione è priva di superbia. Della superbia ferita dalla constatazione di essere ancora nulla, mentre per orgoglio vorreste essere perfetti.

Abbiate solo l’umiltà volenterosa di accettare il rimprovero e di confessare che avete sbagliato, promettendo in cuor vostro di volere la perfezione per un fine sopraumano. E poi venite a Me. Io vi correggo, ma vi comprendo e compatisco.

Venite a Me, voi apostoli, e venite a Me voi tutti, uomini che soffrite per dolori materiali, per dolori morali, per dolori spirituali. Questi ultimi dati dal dolore di non sapervi santificare come vorreste per amore di Dio e con sollecitudine e senza ritorni al Male. La via della santificazione è lunga e misteriosa e talora si compie all’insaputa del camminatore, che procede fra le tenebre, col sapore del tossico in bocca, e crede di non procedere e di non bere liquido celeste, e non sa che anche questa cecità spirituale è un elemento di perfezione.

Beati quelli, tre volte beati quelli che continuano a procedere senza godimenti di luce e di dolcezze, e non si arrendono perché nulla vedono e sentono, e non si fermano dicendo: “Finché Dio non mi da delizie io non procedo”. Io ve lo dico: la strada più oscura diverrà luminosissima d’improvviso aprendosi su paesaggi celesti. Il tossico, dopo aver levato ogni gusto per le cose umane, si muterà in dolcezza di Paradiso per questi coraggiosi che stupiti diranno: “Come ciò? Perché a me tanta dolcezza e letizia?”. Perché avranno perseverato e Dio li farà esultanti dalla Terra di ciò che è il Cielo.

Ma intanto per resistere, venite a Me voi tutti che siete affaticati e stanchi, voi apostoli e, con voi, tutti gli uomini che cercano Dio, che piangono per causa del dolore della Terra, che si sfiniscono da soli, ed Io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo. Non è un peso. È sostegno.

Abbracciate la mia dottrina come fosse una amata sposa. Imitate il Maestro vostro che non si limita a bandirla ma fa ciò che insegna. Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore. Troverete il riposo delle vostre anime, perché mitezza e umiltà concedono il regno sulla Terra e nei Cieli.

Già ve l’ho detto che i trionfatori veri fra gli uomini sono coloro che li conquistano con l’amore, e l’amore è sempre mite e umile. Io non vi darei mai da fare delle cose superiori alle vostre forze, perché vi amo e vi voglio con Me nel mio Regno. Prendete dunque la mia insegna e la mia assisa, e sforzatevi ad essere simili a Me e quali la mia dottrina insegna. Non abbiate paura, perché il mio giogo è dolce e il suo peso è leggero, mentre infinitamente potente è la gloria di cui godrete se a Me fedeli. Infinita ed eterna…»

Vi lascio per qualche tempo. Vado col bambino presso il lago. Troverà degli amici… Poi spezzeremo il pane insieme. Vieni, Giuseppe. Ti farò conoscere i piccoli che mi amano».


Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

 
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SEQUENZA

[Sion, loda il Salvatore,
la tua guida, il tuo pastore
con inni e cantici.
-Impegna tutto il tuo fervore:
egli supera ogni lode,
non vi è canto che sia degno.
-Pane vivo, che dà vita:
questo è tema del tuo canto,
oggetto della lode.
-Veramente fu donato
agli apostoli riuniti
in fraterna e sacra cena.
-Lode piena e risonante,
gioia nobile e serena
sgorghi oggi dallo spirito.
-Questa è la festa solenne
nella quale celebriamo
la prima sacra cena.
-È il banchetto del nuovo Re,
nuova Pasqua, nuova legge;
e l'antico è giunto a termine.
-Cede al nuovo il rito antico,
la realtà disperde l'ombra:
luce, non più tenebra.
-Cristo lascia in sua memoria
ciò che ha fatto nella cena:
noi lo rinnoviamo.
-Obbedienti al suo comando,
consacriamo il pane e il vino,
ostia di salvezza.
-È certezza a noi cristiani:
si trasforma il pane in carne,
si fa sangue il vino.
-Tu non vedi, non comprendi,
ma la fede ti conferma,
oltre la natura.
-È un segno ciò che appare:
nasconde nel mistero
realtà sublimi.
-Mangi carne, bevi sangue;
ma rimane Cristo intero
in ciascuna specie.
-Chi ne mangia non lo spezza,
né separa, né divide:
intatto lo riceve.
-Siano uno, siano mille,
ugualmente lo ricevono:
mai è consumato.
-Vanno i buoni, vanno gli empi;
ma diversa ne è la sorte:
vita o morte provoca.
-Vita ai buoni, morte agli empi:
nella stessa comunione
ben diverso è l’esito!
-Quando spezzi il sacramento
non temere, ma ricorda:
Cristo è tanto in ogni parte,
quanto nell’intero.
-È diviso solo il segno
non si tocca la sostanza;
nulla è diminuito
della sua persona.]
-Ecco il pane degli angeli,
pane dei pellegrini,
vero pane dei figli:
non dev’essere gettato.
-Con i simboli è annunziato,
in Isacco dato a morte,
nell'agnello della Pasqua,
nella manna data ai padri.
-Buon pastore, vero pane,
o Gesù, pietà di noi:
nutrici e difendici,
portaci ai beni eterni
nella terra dei viventi.
-Tu che tutto sai e puoi,
che ci nutri sulla terra,
conduci i tuoi fratelli
alla tavola del cielo
nella gioia dei tuoi santi.

 
 

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