Creato da jeffb0 il 13/03/2008

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UTOCRONIA

Post n°4 pubblicato il 13 Marzo 2008 da jeffb0
 
Tag: inediti
Foto di jeffb0

Una civiltà ossessionata dalla negazione della sua identità, una civiltà senza memoria, occupata a cantare, ballare, quando intorno esiste solo distruzione, una civiltà che partorisce i propri figli per noia, per conformismo, per emulazione, per godersi un periodo di ferie pagate lontano dal lavoro, che li costringe costipati in salotti anonimi a fissare decerebrati programmi televisivi che ne accrescono la tendenza alla futilità, che li incoraggia a sognare di inserirsi nel mondo dello spettacolo, televisivo, attoriale, modelle, modelli, pierre, veline, che gli proibisce di covare passioni vere che possano sfociare con il lavoro e il sudore nella consacrazione, che gli impedisce di credere nel lavoro duro ma solo nella fama veloce, nei soldi facili, in quelli rubati o sottratti tramite lavori incostanti e discontinui, per lasciare tempo al divertimento leggero dei luna-park; Una civiltà cresciuta senza spina dorsale nell’epoca dei divi del calcio, del Grande Fratello e delle starlette della tv, che sculettando capricciosi si sono costruiti senza fondamenta la loro strada volubile e inconsistente nel mondo, tralasciando i valori e coltivando la vanità.

Come siamo arrivati a questo?

Ma forse non è soltanto colpa nostra. La colpa è anche del tempo che si è spezzato, che si è arrestato, la colpa è di questa epoca di idoli di carta in cui tutto è troppo uguale, in cui la qualità, la costanza, la coerenza, non sono che antiquate terminologie da mercatino delle pulci. La colpa è di questo cancro sconosciuto che si è impadronito del mondo, che ha fatto marcire tutto quello che era bello, solido e duraturo e lo ha trasformato in frivolo, inconsistente, privo di fondamenta. Per questo il dissidio non ha tardato ad arrivare, almeno quando abbiamo superato l’incantato cancello dell’adolescen-za e il mondo ci si è svelato stratificato, nelle sue fasi sovrapposte di bugie e mediocrità. Una volta, una volta soltanto ci è sembrato di essere in armonia con quello che ci circondava, con quello che avevamo intorno e con i nostri simili, ma non è durato molto, e forse è stata colpa dell’illusione radiosa della giovinezza, della sua menzogna glassata. Poi solo oblio e nostalgia, e forse è stato peggio. Peggio che non esserci mai stati. Ma così è, questa è la ferita più profonda, quella più dolorosa, quella che non potremo mai rimarginare. Nonostante tutto nemmeno l’odio ci viene a soccorrere, quell’odio che sarebbe benefico, consolante, catartico, perché ancora amiamo il genere umano, lo amiamo disperatamente e senza speranza, lo amiamo nella sua interezza e nei piccoli satelliti che lo compongono, lo amiamo come se fosse una parte di noi, o noi di lui, lo amiamo come abbiamo sempre fatto e come faremo per sempre. Gli incubi a rassicurarci, le stelle a fissarci. È questo che ha sempre giustificato tutto, questo spossessamento, questo non trovare una patria se non nella piccola stanzetta del nostro cervello, questo è dannazione e bellezza insieme, costrizione e liberazione. Quel piccolo incontaminato cantuccio di campagna mai rimpianto abbastanza dove giovani andavamo a sbollire delle nostre prime ferite, dei nostri primi impatti contro il muro della vita, lancinanti, dolorosi, dove la musica ci rammendava gli strappi del cuore, dove il cielo era circolare, piangente di luci, grondante di lacrime, quella era la nostra oasi, il nostro canto di resistenza, il nostro guanto di sfida lanciato dritto in faccia alla sofferenza. Guarivamo lasciandoci permeare di dolore, per intero, senza evitare un singolo, isolato frammento di carne. E imparando a sopportarlo. È stato così che siamo cresciuti. È stato così che siamo diventati uomini. Ma il problema è che qui ormai non c’è più niente per noi, non un solo straccio di perseveranza, di ostinazione, di forza, ma solo un progressivo e passivo arrendersi agli eventi, una mancanza di fil rouge, di senso, ormai endemico. Fossimo vissuti in altre parti del millennio che se ne è andato, ci domandiamo spesso, forse ci sarebbe stata più coerenza, non una muta e debole sopravvivenza. Noi non siamo strutturati per conviverci. Non sappiamo spiegarlo in altro modo. Noi abbiamo valori, un bizzarro progetto di vita, cerchiamo di esistere rispettandoli, ma lo stiamo facendo nel deserto. Forse è per questo che siamo qui, orgogliosamente isolati nelle nostre trincee, in perenne lotta, dissidenti perenni che non si vogliono arrendere a scomparire nell’unifor-mità, ad appiattirsi verso il basso scivolando nel buco nero come gli altri. A volte non abbiamo la forza sufficiente per sopportare tutto questo dissidio. Ma non smetteremo mai di combatterlo, mai. Un tempo siamo stati succubi della perfetta sincronia degli altri, che si sono adattati, alcuni automaticamente, altri di riflesso. Succubi del loro inserimento. Ma ora è diverso. Abbiamo capito che molti non avevano la forza di combattere nemmeno per salvare loro stessi, per debolezza, per pigrizia, per paura. È stato allora che abbiamo deciso di combattere anche per loro. Abbiamo scelto la notte come tana, l’oscurità come ritmo, ed ancora adesso, ogni notte, prima di addormentarci, danziamo per qualche minuto attorno alla lampada sognando di un tempo che non è stato, di speranze che non si sono avverate, di una vita inesistente. È la nostra oasi di pace, ci dovrete concedere almeno questa debolezza. Sognamo ad occhi chiusi, prolungando con arte consumata quel breve momento di assoluta lucidità che precede il sonno. Lo facciamo con le orecchie sorde al rumore delle strade, immaginandole ovattate dalla neve, le carrozze trainate dai cavalli che sfrecciano con la loro velocità relativa a congiungere i lembi di questa città che si sta apprestando a calarsi nel nuovo secolo, sta procedendo alla sua solita cosmesi idiota, prima che una nuova ondata di vuota gioia la consacri nel firmamento, la elevi a splendido gingillo costruito sull’acqua, smeraldo da ammirare e non toccare, come quelle belle ragazze che si fissano per strada con la convinzione, anzi, la certezza, di averne gustata la miglior parte.

 

 

 

 

 
 
 
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