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Post N° 2


Bellezza divina                
“Dio è chiamato bello perché è completamente bello e al di sopra del bello”. È questo l’elogio della bellezza divina che lo Pseudo-Dionigi Aeropagita fa nella sua opera De divinis nominibus (IV, 7), allo scopo di dire “qualcosa” circa l’essenza di Dio, pur essendo pienamente cosciente della sua assoluta ineffabilità. Si tratta, però, di una Bellezza essenziale, “divina” in quanto applicabile alla divinità in genere ma non propriamente trinitaria, cioè predicabile delle singole Persone divine.            Questa Bellezza essenziale, sorgente del bello sensibile, affonda le sue radici nella filosofia greca. Per Platone, infatti, l’idea-Bellezza, necessaria, eterna, immutabile, preludio del Bene (cioè di Dio), si riflette nel mondo sensibile sotto il segno dell’unità, dell’armonia, della misura, della proporzione. Per Aristotele “bella” è la natura, cioè il mondo sensibile: il suo concetto di bellezza, pur non riferendosi ad una realtà “metafisica”, soprasensibile, rimanda necessariamente a quell’Atto puro, Motore immobile, Causa finale che ha ordinato sapientemente il cosmo.            Questo “matrimonio” indissolubile tra ciò che è “bello” e Dio, celebrato solennemente in particolare dalla teologia medievale e scolastica, comincia ad entrare in crisi in seguito alle scoperte scientifiche dei sec. XVI-XVII. Offrendo un’immagine sempre più meccanica del reale, la scienza fa svanire definitivamente quell’aura di sacralità e di mistero che da sempre aveva caratterizzato l’universo sensibile. In ambito estetico, infatti, il “bello naturale”, opera di un qualche Principio ordinatore del mondo reale, è affiancato e progressivamente dissolto nel “bello” artistico, un prodotto esclusivo dell’uomo moderno che, in quanto “conoscitore”, si proclama anche (arditamente!) “padrone” dello scibile acquisito.Questo mondo, però, che egli sempre più conosce e “possiede”, gli si rivela con un volto dai lineamenti “ambigui”: da un lato appare “raggiante” per l’armonia, l’equilibrio e la perfezione con cui sembra essere modellato, dall’altro “oscuro”, segnato dal limite, dalla caducità, dalla sofferenza, dal dolore. Di fronte a questa innegabile “verità” della creazione, un concetto puramente armonioso di bellezza non è più sufficiente. La “letteratura estetica” di fine ‘800, da Dostoevskij a Baudelaire, grida che non basta più un Dio che si fa “garante” dell’imperturbabile bellezza greca: meglio crederlo “morto”. Così l’uomo, creandosi un’immagine di perfezione, un ideale a cui sottomettere il reale, si rifugia nell’irrazionale, nel mero estetismo: la via pulchritudinis, da sempre ponte tra il divino e l’umano, diventa via di menzogna, di apparenza, di seduzione, di male. La rivelazione cristiana ha sperimentato fortemente questo paradosso nel mistero della passione di Cristo: a Lui, infatti, la Tradizione attribuisce due passi veterotestamentari che, messi a confronto, sembrano fotografare l’ambiguità della bellezza appena evidenziata. Il primo è “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45, 3) e il secondo “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi (Is 53, 2). Con una singolare analogia musicale, s. Agostino, nella sua Epistola Ioannis ad Parthos (IX, 9), paragona queste due affermazioni scritturistiche a due “trombe”, suonate in modo diverso da uno identico Spirito: esse, dunque, non sono “dissonanti”. Interrogando, poi, l’apostolo Paolo per farsi spiegare la loro perfetta “armonia”, dice: “Suoni la prima: Bello più bello dei figli degli uomini: essendo nella forma di Dio, non credette che fosse una preda l’essere lui eguale a Dio. Ecco in che cosa egli sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche la seconda tromba: Lo abbiamo visto e non aveva bellezza né decoro: questo perché egli annichilò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini (Fil 2, 6-7). Egli non aveva né bellezza né decoro per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità. […] Non guardare te stesso, per non perdere ciò che hai preso; guarda a colui dal quale sei stato reso bello”.La riflessione estetica cristiana non ha, quindi, rigettato la filosofia greca del bello, anzi, illuminandola con la luce della fede, l’ha perfezionata conferendole una profondità e un realismo assolutamente unici. Nella persona di Cristo, infatti, il divino e l’umano, “le cose del cielo e quelle della terra” sono rappacificate: Lui è l’unica via lungo la quale bellezza e verità possono camminare insieme, pacificamente. Paradossalmente ma realmente è il suo volto sfigurato l’immagine della bellezza veramente divina: la bellezza dell’amore che arriva sino alla fine (mortale), che esce da sé (estatica), che s’abbassa (kenotica) e si dona gratuitamente (agapica). Solo una tale bellezza si rivela più forte della menzogna, della caducità, del limite e della morte. Ecco la bellezza veramente “divina”, personale, trinitaria: una bellezza crocifissa, che dobbiamo imparare a vedere e, soprattutto, ad incarnare.   fr. Giuseppe. Maria. Angelino. O. Carm.