Darass&Dalndan

narrativa&poesia_umorismo leggero

 

AREA PERSONALE

 

TAG

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Ottobre 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
  1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 18 19 20
21 22 23 24 25 26 27
28 29 30 31      
 
 

FACEBOOK

 
 

 

« Antonino  kell ser »

Ksanta

Post n°14 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da polilitio

§§§

Ksanta Dream Room

*** 

** 

*

  

*

**

***

Maks di Angelo Leandro e Ettore

§

Il cane di Don Michele era enorme, nero, possente, e data la sua stazza a volte ne combinava di cotte e di crude.

Il parroco, che quanto a mole non scherzava certo, lo chiamava Vuojra, Borea, il freddo e impetuoso vento dei mesi dell’inverno.
E l’ inverno era davvero aspro, lungo e freddo a Polilitio.
Già a settembre si avvertiva un’aria fresca, che diventava fredda a ottobre, man mano che arrivava novembre, pieno di nebbia e d’una pioggerella uggiosa.

I contadini fra settembre e ottobre svinavano, nelle vigne al fiume, presso il Verrino e il Trigno, dove i fiumi si allargavano in ampi meandri pianeggianti e ghiaiosi ed il clima era sensibilmente più mite.
Ne ricavavano un vino scuro piuttosto aspro, duro come le morge ed un bianco altrettanto deciso.

Non erano certo prodotti enologici all’altezza di certi vini toscani o piemontesi, pugliesi o siciliani, ma i produttori polilitici ne andavano orgogliosi, come se fosse vino della vite stessa dei figli di Noè.
La vendemmia spesso si trasformava in cerimonie dionisiache, con pranzi a base di maltagliati al sugo di carne di maiale, ossia fatto con le salsicce conservate nella sugna, che potevano conservarsi fino a ottobre, oppure con ventresca, sopressate e caciocavallo, pane saporitissimo dall’aspetto di grandi pagnotte da tagliare a grandi fette abbracciandolo e stringendolo bene al petto, tanto che le donne ne erano tutte infarinate, frutta fresca, fichi e uva della vigna e grande euforia.

Una euforia controllata e quasi d’ufficio, visto che tutto era finalizzato ad un lavoro di raccolta comune, pulizia dei recipienti, spremitura dell’uva e preparazione del fuoco per la cottura lenta e meticolosa del mosto.
Un errore anche leggero poteva costare caro.
Tutti quelli che hanno a che fare a qualsiasi livello con Dioniso sanno che con lui non si scende a patti ingaggiando una lotta frontale, in cui lui sarebbe decisamente vincitore.
Con Dioniso vale il motto: poco o niente.
Chi non sa dosare il poco, è bene che si fermi al niente.
Dopotutto il vino, e i suoi fratelli, sono stati inventati per chi sa conservarne troppo e usarne poco, temendone gli effetti in caso di abuso.
Non sono stati inventati invece per quelli che, riconoscendone l’intrinseca ambigua pericolosità, vogliono distruggerne grosse quantità trangugiandolo come acqua di fonte.

Il primo è un atteggiamento philantropico rivolto a se stessi, è autophilantropismo, il secondo è vero, eroico, santo philantropismo spinto fino all’autolesionismo, all’autodistruzione.

Quando poi finiva ottobre, e le sue ottobrate, con cielo sereno e raggi di sole che ancora illuminavano le giornate, arrivavano le umide giornate di novembre.

La prima neve poteva cadere già, ma in genere se ne parlava a dicembre, quando gli abitanti del paese erano pronti ed equipaggiati per poter affrontare il cuore dell’inverno.

Natale arrivava alla fine di dicembre e vedeva il paese, con le sue luci fioche e le case sovrastate dal fumo azzurro della legna di quercia, di leccio, di faggio e d’abete, coperto di neve candida e gelida, caduta e non ancora trasformata dalla borea in dune variegate, spesso addossate alle case fino a chiuderne porte e finestre.

A dicembre la neve era frolla, morbida, potevi affondare fino alla cintola, e camminarci o saltarci sopra.
I ragazzi si divertivano a fare cose del genere.
La neve attutiva i rumori, le cadute non erano necessariamente rovinose e catastrofiche, perché improvvisate e realizzate con criptata perizia, senza la malizia e la violenza degli impatti dovuti alla velocità eccessiva.

Antonino amava l’inverno, la neve, il vento, le dune di neve e le tempeste di vento e nevischio, l refr e r vldrizz.


Nelle sere invernali, quando il fuoco avvampava sotto lo stimolo dell’attizzatoio, del soffiatoio, d r scssciatùr, e i tizzoni ardenti crollavano in una tempesta rossa e bianca di fuoco, con mille scintille, chiamate vecchie, che si precipitavano su per il camino rischiando di incendiare la fuliggine, i giovani del paese, alla luce d’una lampada a petrolio o acetilene, o d’una candela, d n croggn, prendevano da un ripostiglio le stecche di legno preparate per tempo.

Erano di legno d’abete, bianco e tenero.
Ne bagnavano la punta nell’acqua perennemente calda del cotturo, r kttur, sempre a disposizione e appeso ad una catena sul fuoco vivo, senza farsi vedere perchè quell’acqua era preziosa per altri usi, magari per cuocere le taccozze, o tacconelle, takkwnèll, speciale pasta all’uovo tagliata a quadrati, da gettare uno per uno sul bollore vivo dell’acqua, o la polenta, o qualsiasi altra cosa da lessare, e poi piano, per non spezzarlo, piegavano il legno in punta, fino ad ottenere la giusta curvatura.


Così, in casa, si preparavano gli sci, con legno rimediato da un falegname generoso, e magari già piallato, rifinito poi in casa, certo non sempre da mani assolutamente esperte.

La punta non sempre risultava curvata a dovere.

Ma erano gli attacchi la parte più vulnerabile.

Spesso erano male assortiti, con filo di ferro ed altro materiale rimediato alla meglio.
Ma sulla discesa dalla strada del ponte ventotto fino al Colle a Valle, dove il pendio non era nemmeno tanto ripido, c’erano proprio tutti, i ragazzi di Polilitio.

E si sciava prima sulla neve frolla, fino a quando questa non diventava capace di reggere il peso dello sciatore, facendosi soccia, poi anche sul ghiaccio, quando dopo qualche giorno e qualche squagliata dovuta al sole la superficie della pista non ghiacciava, rendendo la velocità più sostenuta.


La risalita si faceva a piedi, procedendo di fianco o a spina di pesce.
Non esistevano assolutamente impianti di risalita, nè ve ne saranno nel futuro, quando i giovani perderanno l’abitudine di inventarsi uno sport dal cielo, dal nulla, dalla neve e dal vento.




Quando il sole tramontava, si correva a casa, a riporre sci e slitte, zlitte.

Così passava l’inverno, fra questi passatempi sani, che univano il gioco all’esercizio fisico, il divertimento sportivo al lavoro, all’industriosità della costruzione degli strumenti stessi del gioco.

Nelle case gli attrezzi, gli utensili, i pochi giocattoli, spesso costruiti dagli stessi ragazzi o dai genitori, con l’aiuti degli artigiani, erano di legno, come le slitte, gli sci, le carrozze usate nella bella stagione.

Il metallo era presente come rafforzatore di giunti, come garante della scorrevolezza delle ruote, come fibbia e contenitore.



****





Ci fu però un inverno diverso da quelli abituali.

Dopo natale, che trascorse senza neve e senza il consueto freddo, venne un mese di gennaio dal cielo sereno e limpido con un sole tiepido, primaverile di giorno, tanto che il giovani del paese, smesse le slitte, lasciati gli sci negli abbaini, si riversavano nelle strade a giocare con gli espedienti poveri e ingegnosi di allora.

***

Cerchi di bicicletta da far girare con un bastone, carrozze di legno fatte di scatole e pezzi di legno, fionde.

C’era poi la lippa, i quattro cantoni.


Si giocava fino a tardi, la sera, come fosse estate.

***

Era una stagione assolutamente fuori della norma, un tempo sereno e mite che precedeva un’epoca fosca e drammatica, che stava per sopraggiungere in seguito ad un periodo di quasi militaresco letargo e che seguiva la grande guerra.




Una primavera irreale e fuori dal tempo permetteva intanto ai ragazzi di Polilitio di divertirsi con i loro giochi ingenui nelle campagne silenziose e illuminate a tratti da una luna bianca e muta, cheta come gli animali, dormienti nei loro giacigli e nelle loro tane, in quelle tiepide e inconsuete notti di gennaio.



****


Quando avevano limite i giochi, dormivano i giovani dentro le case sicure, con i parenti sereni, prima incuriositi da quell’evento dato da una primavera caduta nel cuore dell’inverno.

Dormivano le montagne e i colli, gli abeti e i pini, le querce e gli olmi, i cerri e gli arbusti.

Dormivano placidi gli animali nelle loro tane, nelle stalle, raggomitolati e caldi nelle loro pellicce sapienti nate per conservare il tesoro del calore.

Sognavano, sognavano, sognavano.

Sognavano i giovani la felicità e l’amore, una vita luminosa, non il successo e neppura la ricchezza, ma l’abbondanza dei mezzi, la capacità di risoluzione d’ogni avversità e problema.

Sognavano le ragazze la sicurezza e la tranquillità d’una vita senza dolore, d’una vita piena di gente felice, di feste, così rare a quei tempi di rigore, di povertà, di privazione.

Ma quelli erano anche tempi di sincerità e di lealtà, d’una felicità acquistata con il sacrificio e la rassegnazione, che non era resa, ma rinuncia e sopportazione in attesa dell’arrivo della soddisfazione dei desideri.

Sognavano gli animali una vita meno piena di paura, un avvenire più soddisfacente.
Ogni giorno per loro era come l’ultimo.
Non avevano garanzie, ma la speranza e la coscienza dell’appartenenza alla vita complessiva, che possedevano in pieno, dava loro la forza necessaria per vivere, per difendersi, per procurarsi il sostentamento.

Sognavano tutte le cose e tutte le case, gli alberi e i monti, la terra, l’erba e le piante tutte, il cielo e la luna, gli oggetti cari delle case.
La tina col maniero, la catena del fuoco e il cotturo, le sedie e la tavola della cucina, la legna da ardere, i vestiti.
Sognavano la gente che sentivano vicina di giorno, le loro voci, gli umori e gli odori, sognavano tante cose, anche l’amore e il benessere e speravano di realizzare i loro desideri.

Nella grande casa di Rocco dormivano le stanze già quasi tutte vuote.
Marta e Clio erano in America, con i mariti.
Il fratello maggiore, Giacomo, era andato a Roma.
Rocco si preparava ad andarsene.
Era ormai questione di giorni.

***

 

**

 

*



Un pomeriggio di qualche tempo prima, durante un novembre piovoso, Rocco si era soffermato accanto alla finestra della bottega.

Il vano serviva da negozio di oreficeria e da banca.

Era di dimensioni non grandi, con mobili confortevoli e funzionali in legno, con una scala sempre di legno che si inerpicava fino a raggiungere, attraverso un pertugio alquanto stratto, il piano superiore della grande casa.

Rocco guardava la strada grigia, umida, il selciato di grossi sassi tondeggianti umido d’acqua piovana, la casa di fronte come un muro di tristezza scalcinata e si sentiva invadere da un vuoto sentimento che era in effetti un’ assenza di sentimenti, a dire il vero.


Eppure era un sentimento di assenza e di morte, di tristezza e di squallore.
Era come se il suo paese, il caro Polilitio, non potesse più fornirgli sentimenti, sensazioni gradevoli, sorrisi e divertimenti, ma solo preoccupazioni e tedio, tedio senza scampo.

Quel giorno Rocco provò quasi una sensazione di terrore, come se fosse circondato dalle mura alte d’un carcere da cui assolutamente dovesse evadere.
Fu allora che decise di andarsene, di lasciare i padre e la madre per raggiungere Giacomo nella capitale.
Frattanto il tempo galoppava, pur nelle difficoltà della vita sembrava che corresse forsennatamente.


Max, Il grande cane nero di don Michele pareva diventare più grande e più forte ogni anno che passava.

Ettore e Leandro, i nipoti dell’arciprete, ne erano come i custodi.


Ettore, il fratello maggiore, era stato alpino durante la Grande Guerra ed aveva imparato nel Veneto ad amare le grandi montagne delle Alpi.

Avevavo un altro fratello, Angelo, che studiava legge a Napoli, era una specie di genio e frequentava il salotto di Benedetto Croce il mercoledì.
In quel giorno si riunivano nella casa del filosofo liberale i giovani più promettenti della cultura partenopea, per discutere e parlare delle loro idee, dei loro progetti letterari e intellettuali.

Fra questi, Angelo.
Il fratello Leandro studiava medicina sempre a Napoli, con risultati eccellenti.

Il salto da Polilitio a Napoli era notevole.
Il piccolo paese molisano era silenzioso, quasi sonnacchioso, immerso in autunno e d’inverno in una nebbiolina azzurrognola provocata dalla legna che bruciava nei camini.

La città campana invece brulicava di rumori, di voci e di una variopinta vita che pareva non dovere esaurirsi mai.

Il carattere dei napoletani, poi, vitale e chiassoso aumentava la vitalità quasi esasperata della metropoli.

Le strade strette piene di botteghe d’ogni genere, lastricate di grossi blocchi sbozzati dagli scalpellini, piene di gente vociante, favorivano lo scambio di sguardi, parole, impressioni, insomma il contatto comunicativo fra i passanti.

Un pomeriggio di febbraio giunse un cablogramma all’ufficio postale di Polilitio.
Angelo si era ammalato gravemente pochi giorni prima, era rapidamente peggiorato ed infine era morto.

Giorni dopo giunse a don Michele un biglietto di condoglianze del senatore del regno Benedetto Croce.

La perdita di Angelo, giovanissimo, fu un colpo assai forte per la famiglia.

La mamma, Rosa, ne fu assai colpita e conservò per sempre il ricordo del dolore immenso di quei giorni.

Max a volte sembrava aspettarlo, accanto al camino, dove Angelo sedeva dopo pranzo.


Si accucciava accanto alla sua poltrona preferita, quella di cuoio con lo schienale alto.


E quando si apriva il portone, correva verso il guinzaglio appeso all’uscio e si agitava tutto, sperando in una camminata bella e lunga come le passeggiate con Angelo.


** Ma Angelo non ritornò più, e l’ultima volta che era stato a Polilitio aveva lasciato la sua giacca di velluto grosso sopra lo schienale della poltrona di pelle e don Michele la lasciò lì, per un tempo lunghissimo che pareva non finire mai, mentre dalla finestra il mandorlo e il gelso cambiavano foglie e colore.

Veniva primavera e l’aria s’addolciva, era più chiaro il cielo, al tramonto le rondini garrivano e schiamazzavano correndo a frotte intorno alla grande casa delle fonticelle, il rione sito a scirocco.

Ma il suo Angelo non ritornava.

Veniva autunno e si vendemmiava nelle giornate brumose piene di nebbia e nelle orrobrate luminose e terse.

Veniva inverno e i ragazzi giocavano col gelo.

Tornava estate e Angelo non ritornò.

Non ritornò più e i fratelli non lo aspettarono.
Nemmeno più lo aspettò don Michele, che tolse la giacca dalla poltrona e la diede a Guido.

“Portala tu, mettila quando hai freddo.
Era del mio Angelo.
Ma ormai non serve più a lui.
E’ rimasto a Napoli ... al mare non è mai freddo ...
Gli angeli sono con Dio ... e non hanno bisogno di vestiti
pesanti ...”.

Guido ringraziò, piegò la giacca con cura e la portò a casa.
La sistemò nell’armadio di legno pesante nella camera da letto, facendosi il segno della croce.

Nessuno ormai lo aspettava, il giovane Angelo, che studiana a Napoli e frequentava un filosofo abruzzese.

Ma quando si apriva il portone, Max correva verso il guinzaglio, agitandosi tutto, perché sapeva che un giorno da Napoli, la bella città del mare, sarebbe tornato il suo padrone, portando una ventata di aria fresca mentre la porta si richiudeva alle sue spalle e sarebbe andato verso la poltrona a prendere la sua giacca di velluto pesante a coste, con tante tasche.

Perché da qualche mese anche al mare faceva tanto freddo.
E poi lo avrebbe festeggiato, subendone l’irruente affetto.

Sarebbero usciti, poi, per passeggiare fra gli alberi e le case, fino al teatro sannita, dove recitavano i tragici certi antichi attori coturnati.

E mentre Medea avrebbe pianto la triste fine del suo amore per Giasone, avrebbe appoggiato piano la sua grande testa sulle gambe di Angelo e si sarebbe addormentato come fanno i cani, con un occhio solo.


Solo Max sapeva aspettare, con fiducia, sicuro che sarebbe ritornato a sentire Sofocle con il suo Edipo al teatro, con il suo caro Angelo.



**

Quando venne l’estate la campagna fatta di monti in declivio e di colli tondeggianti di Polilitio divenne verde per l’erba nuova e i grano, la lupinella e i fieno.
Gli alberi ripresero elegantemente il vigore delle foglie brillanti e ondeggianti al vento e al sole.
Tutto intorno era festa di vita e di enegica forza naturale.

Rocco e il fratello maggiore, Giacomo, erano tornati da Roma.
Nella cucina della grande casa c’era una chiara luce, il sole dall’alto rischiarava l’ambiente.
Rocco scendeva dalla stanza sua, posta nei piani superiori, sotto il belvedere, e si faceva la barba accanto alla finestra con il gradino alto.

La stanza di Rocco era confortevole e ariosa, con due comodi letti ed un armadio di legno incassato nel muro.

Nell’armadio c’erano i suoi vestiti usuali, quelli che metteva in paese, e gli attrezzi sportivi.
Racchette da tennis, soprattutto, ed altri oggetti.

Tutto era come se dovesse restare lì o ritornare da un giorno all’altro, anche se non sarebbe mai ritornato se non per qualche giorno appena di tanto in tanto, d’estate o a Natale.

Vederlo mentre si sbarbava, sorridente e pieno di buon’umore era una festa.

Riconciliava con la vita.















d Le verità bisbigliate.

Antonino studiava a Campobasso, città a misura d’uomo, nei pressi di Boiano, nel collegio nazionale Mario Pagano.

In collegio la vita era regolata da un orario giornaliero sempre uguale.
La domenica mattina invece di entrare in aula per assistere alle lezioni si restava a svolgere i compiti nello studio.

E questa era l’unica variazione.

Le giornate si avvicendavano lente, fra versioni di latino, greco ed esercizi di matematica, i quaderni si riempivano di lunghe colonne di analisi grammaticale e logica, riassunti, temi e traduzioni.

I convittori si ritrovavano tutti insieme almeno tre volte al giorno.

A colazione, a pranzo e a cena nella grande sala del refettorio, seduti in diverse decine di grandi tavolate, divisi per squadre, i ragazzi pranzavano e parlavano per almeno un’ora e mezzo al giorno.

Per il resto si stava in silenzio a studiare, di notte si dormiva dalle nove di sera alle sei e mezzo di mattina.

Un giorno a pranzo il vicerettore volle chiedere, chissà per quale ragione, quali fossero le città spagnole che si erano alleate con Annibale contro i Romani, durante le guerre puniche.

Tutti tacevano, nella grande sala, quando si sentì una voce squillante gridare: ... Sagunto e Cartagena ...

Era esatto, ma Antonino fu ammonito, rimproverato per aver gridato la risposta, per aver parlato a voce troppo alta.

In un paese che si preparava alle urlate totalitarie, ai programmi roboanti d’una destra erede dei sogni massimalisti ed estremisti della parte antagonista, si rimproverava un giovane che aveva dato la risposta giusta con la ‘voce sbagliata’.

E così per tutta la vita quel giovane seriamente preparato e studioso avrebbe ricordato la città di Sagunto e l’altra, Cartagena, dal nome affine a quella della patria di Annibale

§§

§

 
 
 
Vai alla Home Page del blog
 
 

INFO


Un blog di: polilitio
Data di creazione: 12/02/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

cra12cuore.802desap.libfernanda.orfeielucchese2011polilitioiunco1900vaudreytitilinawColombina2002giusipi2007genndiacovoBovajanod_RSAnimeMagiche
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963