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Antonino

Post n°13 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da polilitio

§

§§

L’anno scolastico era già finito, e si era concluso con gli esami di maturità, brillantemente superati, e Antonino era rimasto solo nella sua cameretta, in attesa di lasciare il convitto.

Aveva scritto sopra il davanzale il suo nome, inciso sulla pietra bianca.

Sarebbe rimasto lì per molti anni, quel nome inciso sulla pietra, insieme a molti altri, compreso quello di suo figlio che molti anni più tardi doveva essere ospite di quel collegio e si sarebbe affacciato alla stessa finestra, per vedere la stessa strada alberata che portava ad una scuola che poi si sarebbe chiamata liceo scientifico.

Nel collegio c’era il liceo classico, e chi lo sceglieva non usciva praticamente mai dal fabbricato, se non per qualche passeggiata organizzata dalla direzione, sotto la guida degli istitutori, giovani universitari che sorvegliavano i convittori durante le ore dello studio pomeridiano, della notte, del pranzo e della ricreazione.

Sempre, tranne durante le ore di lezione a scuola.

***

Il figlio di Antonino sarebbe nato più tardi, molto più tardi, dopo decenni di cambiamenti politici rivoluzionari, dopo l’affermazione socialista in Italia, la risposta fascista, la rivoluzione russa e la grande guerra.

E tante, ma tante altre cose.

Antonino per ora scriveva il suo nome sul davanzale della finestra del convitto nazionale Mario Pagàno, nella città più importante del Molise, e pensava che un’altra volta avrebbe dato la risposta esatta, anche a costo di alzare troppo la voce.

Una volta dati gli esami di stato, si ritrovò a Polilitio, dopo otto anni di collegio, pronto a ricollegarsi con la realtà sociale del suo piccolo ma complesso paese.

Avrebbe voluto studiare legge, diritto, ma sembrava più opportuno incominciare a lavorare, trovarsi un posto nella pubblica amministrazione.

Scelse di provare nelle amministrazioni comunali, ma dopo qualche tempo di inizio fruttuoso e positivo, le svolte politiche di Roma cominciarono a farsi sentire.

***
C’era aria di guerra da un bel pezzo.
Guerra coloniale già per tutto il primissimo novecento.
E si preparava la continuazione della grande guerra, con gli stessi protagonisti, rinnovato il frasario e il complesso delle ideologie e degli intenti, ma con gli stessi obiettivi imperialistici ed egemonici di allora.

Così Antonino dovette partire per la scuola allievi ufficiali, nel settentrione, e prepararsi a dare ordini ad un plotone di giovani soldati italiani nell’Africa, in Libia, in Eritrea ed in Somalia.

Prima di partire il padre, Luigi, lo abbracciò forte, senza dire niente.
Giovanna, la madre, gli raccomandò di non esporsi troppo al pericolo, di avere riguardo per sé ed anche per gli altri.

“Ritorna a me, figlio mio ...”

Antonino era il maggiore di sei tra fratelli e sorelle, e sarebbe stato meglio se quella guerra non ci fosse stata, ma ormai le nazioni egemoni erano tristemente orientate a risolvere ogni questione di coesistenza con la forza piuttosto che con i pacifici metodi politici, economici e commerciali.

In Africa nelle trincee scavate nella sabbia del deserto i soldato stavano per ore in completa inattività.
La noia era mortale.
Si passava il tempo parlando, senza avere notizie d’alcun genere.
Pochi erano i fogli stampati ed i libri erano introvabili.

Qualcuno rileggeva continuamente certe stampe sgualcite, rileggeva le lettere dei cari, guardava le loro fotografie con le espressioni a volte sorridenti a volte serie.

Il cielo era sempre sereno, il caldo secco e ardente, le dune gialle cambiavano di posizione come le onde secche d’un mare lento ma mobile e sempre diseguale.

Di notte il freddo era glaciale, si correva il rischio di rimanere davvero congelati, sebbene non si trattasse del freddo della neve e del ghiaccio, ma d’un freddo irreale, eppure micidiale, dovuto alla fuga improvvisa del sole e del suo effetto luminoso e torrido.

Poi vennero le sconfitte di Rommel, gli inglesi passarono alla controffensiva, gli italiani, fragili alleati, dovettero arrendersi e quella guerra d’Africa volse al tramonto.
Ma non finì il calvario dei soldati, che vennero portati in India ed in altre zone controllate dall’impero britannico, come prigionieri di guerra.

Dopo una lunga e faticosa traversata lungo l’oceano indiano, Antonino giunse nell’India settentrionale, proprio sotto le alte e innevate montagne dell’Himalaja, il tetto del mondo.

Il campo era grande, formato di baracche di legno e circondato da filo spinato.
Era ben sorvegliato e fuggire era impossibile.
La distanza enorme dall’Europa, poi, francamente scoraggiava qualsiasi voglia di allontanarsi.

Gli inglesi poi non erano, in guerra almeno, molto più affabili dei nazisti, e le punizioni per i tentativi di fuga erano durissime, quando non si restava colpiti a morte sul fatto.

Cosa fare, nei lunghi mesi della prigionia?

Per prima cosa, Antonino smise di fumare.
Gli sembrava troppo umiliante cercare continuamente cicche e sigarette, quasi mendicarle, raccattare addirittura come vedeva fare le cicche spente per terra.

Così abbandonò questo vizio.

Poi cominciò a procurarsi dei libri e dei quaderni.
Libri di inglese, grammatiche e libri di esercizi.
Studiava la lingua dei suoi ... nemici, e se ne appassionava, fino a innamorarsi della pronuncia, delle parole che memorizzava facilmente.

Gli inglesi avevano creato una selezione di almeno settecento vocaboli essenziali, conoscendo i quali si poteva praticamente possedere la base per la conoscenza e la comprensione di quella lingua che stava diventando universalmente conosciuta.

Certo, partendo da quella conoscenza minima e trovandosi in un contesto linguisticamente vivo, quel patrimonio poteva essere continuamente arricchito.

Dopo l’inglese si interessò al russo, all’indiano.

Annotava le parole nei quaderni che si procurava con una grafia nitida, chiarissima, comprensibile e bene impostata.

In questo modo passarono vari anni, sotto l’Himalaja.

In primavera e d’estate i prigionieri abili nel nuoto presero a sbarrare con grossi sassi e terra il fiume che passava presso il campo, creando uno sbarramento che rassomigliasse ad una piscina.

Qui i giovani nuotavano e imparavano il tipo britannico di nuoto: il crawl.

Occorreva battere tre volte le gambe, non del tutto tese, ogni bracciata destra e sinistra e respirare inclinando la testa, che andava mantenuta sottacqua, quando il braccio sinistro girava lungo il fianco ed il destro affondava avanti nell’acqua.

Era il ritmo del valzer, del dattilo antico, il metro dell’odissea, dell’iliade, d’Eneide.

Il nuoto così assumeva solennità di metro letterario, cadenza di esametro dattilico.
Il nucleo metrico minimo si poteva anche variare, portando a quattro le battute dei piedi, ma ne perdeva tutta l’eleganza dell’insieme.

Così trascorreva il tempo Antonino, aspettando il giorno del ritorno al suo paese molisano.


***


Quella terra così lontana, la terra degli elefanti addomesticabili e di Siddharta, piena di terra e di polvere gialla più che di rocce bianche, sarebbe rimasta per sempre nella sua mente e nel suo cuore, come l’Africa e le dune del deserto.


I giorni trascorrevano lenti, dall’ora della sveglia, all’alba, fino al tramonto.
All’orizzonte si vedevano le grandi montagne dell’Himalaja, innevate e biancastre, spesso sovrastate dalle nuvole portate dai monsoni verso l’entroterra, in Cina.

Durante le stagioni più calde gli inglesi acconsentivano che gli italiani, marciando per diversi chilometri, si avvicinassero al grande fiume a nord.
Qui poco alla volta era stato costruito uno sbarramento, una specie di diga di sassi e fango, simile a quelle costruite sapientemente dai castori nei freddi fiumi del nord, e l’acqua aveva formato un laghetto ove era possibile nuotare agevolmente per un lungo tratto, come in una grande piscina.

Era qui che Antonino aveva imparato lo stile anglosassone dell’attività natatoria: il crawl.

Durante le lunghe ore del pomeriggio, quando non c’erano impegni sportivi, diciamo così, svolgeva un intenso studio linguistico.
Imparava l’inglese, il russo, l’indiano con un intenso impegno scritto e di memorizzazione.

Avrebbe ricordato a lungo quell’impegno di studio e di pace.

E avrebbe anche conservato i libri faticosamente ottenuti, i quaderni compilati con bella e chiara grafia.

Quando, dopo alcuni anni, finì la guerra, giunse con la nave a Napoli e sbarcò in quella città piena di sole e di vita.

Con il pesante sacco giunse in treno fino a Polilitio, dopo varie coincidenze, e ritornò a cara.

Varcata la porta della casa sotto il monte, vide la madre e restò quasi senza parole.
Si abbracciarono.
“Tonin ... Tonin ... figlj@ mìa ... “

***

I tempi erano magri, non c’era da stare allegri, ma quella sera la mamma gli preparò la polenta come piaceva a lui, ed il sapore della farina dorata col sugo ed il cacio di pecora duro di crosta restò indimenticabile, dopo tanti anni di prigionia.


Così Tonino fu di nuovo nel suo paese che dominava tutto il Molise, dal Matese fino alle colline del molise termolitano.

Era possibile guardare verso l’adriatico e vedere un mare di terra dal colore cangiante in base alle stagioni e tutti i paesi come galleggiare, simili a navi.

Campobasso spiccava per grandezza su tutti, con due ali di case e Monforte al centro, come la carlinga d’un aereo.


***


Polilitio non era il paese più in alto, ma con i suoi 1027 metri e la sua posizione centrale era come un punto naturale di dominio visivo nella sua terra.

Molti anni prima i Sanniti lo avevano scento come capitale religiosa e politica della loro confederazione e vi avevano costruito un centro sacrale con un teatro, templi ed altri luoghi di culto e di attività politica e culturale.

Le morge del paese avevano rappresentato un baluardo naturale e come una fortezza non solo militare, ma metaforica e simbolica.

Era necessario per Tonino, a questo punto, a quasi trentaquattro anni, trovare lavoro.

Una mattina di aprile di sole terso e dall’aria tiepida, scese dalla sua casa sotto il monte all’ardichiana, la piazza principale con il monumento ai caduti, una bella statua di guerriero sannita in atto di fronteggiare un invisibile avversario.

Stava ammirando la statua, appoggiato alla casa di una sorella minore, quando lo chiamò Rocco.
‘Rocco ...!’
‘Come stai, Tonino ...?’
‘Bene ... e i tuoi?’
‘Stiamo abbastanza bene. Perché non vieni a pranzo da me, oggi ...?’

Tonino accettò.
A casa di Rocco conobbe così la sua futura moglie.
Non passò molto tempo e Ines e Antonino si fidanzarono.

Erano la coppia più bella e gradevole di Polilitio.

**

Lui, aitante ed atletico, era il nuovo segretario del Comune, lei minuta ed elegante, sempre affabile con tutti, amministrava la casa, si occupava degli anziani genitori, dopo la partenza di Rocco.

Si erano sposati in dicembre, alla fine del mese, ed erano partiti in viaggio di nozze a Napoli.

L’anno successivo, in ottobre, era nato Genni.

Era un bambino forte e man mano che il tempo passava si rivelava sempre più resistente.
A tre anni imparò a nuotare nel torrente vicino al paese.

Alla stessa età aveva i suoi sci di legno chiaro, i più belli del mondo.

Sciava a volte a fianco di Antonino.




***







***


La neve era spesso altissima e sovrastava la loro altezza, ma nell’insieme l’inverno era lieto e gradevole per la famiglia.

Al mattino la nonna gli dava una caramella squisita, incartata con cellophane rosso.

Il nonno si intratteneva spesso con lui.



***

**

*







Aveva decine di amici e in paese tutti gli volevano bene.

Per tutti lui era ... ‘r figl d r’scrtarij@, ... il figlio del segretario ...’ .

Passarono così anni di vera felicità, accanto al fuoco, leggendo la grande enciclopedia, nuotando e sciando.

Genn, come lo chiamavano i paesani, era l’amico di tutti ed era di casa in ogni casa.






e


In paese, dopo la liberazione, ferveva l’attività politica per trovare una persona adatta a ricoprire il ruolo di sindaco, il primo sindaco dopo il regime fascista.

Si trovava in paese allora, per una breve vacanza, Ettore, il fratello di Angelo e Leandro.

Dopo la Grande Guerra, cui aveva partecipato da ufficiale dell’Esercito Italiano, era rimasto nel Veneto, a lavorare in una banca di Venezia e ogni tanto ritornava a Polilitio, per dare un’occhiata alle sue case, alle terre, alla famiglia.

Era uno spirito libero, con idee vicine al socialismo ed intrise di qualche principio anarchico.

In paese si era trovato insolitamente bene, forse anche per l’avanzare dell’età, ed era stato preso da una specie di entusiasmo autenticamente politico che lo spingeva ad interessarsi con rinnovato amore e con passione rafforzata del suo paese, così affamato di possibili interventi capaci di migliorarne l’aspetto, la funzionalità.

Le strade erano sommariamente pavimentate, d’inverno la neve, sciogliendosi, formava una poltiglia che impediva ai passanti di transitare normalmente.
I ragazzi sfruttavano la situazione, nei giorni di scirocco in cui la neve si scioglieva, per formare piccole dighe e sbarramenti con la neve stessa e trasformare la strada in un fiume in miniatura con tanti piccoli laghi artificiali.

La neve era la risorsa più grande per i giochi dei bambini, ed anche in parte dei giovani, e proprio quando si preparava a partire per ritornare in cielo, regalava un ultimo gioco, quello del fiume e delle dighe.

Poi c’era l’annoso problema dell’occupazione.

I giovani, e non solo i giovani, stentavano a trovare lavoro.

Molti emigravano all’estero, nel nord dell’europa, o andavano a Roma, per occuparsi nell’edilizia o nella ristorazione.

Insomma, Ettore sentiva che doveva restare lì, e rinunciò al suo lavoro a Venezia per restare a Polilitio, presentarsi alle elezioni con la parte progressista, vincere e svolgere il suo mandato di primo cittadino.


***

Furono anni di impegno e di grande lavoro.
Per la prima volta il paese ebbe la corrente elettrica e l’acqua nelle case.
Ma il progresso stentava a radicalizzarsi, ad estendersi a tutti i ceti.
Restavano residui di povertà nei ceti legati all’agricoltura.

I ‘cafoni’ non riuscivano a farsi padroni della terra, che restava in mano a pochi proprietari, e stentavano con un lavoro assai penoso e faticoso per raggiungere le terre, lontane spesso dal paese.

Ettore non fu rieletto
Restava tutto il giorno chiuso nella sua grande casa a valle del paese, a scirocco.

Leggeva i suoi libri, lontano dal mare di Venezia, curava i suoi cani.
Ne aveva un bel numero e li portava a caccia, quando era consentito e le condizioni generali erano favorevoli.

Poi un giorno il nipote non lo vide e non lo sentì.
Entrò in casa, in quel palazzo così grande, e lo trovò morto fra i suoi cani che lo custodivano e uggiolavano, forse per svegliarlo.

Ma Ettore non si svegliò più e Leandro, il medico militare, restò il solo dei tre fratelli nipoti di Don Michele.

Portò i libri del fratello nella casa sua, che era più piccola e si affacciava sul Corso e li mischiò ai suoi, in una stanza ariosa piena di scaffali che era il suo studio e la sua biblioteca.

Qui zio Dottore, come lo chiamava Genn, trascorreva nella lettura o dedicandosi alla pittura le ore pomeridiane e serali, in una vita solitaria e silenziosa, visto che nemmeno lui si era mai sposato.

D’inverno si recava a Napoli, dove si tratteneva fino all’inizio dell’estate.

Aveva l’abitudine di realizzare tutta una serie di lavori utili per la casa utilizzando qualsiasi scatola di latta u di cartone.

Precorreva il moderno bricolage.

Aveva partecipato a tutte le guerre del ‘900, ma da ufficiale medico, non da soldato combattente.


***

La politica in paese, dopo la parentesi romantica di Ettore, era andata nelle mani tradizionali dei liberali e dei cattolici, che si affrontavano con liste simboleggiate da due animali e si alternavano nell’amministrazione del paese.





La parte cattolica era controllata da un maestro deciso ed abile.
Quella liberale da un possidente astuto ed energico.










Le campagne elettorali erano caratteristiche, a quei tempi.

Gli animi si accendevano per le persone e pei i simboli.
Vanghe, arnesi agricoli vari, falci, martelli ed altro si impegnava in competizione con vacche ed altri amimali, fra cui la timida e spaurita colomba.

Pettegolezzi e verità bisbigliate si avvicendavano sulle labbra dei paesani.


§

“Kwand ka ... nd prmett kkiù ... puozz jttà r vlen ... vattaffaskwartà...puozzavérkundr...scimbis...sciutammò ... “ .

Le invettive, a tratti crude e rudi, ma sempre solenni e austere, pronunciate nel dialetto pretavnnannes tipico di Polilitio, si susseguivano come benedizioni alla rovescia, apotropaiche e catastematiche, mai veramente cattive, ma spesso, ancora più che perfide, malvage.

Erano non tanto profetiche, quanto frutto di una fatale constatazione.

La sera nella piazzetta del paese antico, fra la cabina elettrica e l’orologio sempre in riparazione e mai in orario, prima della salita che portava alla chiesa, sotto le morge dei corvi e del castello, accanto alla casa di Genn, in una piccola casa sempre della sua famiglia, si radunava il paese per ascoltare i comizi.

Faceva luce una enorme lampadina che illuminava, come il Sole di giorno, tutti, comunisti, cattolici, clericali, atei e liberali.

A turno gli oratori si avvicendavano sul balconcino della piccola casa all’angolo, una volta usata come farmacia, ora come garage per la topolino blue della famiglia.

Un gioiellino.

Genn fin da piccolo aveva certamente asoltato discorsi politici d’ogni genere, sebbene accesi dalla passione spesso troppo interessata e calcolatrice della competizione elettorale.

In comune, quando andava dal Padre, ascoltava parole del gergo amministrativo e fin dai suoi primi anni aveva avuto familiarità con l’amministrazione del Comune.

E tuttavia, mai era nata in lui la passione per la vita politica, per l’amministrazione.

Aveva intuito l’esistenza d’un divario notevole, d’uno scarto, fra quanto l’umanità diceva, proclamava, prometteva e quanto poi effettivamente realizzava.


E questo divario lo aveva convinto a non dedicarsi alle attività politiche e amministrative, se non in caso di effettiva necessità.


Preferiva altre attività, oppure semplicemente girovagare per la grande casa o anche intrattenersi con gli amici.

Stranamente tutte le sue attitudini erano precipuamente politiche, eppure nonostante questo egli non sarebbe diventato un politico, almeno nella comune accezione.

Non avrebbe mai avuto quel diabolico carisma sociale, quella segreta capacità di promettere, quel certo facile e mellifluo fascino delle parole che avevano i politici di mestiere, o di professione, a seconda del senso dell’umiltà personale.

Ancora non sapeva cosa avrebbe fatto ‘da grande’, e nemmeno poteva prevedere se mai lo sarebbe diventato, nel senso compiuto.

E tuttavia dalle sue letture, dai racconti, dagli affetti di famiglia di volta in volta si proponeva di fare l’ingegnere, ma non quello edile o meccanico, quello ... navale.

Oppure il medico, per impedire alla morte di rapire le persone care.

***
Nessuno, che non le avrebbe compiutamente svolte, avrebbe potuto ritenersi deluso ancora più di lui da simili professioni, anche dopo averle effettivamente professate per tutta la vita, date queste premesse.
Sarebbe andato incontro al più completo insuccesso, e del resto, come avrebbe potuto immaginare che avrebbe scelto, per

mestiere, proprio quell’attività che da sempre svolgeva, date le sue attitidini all’educazione dei simili?


Sarebbe rimasto per sempre nella scuola, che a dire il vero da studente sinceramente non aveva mai prediletto se non per la necessità di farlo dopo lunga dimestichezza, ma che avrebbe amato poi da insegnante e da bibliotecario.

D’un amore discretamente ben corrisposto, se non proprio sempre restituito con la stessa intensità.

***



... ... Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt ...

Sono fatte di pianto le cose e la vita ti tocca il cuore e la mente ...

Così scrisse Publio Virgilio Marone, il massimo poeta latino, nato a Mantova e morto a Brindisi.

... Mantua me genuit, calabri me rapuere,
me tenet nunc Partenope.
Cecini pascua, rura, duces ...

La sua tomba è a Napoli, città che amò quanto la sua natia Mandes, villaggio presso Mantua.

I terreni gli furono espropriati per effetto di quella politica di ricostruzione civile e agraria iniziata e realizzata da OttavianoAugusto dopo le lunghe guerre civili seguite all’uccisione di Gaio Cesare.

La dimestichezza di Virgilio con Mecenate e poi con lo stesso Princeps Ottaviano ne fecero il poeta quasi ufficiale della

Roma augustea ed il rappresentante di quella letteratura d’impegno dal forte connotato sociale e civile che occorreva proprio alla politica statale di pacificazione degli animi e ricostruzione dell’economia.

Non tornò più ad Andes, ma sempre la cantò e sempre la ebbe nel cuore e nella mente e in ogni occasione le api e i placidi animali della campagna, i ruscelli e gli arbusti, le umili tamerici, le canne fruscianti al vento gli furono cari.

L’anima di Publio era di vento, d’acqua e d’arbusti ed i suoi compagni, nei sogni, erano i comignoli delle case, con il fumo azzurro, le caprette bianche e i semplici pastori con le loro tenzoni e le loro canzoni.


A Polilitio la terra era importante.


***

Non era particolarmente fertile, tranne per la parte sistuata giù al fiume, r scium, dove l’aria era più mite e cresceva bene la vite, e tuttavia era fonte di attività, di reddito e dava importanza a chi la possedeva.

La famiglia di Rocco era molto ricca, facoltosa.

Era importante e benvoluta.


Chissà in quale mattina di aprile dolce e frizzante, con le strade deserte illuminate da un sole ammiccante e vicino, il capostipite di quella famiglia aveva avuto un’idea così brillante da farne una persona di successo, fortunata negli affari e nella vita.



Fatto sta che appezzamenti di terra e vasti boschi si erano accumulati per quella casata nei grossi fogli catastali di Lupone, grosso paese vicino a Polilitio.



Eppure, il possesso di tutto quel bene di Dio non aveva necessariamente e sufficientemente attratto i figli di Donatello e l’uno dopo l’altro avevano finito con l’andarsene in giro per il mondo in cerca d’un’altra fortuna che non sapesse di terra e d’alberi.


Antonino aveva sposato Ines ed era nato Genni, come lo chiamavano in casa, o Genn, come lo chiamavano in paese.

Il bambino cresceva forte, intelligente.
Amava i genitori ed i nonni e viveva felice in una specie di paradiso paesano e agreste.

Antonino gli insegnava a sciare, a nuotare.
D’inverno quando cadeva la neve a casa di Genn era festa.

Si preparavano sci, calzoni pesanti con scarponi e calzettoni.

Quando la neve cadeva a pel di gatto, il terreno si copriva presto, ma per sciare bisognava preparare bene con gli sci il fondo, passare e ripassare anche a spiga, perché la neve era frolla.

Fra il collavalle, nella zona di Col Ginestra, e la strada del Ponte 28, prima della casa di Giosi, sotto le case di zia Concetta e zia Ninuccia, nella discesa che arrivava fino al vallone di Castelluccio, si sciava tutto il tempo prima che facesse notte, senza le comodità di adesso, senza impianti di risalita.


Neve e neve, aria fredda e nevischio.

Ma quando c’era il sole era una meraviglia, un incanto.

Quando tornava a casa, Genn era coperto di ghiaccioli sotto la gola e sopra le scarpe.


Il montgomery avana che gli aveva regalato zio Rocco aveva una striscia di stoffa, sotto la gola, completamente ghiacciata.
Si metteva a sedere accanto al fuoco caldo e la sedia si tingeva di marrone, perché i pantaloni bagnati trasmettevano il colore alla paglia.

La cucina era accogliente, sempre piena di cose saporite.

Spesso era piena di ospiti, parenti ed amici.

Una sera d’inverno, stanco, Genn si era assopito a tavola ed il padre aveva preso una parte di salsiccia dal suo piatto, mangiandola velocemente.
Il bambino aveva osservato tutto, commentando fra sé:
“ ... papà m vò bben e z’é arrbbata la salgccella maja ...”.
Papà mi vuol bene, eppure ha rubato la mia salsiccia ...

Questo era il clima di quelle sere d’inverno a Polilitio, dopo le sciate e le serate calde nella cucina confortevole.

**

Quando le giornate cominciavano sensibilmente ad allungarsi e l’aria a farsi più tiepida, si avvertiva l’avvicinarsi della primavera.


§ §§

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