LE MIE MINKIATEscritti semiseri e altre sciocchezze |
AMICO FRAGILE
Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d'attenzione e d'amore
troppo, "Se mi vuoi bene piangi "
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo "Mi ricordo":
per osservarvi affittare un chilo d'erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.
E poi sorpreso dai vostri "Come sta"
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo "Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un'ora al mese di te"
"Lo sa che io ho perduto due figli"
"Signora lei è una donna piuttosto distratta."
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell'ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.
E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.
Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a vederle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedere come si chiama il vostro cane
Il mio è un po' di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.
E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.
Fabrizio De Andrè
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L'Osteria del Viandante
Post n°35 pubblicato il 09 Settembre 2007 da donnie.minkia
Ad accoglierti, sulla parete esterna, il bianco e nero di questa gigantografia. Di uomini corrosi e arrugginiti dal tempo, cronologico e meteorologico, durante una pausa del loro cammino intenti a distendere corpo e mente. Fissati nei loro brindisi, sembravano invitarti. E ti veniva voglia di entrare, cercare il loro tavolo, sederti con loro a bere un bicchiere pieno di vita e ad ascoltare racconti colmi di vino. L’ingresso dava sulla sala da bar. Bancone a destra, bottiglie e bicchieri in bella vista. Sembrava un bar, in realtà era la roccaforte di Marco da dove, con le sue bacchette da batterista, percuoteva tutto ciò che poteva emettere suono con buona pace (e rottura di coglioni) degli avventori, amici e collaboratori. Perché lì la musica regnava sovrana, anche quella vera. Jazz, blues, soul, pop, rock. Dalle 22,00 alle 24,00 il Capital Groove Master di Gegè era un appuntamento imperdibile. Passando sotto un piccolo arco, sulla sinistra, una porta tagliafuoco portava alla cucina. Densi profumi d’Africa misti a tradizione volteggiavano nell’aria sniffati da aspiratori e abbandonati all’esterno. Era il regno di Cristina, quello. Paglia fra le labbra, la vedevi danzare tra i suoi piatti, con i mestoli a rimestare la sua arte innata, la sua passione, la sua curiosità. La più grande cuoca del mondo, preparava magie per i suoi clienti. Ma guai a farla incazzare…FUORIIIII. La sala aveva una forma a “L” con 15 tavoli per una cinquantina di posti. Grandi vetrate incorniciavano la vallata filtrando una luce splendente. Il suo aspetto era gradevole e caldo, con il suo tetto in legno e il suo arredo essenziale. La deontologia professionale di Marco la voleva zona protetta per i suoi clienti. Tutto doveva essere impeccabile, dalla predisposizione dei tavoli alla posa delle tovaglie precise al millimetro alla posa di piatti e bicchieri. La sua pignoleria esasperata era motivo di discussioni spesso anche accese, ma un bicchiere di rosso metteva a posto tutto. Chi ha fatto il commerciale tende ad avere sempre ragione! Nella sala c’era anche uno spazio bimbi, piccolo ma accessoriato e multifunzionale. Si, perché la notte, chiuso il locale, ci dormivamo anche, io e Marco, dentro sacchi a pelo con accanto un bicchiere di cognac, sigarette a catramare i polmoni e due coltelli da cucina per accogliere chi avesse sbagliato orario di cena.Le parole avevano la densità del fumo, l’odore dell’alcol e quasi mai un senso. L’Osteria del viandante era un centro di benessere per anima e corpo. Tavoli come lettini, cibo per muovere i muscoli e vino come acqua termale.Oggi non esiste più. O meglio, c’è l’edificio, il nome, il cibo, ma non quel cuore e quella atmosfera. Marco, ancora oggi (scherzando?), sostiene che l’autoconsumo abbia inciso non poco sulle sfortune del locale e sulla sua non più possibile sopravvivenza ma, altri e più veri motivi sono da ricercare in voci come “entrate e uscite”, “bilancio” e in tutte quelle formule che non concedono proroghe ai sentimenti.
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Inviato da: lottergs
il 25/03/2009 alle 09:01
Inviato da: toorresa
il 25/03/2009 alle 08:26
Inviato da: toorresa
il 25/03/2009 alle 08:26
Inviato da: lottersh
il 25/03/2009 alle 07:54
Inviato da: lottergs
il 24/03/2009 alle 15:21