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La Pietraia Alghero

Storia del quartiere La Pietraia di Alghero

 

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Testimonianza di una crinera

Post n°4 pubblicato il 08 Gennaio 2011 da lapietraia_07
 

Palma nana

 

Procedendo nella ricerca sul crine, seguendo il filo dei ricordi,

si sono presentati alla memoria altri particolari.

Occorre sapere che, dopo uno o al massimo due anni, i materassi, di lana o di crine, divenivano duri e si assottigliavano. Allora bisognava chiamare la materassaia per rifarli. Quest'operazione avveniva di preferenza nel periodo estivo e doveva durare un solo giorno, dal mattino alla notte. Occorreva disfare il materasso e dipanare il crine o la lana (garminar lo crino o la llana - pron. galminà lu crino o la gliana). Dopo aver disfatto il vecchio materasso, la donna dava una rapida occhiata alla massa della fibra e talvolta sentenziava che occorreva dell'altro materiale per fare un buon lavoro. Allora si cercava di provvedere al reintegro.

Quindi la materassaia si accovacciava per terra e lavorava alacremente con grossi aghi e spago.  

Dopo aver chiuso il grande sacco di tela color marron chiaro rigata di beige che conteneva l'imbottitura, occorreva rifinirlo. Allora la donna cuciva tutto intorno un bordo superiore e un bordo inferiore. Infine fissava delle impunture a distanza regolare sulla superficie del  materasso per ottenere la forma voluta. Il lavoro si interrompeva per un veloce boccone all'ora di pranzo e poi riprendeva.

Le bambine, per un giorno, abbandonavano i soliti giochi ed osservavano affascinate quelle mani instancabili che facevano passare il grosso ago attraverso l'imbottitura e tiravano lo spago dall'altra parte con un movimento continuo, ripetendo sempre gli stessi gesti. Qualche volta anche loro, osservando e seguendo le varie fasi del lavoro, confezionavano i materassi per le bambole.

Ed ora sentiamo un'altra curiosità raccontata da Franco Ceravola. 

I chiodi della macchina adoperata per sfibrare le foglie di palma, venivano riutilizzati in una maniera molto singolare.

Dopo averli lavorati per rendere la punta meno aguzza, i bambini li inserivano nell'apposito foro delle trottole (bardufoles - pron. baldufuras) già riempito con sterco di cavallo. Quest'ultima operazione rendeva la trottola più "sirina", e non "trunosa".

La trottola "trunosa" rimbalzava un po' e si spostava mentre girava.

Quando invece era "sirina" rimaneva ferma nel punto della caduta senza saltellare.

 

 

Leggerete ora la testimonianza di M.T.M. (9 marzo 2001)

 che ha lavorato in uno stabilimento del crine per diversi anni e ha avuto  ora l'occasione di parlare di quella sua attività giovanile.

 

I suoi ricordi sono chiari, dettagliati,

 molto ben esposti.

Leggendoli si ha l'impressione di entrare in uno stabilimento e di vivere una giornata di lavoro, una lunga giornata che si protrae anche a casa, dove tutta la famiglia si impegna a preparare l'attività per l'indomani.

 

Nel 1949 avevo 14 anni e mi feci il libretto di lavoro. Allora si faceva a quell'età.

Stavano assumendo delle operaie nelle fabbriche di crine che si erano aperte in quel periodo, e per noi ragazze era una bella prospettiva di lavoro.

Di crine non sapevo niente, lo conoscevo solo per via dei materassi che c'erano a casa, ma ebbi la fortuna di venire assunta con la qualifica di mazzettaia regolarmente assicurata. In quella fabbrica, ho lavorato per sette anni, dai quattordici ai quasi ventuno, finché non mi sono sposata.

Bisogna sapere che dalla palma nana al crine finito si passava attraverso cinque fasi:

primo :  taglio,

secondo: mazzettatura,

terzo: pettinatura,

quarto: asciugatura,

quinto: filatura.

Il lavoro procedeva in questo modo:

Prima fase - I tagliatori ( palmarjus - leggi: palmalgius), con un falcetto tagliavano le palme che allora abbondavano nei territori dell'hinterland, le legavano in fascine di circa quaranta chili con delle corde di crine, le caricavano sui carri tirati da cavalli o buoi, le portavano in fabbrica e le scaricavano sotto a delle grandi tettoie fatte apposta per la bisogna e il loro lavoro finiva lì.

Seconda fase: Poi toccava alle mazzettaie (macetaies - leggi: massattaias), categoria di cui io facevo parte. Il lavoro consisteva nel confezionare le palme a mazzetti, legarle con lacci (xobos - leggi ciobus), fatti con due foglie di palma scelta legate con un nodo confezionato prima.

Si lavorava tutte sedute su dei bassi sgabelli di legno, intorno alle palme, con un grembiule di tela di sacco sulle ginocchia, tra le quali stringevamo il mazzetto per poterlo legare col xobo (leggi: ciobu) e ce lo  mettevamo vicino. Quando ne avevamo circa duecento, si passava al taglio dei gambi delle palme, la parte con le spine.

Ogni mazzettaia era fornita di un ceppo di legno tipo quelli che avevano i vecchi macellai, ma molto più basso ( questa fase della lavorazione si faceva inginocchiate) e di una mannaia fatta apposta dal fabbro. Con la mano sinistra si teneva il mazzetto per la parte buona, e si appoggiavano i gambi sul ceppo; con la destra si dava un colpo secco di mannaia e i gambi saltavano via. Poi si prendevano i mazzetti due per volta e si infilzavano per la punta, a paia (parells) uno con l'altro. Con venticinque paia si faceva una fascina che si legava con una corda di crine. Si lavorava a cottimo e le più brave riuscivano a fare trenta fascine. Io non ci sono mai riuscita, la mia media era da ventiquattro a ventisette fascine, pagate a venti lire l'una, ma non era finita. La notte a casa, aiutate dalla famiglia, dovevamo legare los xobos per poter lavorare l'indomani.

Ergo, lavoro da schiavi!

Terza fase: C'era poi la fase di pettinatura. Le generiche passavano le fascine debitamente intrise d'acqua alle pettinatrici (pentinadores, leggi pantinaroras) che prendevano i mazzetti due per volta e li facevano scorrere  due volte da sinistra a destra e due volte da destra a sinistra in un rullo irto di lunghe punte di ferro detto "pinta" (pettine) che tagliando delle palme nel senso della lunghezza ne faceva dei fili lunghi e sottili.

Da un altro rullo detto "pou" (pozzo) perché ingoiava tutto, dove lavorava, o avrebbe dovuto lavorare una persona adatta, si passavano le palme senza essere prima trattate dalle mazzettaie, veniva fuori un'altra specie di crine molto grossolano detto "lligassa" (leggi: gligassa), legaccio.

Quarta fase: Le generiche raccoglievano il prodotto della pinta e il prodotto del pou e lo stendevano ad asciugare nel grande piazzale della fabbrica stando attente a mescolarlo bene. Il prodotto veniva girato e rigirato con i tridenti fino ad essere completamente asciutto, dopodiché si raccoglieva e si portava alla filatura.

Quinta fase: La filatrice (filadora, leggi: firarora - avevano lo stesso nome sia l'operaia che la macchina) era una macchina che aveva un gancio dove l'operaia, raccolta una grande bracciata di crine di circa cinque chili, dal  mucchio comune, ne agganciava un pochino. Poi metteva in moto  pigiando un interruttore messo vicino e, mentre il gancio girava, la filatrice correva all'indietro come il gambero facendo scorrere il crine tra le mani. Ne risultava una corda non molto stretta del diametro circa di una moneta da cinquecento lire.

Terminata la bracciata, tornava indietro sempre di corsa, staccava il contatto, attaccava l'altra estremità, e la faceva di nuovo riattorcigliare per altre due volte.
Il prodotto finito doveva essere una treccia di quattro fili della lunghezza di circa un metro e mezzo, detta appunto "trixa". "Les trixas" (leggi: las triccias) si facevano asciugare ancora per una settimana possibilmente al sole e il prodotto si poteva definire pronto per l'uso.

I disegni del lavoro sul crine si trovano nel blogspot:

http://la-pietraia.blogspot.com

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