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CRISTIANO GODANO - ROCKSTAR (GENNAIO 2006)

Post n°79 pubblicato il 13 Aprile 2006 da Darkthrone85
 
Foto di Darkthrone85

Ciao a tutti, buonasera, scrivo dopo un periodo abbastanza lungo di tempo, e mi dispaice per questo, ma ho avuto vari impegni, dunque stasera vi propongo lo scritto che Cristiano Godano (M.K.) ha pubblicato per il mensile Rockstar, precisamente vi pubblico quello di Gennaio, fin'ora mancante sul blog.
Leggete attentamente, saluti ;)

 

LA CADUTA

La Ulica Volhonka era strabocchevole di traffico, quel venerdì. Io e Luca eravamo ormai in prossimità del Cremlino e già da un po’ stavamo camminando, giungenti da un lungo giro incominciato all’Arbat vecchia, ripiegato quasi su sé stesso una volta fi nita quella, indirizzato a un primo boulevard di raccordo (ove si trovano la statua di Gogol’ in un cortile di casa-museo ad egli dedicato e una di Puskin che conduce la moglie a nozze), e deviato poi verso la via dove sonnecchia la casa in cui visse Tolstoj. Non ci spingemmo però sin laggiù, tornammo sui nostri passi e proseguimmo in direzione opposta verso la Volhonka. Appunto. Erano circa le 18 e stavamo muovendo le nostre gambe a un passo medio.

Eravamo sul lungo marciapiedi costeggiante la fi umana metallica e fumante del corso alla nostra destra, poco più in là la Moscova, e sulla nostra sinistra si avvicendavano grosse costruzioni che assumevano a volte le sembianze del museo a volte della sede di qualche istituzione di turno. In avvicinamento a un semaforo importante stava per delinearsi una scena che diffi cilmente dimenticherò, e che ha preso un posto di prima fi la nelle cose che la mia memoria rivisiterà quando tornerà a ricordare il nostro viaggio a Mosca, ottobre 2005, dopo il lungo tour estivo. Il semaforo si prende la briga di fermare cinque corsie d’auto istupidite dal freddo e dalla discreta noncuranza un po’ incivile dei loro proprietari, difficilmente propensi a spingere fi no alle soglie del garbo le loro maniere di guida. A quattro/cinque metri dal vigile automatico lampeggiante, che già da una generosa manciata di secondi sta tenendo a freno le macchine, vedo una vecchina, di spalle, che tenta di attraversare la grossa strada iniziando proprio in quell’istante l’impresa. “Troppo tardi!”, penso fra me e me.

È una signora molto anziana, infagottata nel suo cappotto grigio/nero punteggiato di beige e dal capo ricoperto di uno spesso foulard. Mi allarmo all’improvviso ricordando le nostre premure quotidiane nell’affrontare quel viavai tossico e ipertrofi co, e con apprensione e irrigidimento osservo quel che accade (ho la stolida fi ssità di chi non sa che fare, quando bisognerebbe avere la concreta mobilità di chi lo sa molto bene): la donna avanza a fatica, zoppicando vistosamente, forse più che altro barcollando, illuminata in modo sinistro dai fasci di luce che riaccendono la città e pressata pesantemente dal rombo della massa di vive lamiere in attesa del verde. Procede al rallentatore al punto da chiedersi se sia consapevole di quel che sta facendo, e si direbbe di no. Quando è all’altezza della seconda fi la prendo bene coscienza di quanti metri le mancano, ed è ormai certo che di quel passo non potrà raggiungere nemmeno la metà di quella striscia di asfalto!

Dietro me nessuno pare accorgersi di nulla, e Luca non ha il tempo di avvertire meglio: sono secondi, decisamente corti per i pensierosi passeggiatori distratti che li riempiono di crucci, o piacevolezze, o menefreghismo, lunghi per me che li riempio di angoscia, lunghissimi per quella signora che li riempie di passi stentati. Alzo un po’ la voce per comunicare al mio amico il disagio che provo, ma in concomitanza di ciò i circuiti interni del semaforo impartiscono l’ordine e il countdown ha inizio. Non credo sia solo la persuasione di suggestioni da formula uno se mi pare di ricordare un wrom wrom di attesa dei mezzi ammassati in fi la, e al meno tre gli acceleratori iniziano a farsi sentire senza pietà. Meno due: la vecchina procede verso la terza fi la. Meno uno: la vecchina quasi la raggiunge. Zero: le gomme si muovono. E in quel preciso istante ella si ridesta violentemente, sbattendo la faccia e il corpo intero contro l’aspra realtà di quel che le sta succedendo a pochi centimetri. Se dietro e di fi anco (la prima e la seconda corsia) tutto è impazientemente fermo, la terza quarta e quinta se ne fottono e le si pongono innanzi come uno sbarramento mobile, minaccioso e spietato.

Ed è nella sequenza di secondi successiva che il mio diaframma mentale apre l’obiettivo e scatta le istantanee più crude: ella si arresta alzando le mani, in un gesto asimmetrico di terrore e resa immediata, mentre il piede sinistro le cede mettendola in postura sbilenca e drammatica. Ora è un burattino animato, che alza la testa non dico al cielo, ma poco sotto, alle contingenze più che alla provvida sventura, e lentamente (oh, quanto lentamente!) inizia una giravolta su sé stessa, facendo leva su quel piede di cui non fi darsi più. Il fascio di luce orizzontale delle auto in seconda corsia, altezza gambe-fi anchi-ventre, illumina la scena per me: posso vedere e fotografare tutto senza usare il fl ash. A metà del suo incredibile giro, mani e braccia sempre a mezz’aria, duramente oscillanti ed orizzontali, scorgo il suo sguardo poco prima della caduta: occhi sbarrati, imploranti, alla russa (cosa signifi ca? Non lo so, ma è per dire di un misto di smarrimento commiserevole e compostezza rassegnata e secolare). Occhi algidi come una pianura siberiana in pieno inverno lambita da un fuoco gigante, che li scioglie giusto un po’. Occhi perduti nella disperazione di uno sbaglio, che roteano tardi in orbite spaurite, fi ssandosi inconsapevolmente nei miei: un frangente infi nitesimo di secondo, il tempo di un battito di ciglia che né io né lei ci sogniamo di fare. È una visione in bianco e nero, è un fotogramma di fi lm di Ejzenstejn (che non ho mai visto, ma che immagino così), è il farsi attuale di un pezzo d’apparato immaginifi co consegnato alla storia tempo addietro, ricontestualizzato per me, dal vivo, a Mosca.

E da quelle pupille atterrite il crollo del corpo indebolito dalla paura ha inizio, nella stessa disarmonica torsione dei primi istanti arresi alla consapevolezza, verso il grigio manto stradale bagnato da una pioggerellina costante. Come tutto il resto anche la caduta è terribilmente lenta, e quando ella si abbatte al suolo lo si coglie più dal contraccolpo che non dalla dinamica discendente dell’immediato prima. Ora è a terra, e dietro di lei non si capisce bene cosa stanno per fare le macchine in prima e seconda corsia: una cosa è certa, per ora sono ferme. E mi sembra di per sé un miracolo. Questo è il momento in cui riesco a decidere di muovermi: corro verso di lei, e di fi anco a me, meno lesto e, oso dire, meno apprensivo, un ragazzo russo. La alziamo e la portiamo verso il bordo del marciapiede: ora le auto possono fi nalmente ripartire... Non parlo quella lingua e non capisco nulla della scarna conversazione fra lei e il giovane, ma sento di dovermi soffermare perché ho intuito in fretta le intenzioni dell’uomo: sta per lasciarla lì, ai confi ni della strada maledetta, senza proporsi di risolvere proprio nulla. Io vorrei dire alla donna “non ce la potrà mai fare signora ad attraversare con un passo così lento e diffi coltoso: il tratto stradale è troppo lungo per lei, si diriga al più vicino sottopassaggio; magari l’accompagniamo noi”, ma mi limito a bofonchiare a lui e alla sua ragazza: “ma che fate... la lasciate così?”.

Loro chiaramente non mi capiscono, la donna anziana rientra un po’ verso il marciapiede, la coppia la lascia sola e io rimango inebetito a guardarla. Decido di andare via anch’io, e per molti minuti mi chiederò, perplesso e tormentato, se ho fatto la cosa giusta, pensando a lei che riproverà ad attraversare. Mi giro una prima volta e la vedo ferma, schiena rivolta alla strada; dopo pochi metri mi rigiro ancora e non la scorgo più, inghiottiti entrambi dal viavai di gente indaffarata. Due notti dopo, in taxi, sono con Dunja, nostra amica moscovita, donna attraente per sensibilità, fascino, sembianze ineffabili dello spirito, sguardo allo stesso tempo serpentesco e soffice, temperamento quieto e indomabile. Le riferisco dell’episodio narrato poco sopra e le chiedo se hanno senso le mie deduzioni a proposito della società russa, che sento dura, rigida. Lei mi risponde di sì. “Ai tempi del comunismo la gente si è poco alla volta abituata a farsi sempre di più gli affari propri. C’era un sistema di delazione tale per cui si verificarono spesso denuncie assurde al regime: il figlio che accusa il padre, il vicino di casa, l’amico... Con l’esito dell’immediato confino, senza processo...

La polizia sapeva bene come diffondere il terrore e riuscì per moltissimo tempo a impedire alle persone di creare movimenti organizzati di protesta. Divenne inevitabile assumere un atteggiamento simile, chiudendosi in sé stessi e imparando a non occuparsi in alcun modo di nessun altro all’infuori di sé e di pochi fidati. E ora questa società ne è la conseguenza”. Riposiziono un attimo la vecchietta all’interno del mio immaginario campo visivo, la rivedo in terra, inerme, indifesa, terribilmente sola. Nel frattempo il taxi giunge a destinazione: un locale sconosciuto ai turisti e alla maggioranza dei cittadini sta per accoglierci, e in esso sperderò i miei pensieri sorseggiando ancora una volta la vodka.

Cristiano Godano

 
 
 
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