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NIETZSCHE - ANTCRISTO (9° PARTE)

Post n°39 pubblicato il 25 Gennaio 2006 da Darkthrone85
 
Foto di Darkthrone85

Buongiorno a tutti, stamattina aggiornamento doppio sul sommo, visto che ieri non sono riuscito a trovare un momento per scrivere sul blog. Aspetto, come sempre,  i vostri commenti, saluti.

 

XXV:
La storia d'Israele, in quanto storia emblematica dello snaturamento di tutti i valori naturali, è inestimabile: ne indicherò cinque fatti. Originariamente, in particolare nel periodo dei re, anche Israele si trovava rispetto a tutte le cose in una relazione corretta, vale a dire naturale. Il suo Javeh era l'espressione della consape­volezza del potere, della gioia di sé, della speranza in sé: da lui si aspettava vittoria e salvezza, con lui si faceva affidamento sulla natura, che questa desse ciò di cui il popolo aveva bisogno, soprattutto la pioggia. Javeh è il Dio d'Israele e quindi il Dio di giustizia; la logica di ogni popolo che ha la potenza e ne ha una buona conoscenza. Questi due aspetti dell'autoaffermazione di un popolo trovano espressione nel culto solenne: il popolo è grato per i grandi destini che lo fecero ascendere al potere, è grato per le stagioni dell'anno e per tutta la sorte favorevole nel­l'allevamento del bestiame e nell'agricoltura. Tale stato di cose rimase per lungo tempo quello ideale, anche dopo essere stato liquidato in modo triste: con l'anarchia all'interno e gli assiri all'esterno. Ma il popolo conservò come sua suprema aspirazione quella visione di un re che fosse un soldato valoroso e un giudice severo: come soprattutto quel profeta tipico (cioè critico e satiri­co nei confronti dell'epoca), Isaia. Ogni speranza però rimase inappagata. L'antico Dio non poteva più nulla di quello che in altri tempi aveva potuto. Bisognava abbandonarlo. Che accadde? Si modificò il suo concetto, si snaturò il suo concetto: a questo prez­zo si potè trattenerlo. Javeh, il Dio della «giustizia», non fu più una cosa sola con Israele, l'espressione del sentimento di sé pro­prio di un popolo: fu solo un Dio sotto condizioni... Il suo con­cetto divenne uno strumento in mano agli agitatori sacerdotali che da quel momento interpretarono ogni felicità come una ricompensa e la disgrazia come un castigo per la disobbedienza a Dio, per il «peccato»: il modo più falso di interpretare un pre­sunto «ordine morale del mondo» attraverso il quale il concetto naturale di «causa» ed «effetto» veniva capovolto per sempre. Quando la causalità naturale viene eliminata dal mondo per mezzo della ricompensa e del castigo, si ha il bisogno di una cau­salità contro natura: allora segue tutto il resto di ciò che è contrario alla natura. Un Dio che chiede, invece di un Dio che aiuta, che consiglia, che in una parola è l'espressione di ogni felice ispi­razione del coraggio e della fiducia in sé stessi... La morale non è più l'espressione delle condizioni di vita e di sviluppo di un popo­lo, non è più l'istinto vitale più profondo, ma è diventata astratta, contraria alla vita, la morale come peggioramento sistematico della fantasia, come il «malocchio» per tutte le cose. Che cosa è la morale giudaica? E quella cristiana? Il caso che ha perduto la sua innocenza; l'infelicità macchiata dal concetto di peccato; il benessere come pericolo, come «tentazione»; il malessere fisiolo­gico, avvelenato dal tarlo della coscienza...

XXVI :
Falsato il concetto di Dio; falsato il concetto di moralità, la casta sacerdotale ebraica non si fermò qui. Non si poteva adoperare tutta la storia d'Israele: si sbarazzarono di essa! Questi sacerdoti compiro­no una prodigiosa falsificazione, di cui resta come documento una buona parte della Bibbia: con un singolare disprezzo per ogni tra­dizione, per ogni realtà storica hanno tradotto in senso religioso il pro­prio passato di popolo, cioè lo hanno reso uno sciocco meccanismo salvifico di colpa contro Javeh, e di castigo, di devozione e di ricom­pensa. Se millenni d'interpretazione ecclesiastica non ci avessero reso quasi insensibili alle esigenze di rettitudine in historicis, senti­remmo questo vergognoso atto di falsificazione della storia molto più dolorosamente. Pure i filosofi appoggiarono la Chiesa: la men­zogna di un «ordine morale del mondo» permea l'intera evoluzione della filosofia, persino di quella moderna. Che significa «ordine morale del mondo»? Che esiste una volta per tutte una volontà di Dio, che decide tutto ciò che l'uomo deve o non deve fare; che nei destini di un popolo o di un individuo la volontà di Dio appare domi­nante; cioè che egli castiga o premia a seconda del grado di obbedienza. La realtà, messa al posto da tale miserevole menzogna, signi­fica: una certa classe di uomini parassiti, quella di sacerdote, pro­spera soltanto a spese di ogni forma di vita sana, e abusa del nome di Dio: chiama «regno di Dio» una forma di società nella quale il sacerdote è colui che fissa il valore delle cose; chiama «volontà di Dio» i mezzi per raggiungere o mantenere tale stato di cose; giudi­ca con freddo cinismo popoli, epoche e individui a seconda che siano stati utili o che abbiano resistito alla preponderanza sacerdo­tale. Basta osservarli all'opera: in mano ai sacerdoti ebraici l'epoca grandiosa della storia d'Israele divenne un'epoca di decadenza; l'e­silio, i lunghi anni di sventura. Essa si trasformò in un castigo eterno per la grande epoca, periodo in cui il sacerdote non era ancora nes­suno.... Trasformarono le figure molto libere e potenti della storia d'Israele, a seconda delle necessità, in bigotti e miserabili ipocriti o in «atei», semplificarono la psicologia di ogni grande evento nella formula idiota «obbedienza o disobbedienza a Dio». Ma v'è di più: la «volontà di Dio» (cioè la condizione per mantenere il potere della casta sacerdotale) deve essere nota; a questo scopo era neces­saria una «rivelazione». In parole povere: si richiede una grande fal­sificazione letteraria e si svelano le Sacre Scritture, si rendono pubbli­che con ieratico fasto, con digiuni e lamentazioni per il «lungo pec­cato». La «volontà di Dio» si era già istituita da molto tempo: tutto il male risiedeva nel fatto che il popolo si era allontanato dalle Sacre Scritture... La «volontà di Dio» si era già rivelata a Mosè... Che era accaduto? Con severità e pedanteria, fino alle imposte grandi e pic­cole che gli si dovevano pagare (senza dimenticare i bocconi di carne più gustosi: perché il sacerdote è un divoratore di bistecche), il sacerdote aveva formulato una volta per tutte quello che pretende­va, «quale era la volontà di Dio»... Da quel momento si organizzò tutta la vita in modo da rendere il prete indispensabile in ogni cir­costanza: in tutti gli eventi della vita, la nascita, il matrimonio, la malattia o la morte, per non parlare del «sacrificio» (la cena). Ecco apparire il santo parassita per snaturalizzarli, secondo lui per «santificarli»... Perché si deve comprendere questo: ogni costume natu­rale, ogni istituzione naturale (lo stato, l'ordinamento giudiziario, il matrimonio, l'assistenza dei malati e dei poveri), ogni necessità suscitata dall'istinto per la vita, in breve tutto ciò che ha valore in sé, a causa del parassitismo del sacerdote (o dell'«ordine morale del mondo»), diviene completamente privo di valore, nemico del valo­re. Alla fine si richiede una sanzione, è necessaria una potenza che conferisca valore, che neghi in ciò la natura di queste cose e crei allo­ra, proprio per questo un valore... Il sacerdote svaluta, dissacra la natura: esiste solo a questo prezzo. La disobbedienza a Dio, cioè al sacerdote, alla «legge», ora prende il nome di «peccato»; i mezzi per «riconciliarsi con Dio», come è giusto, sono mezzi che assicurano ancora più profondamente la sottomissione al prete: solo il sacer­dote «redime»... Da un punto di vista psicologico, i «peccati» sono indispensabili in qualsiasi società organizzata da sacerdoti: sono i veri e propri strumenti del potere: il sacerdote vive dei peccati, ha bisogno che si «pecchi»... Principio supremo: «Dio perdona chi fa penitenza», in sostanza: colui che si sottomette al sacerdote.

XXVII :
In un ambiente completamente falso, ove ogni natura, ogni valo­re naturale, ogni realtà avevano contro i più radicati istinti delle classi dirigenti, là nacque il cristianesimo, forma finora insupera­ta di odio a morte contro la realtà. Il «popolo santo», che non aveva conservato per ogni cosa che valori sacerdotali, parole di sacerdote, con una coerenza logica terrificante si era allontanato da tutto ciò che era ancora potente sulla Terra, definendolo «profano», «mondo», «peccato»; questo popolo elaborò per i propri istinti un'ultima formula, coerente fino all'autonegazione: come cristianesimo negò persino l'ultima forma della realtà, il «popolo santo», il «popolo eletto», la stessa realtà ebraica. Il caso è di primissimo ordine, il piccolo movimento di ribellione, che viene battezzato con il nome di Gesù di Nazareth, è ancora una volta l'i­stinto ebraico, in altre parole l'istinto sacerdotale che non può più tollerare il sacerdote come realtà, l'invenzione di una forma di esistenza anche più astratta, di una visione del mondo anche più irreale di quella che determina l'organizzazione di una Chiesa organizzata. Il cristianesimo nega la Chiesa... Non vedo contro che cosa fosse diretta questa rivolta, di cui si pensò, o si fraintese, che Gesù fosse il propugnatore, se non con­tro la Chiesa ebraica, la «Chiesa» presa proprio nel senso in cui l'intendiamo oggi. Fu una rivolta contro i «buoni» e i «giusti», contro i «santi d'Israele», contro la gerarchia sociale, non contro la corruzione di questi ma contro la casta, il privilegio, l'ordine, la formula; fu la sfiducia negli «uomini superiori», un no pronunciato contro tutto ciò che concerneva preti e teologi. Ma la gerarchia che per questo venne messa in dubbio, sebbene solo momentaneamente, fu la palafitta sulla quale solamente il popo­lo ebraico continuò a esistere in mezzo all'«acqua», l'ultima pos­sibilità faticosamente acquistata di sopravvivere, il residuum della sua esistenza politica autonoma: un attacco contro di essa era un attacco al più profondo istinto di un popolo, contro la più tenace volontà di vivere di un popolo mai esistita sulla Terra. Questo santo anarchico che innalzò gli umili, i reietti e i «peccatori», Ciandala all'interno del giudaismo fino a contrastare l'ordine dominante, in un linguaggio che, se si deve credere ai Vangeli, porterebbe ancora oggi in Siberia, era un criminale politico, per quanto fossero possibili i criminali politici in una società assurda­mente apolitica. Questo lo portò alla croce: prova ne è l'iscrizione apposta su di essa. Morì per sua colpa e manca ogni fondamen­to per affermare che morì per i peccati degli altri.

 
 
 
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