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IL TRENINO (allegro và...) Parte II

Post n°6 pubblicato il 14 Marzo 2014 da gabbo40

-DAGLI AI NEGRACCI!!! Urlo qualcuno alle sue spalle. All’improvviso fu il caos. Gente sbucata dal buio della notte (o della tarda sera, ripeto, non so che ore fossero…) invase il piazzale del deposito scagliandosi sul gruppo di neri con la violenza di uno tsunami . Iniziarono a volare botte; il re ordinò ai sui portatori di fare dietrofront e scappare, ma questi, per la paura lo fecero cadere dal cofano della Uno grigia, furono raggiunti e pestati a colpi di spranghe e anfibi. Lo stesso toccò a tutti i suonatori di bidoni, ai cantanti e pure a Naima che non era riuscita a scappare. Ora un tizio rasato la teneva per le treccine mentre la prendeva a calci in culo e insultava lei e i suoi avi. Gianni stava al centro di tutto, i nuovi arrivati sembravano non vederlo e lui, sempre nudo e sempre legato al seggiolino urlava fra l’eccitato e l’isterico –Ammazzateli! Cannibali bastardi! AHAHHAHAH! Ammazzateli tutti! AHAHAHAAAH!

Per un buon quarto d’ora andò avanti così, i neri che cercavano di scappare e gli altri che li raggiungevano e li pestavano, sul piazzale, dentro le carrozze, sopra ai cumuli di pezzi di ricambio, tutto intorno a Gianni. Urla, lamenti, insulti e risate. Quando tutto finalmente tacque partì una versione a cappella di “Faccetta nera” intonata dai suoi salvatori che finalmente si accorsero di lui.

Per la cronaca, si trattava del gruppo filo-nazi- anarco-fasci-estremista “Asso di Bastoni”, guidato dal fiero camerata Renatino Zampetti detto “Er manganello”, pluri condannato per associazione a delinquere, ricettazione, scippo, spaccio, aggressione a sfondo razziale, aggressione per futili motivi e aggressione tanto per, ospite a tempi alterni prima del carcere minorile e poi della locale casa circondariale. Attualmente sotto la tutela dei servizi sociali che lo avevano fatto assumere come magazziniere in un supermercato. Da dove Renatino regolarmente rubava casse d’alcol che servivano ad alimentare le serate del gruppo.

Dicevo che alla fine si accorsero di lui, e fu proprio Renatino ad andargli incontro

– E tu che cazzo ce stai a fa qua? Chiese guardandolo fisso con le pupille dilatate dall’anfetamina e poggiandogli la canna della pistola sul naso.

– Dio mio, vi ringrazio! Mi avete salvato! Questi barbari volevano mangiarmi, cioè non volevano mangiarmi tutto, solo l’uccello… si insomma… stavano per fare un rito con quella che ballava e poi.

–Liberatelo! Ordinò Renatino ai suoi. Un tizio alto e magrissimo rasato anche lui e con un’aquila imperiale tatuata sulla nuca tagliò la corda che lo legava e finalmente riuscì a rimettersi in piedi, tenendosi davanti una mano cercò intorno qualcosa per coprirsi. Raccolse da terra il velo di Naima, sporco di terra e sangue e se lo arrotolò intorno ai fianchi. Ora sembrava una specie di Ghandi, solo più pallido. Intanto Renatino aveva cominciato a parlare:

-Noi semo i rappresentanti della Patria! Noi semo la parte più pura di questa terra! Noi semo i giustizieri che scacceranno ‘sta feccia dalla nostra nazione! Li massacreremo uno ad uno finché nessun negro, cinese, indiano, ebreo, cingalese, slavo, frocio o comunista calpesti più er sacro suolo di questo paese!

-AVE! AVE! AVE! Gridarono di rimando tutti gli altri euforici per quell’impresa appena compiuta e ripartì il coro di Faccetta nera.

A Gianni la presenza di quella gente metteva un po’ d’ansia e cercò di pensare ad un modo per defilarsi.

-Io, si… vi ringrazio, veramente… ma dovrei proprio andare, sapete mia moglie…

-AHAHAHAH!!! Adesso tu andrai e dirai a tutti che sei stato salvato dai fieri camerati dell’Asso di Bastoni! Canta con noi “ …aspetta e spera che già l’ora s’avvicinaaaa…” e gli mise un braccio intorno al collo come fossero amici da sempre.

-Ma certamente! Senz’altro. Lo dirò a tutti. È ovvio, si vede che siete brave persone. Se vi servono referenze per qualunque motivo non esitate a chiamarmi! Adesso era di nuovo nervoso, è vero che era vivo ed aveva ancora il suo uccello attaccato, ma la compagnia di quel gruppo di naziskin esaltati e gonfi d’anfetamina non lo metteva per nulla a suo agio, senza contare che era, eccetto il velo, ancora praticamente nudo.

–Vorrei solo recuperare i miei vestiti…

-Eccoli! Disse un piccoletto rasato che portava ai piedi un paio di anfibi enormi che lo facevano sembrare più una sorpresa di un ovetto Kinder che un naziskin.

– Eccoli qua. E tirò fuori da una busta di plastica i pantaloni, la camicia e il cappotto di Gianni. Glieli tirò ai piedi e dalla tasca del cappotto scivolò fuori il cellulare.

–Questo lo prendo io! Fece Renatino impossessandosi del telefono. Era l’ultimo modello della Pineapple, nuovo nuovo, pagato cinquecento euro una settimana prima.

-Camerati! Unitevi in formazione e famose una foto! Ordinò ai suoi uomini.

- Tu mettite qua. E spinse Gianni nel gruppo.

Tutti si strinsero intorno a lui in formazione calcistica, una fila in piedi ed una fila accosciati, di fronte a loro un cofano di una Fiat Uno grigio su cui ancora pulsava una polpa di sangue e stracci che fino a mezz’ora prima era stata un re.

-Vedemo com’è venuta! Disse orgoglioso “er manganello” .

–Questa la mettemo appesa sul muro della sezione. E il naziskin se la rideva a trentadue denti.

Ecco, questo è un altro punto di svolta nella storia del nostro Gianni; Renatino cominciò quindi a sfogliare la galleria fotografica del cellulare e dopo l’euforia iniziale smise di ridere. Guardò Gianni che voleva allontanarsi dal gruppo per raccogliere i vestiti e gli puntò la calibro nove ancora calda sul petto nudo.

– Pervertito! Sei un zozzo pedofilo maledetto! Qua dentro ce stanno solo foto de culi e de ragazzini! Gli strillò in faccia.

Gianni impallidì e mentre cercava di aprire la bocca per spiegare, il calcio della pistola di Renatino gliela richiuse. Sentì le labbra che si gonfiavano immediatamente, sentì il sapore del sangue e con la lingua sentì anche il buco lasciato dal primo e dal secondo incisivo superiore, volati via all’impatto con l’arma.

Piegato in due dal dolore, con una mano davanti alla bocca, Gianni ricevette una pedata su un fianco che lo fece cadere a terra.

– Fono i coppagni di claffe di mia fiiia… CAFFO!!! Cercò di dire, ma un altro calcio dietro la schiena gli spezzò il fiato.

-Sei un maiale! Anche tu sei feccia come questi animali che abbiamo appena punito! Poi si interruppe.

-Ora che ci penso… ti abbiamo visto prima che te guardavi la negra a cazzo dritto! Tu sei un pervertito amico dei negri!

Gianni, si stava per mettere a piangere, era la fine. Non riusciva a parlare e intanto malediceva il telefono Pineapple da cinquecento euro, malediceva tutti i bambini in classe di sua figlia e tutte le loro madri culone e malediceva quel trenino fetente che lo aveva portato fin lì anziché a casa sua.

-Che facciamo lo ammazziamo qui o lo torturiamo un po’? Disse il piccoletto con gli anfibi enormi .

- Caricatelo sul furgone, lo portiamo al magazzino e poi vediamo. Per i porci come questo morì subito è un premio.

Lo presero per un orecchio e lo trascinarono fino all’entrata del deposito dove era parcheggiato il Rascal bianco del supermercato con il quale Renatino portava la spesa a domicilio ai vecchi del quartiere.

Salirono nel retro Gianni, Renatino e il piccoletto rasato. Lo spilungone si mise alla guida continuando a cantare Faccetta Nera, contento come un bambino al luna park.

– Metti in moto e andiamo, facciamogli passare una bella serata a questo schifoso.

-Lo facciamo a pezzi! Lo facciamo a pezzi! Urlò lo spilungone mettendo la prima e sgommando.

–A quelli come te gli spezzo tutte le dita e poi gliele faccio mangiare! Renà! Posso cominciare io? Eh? Posso cominciare io? E allungò il braccio dietro al sedile colpendo Gianni con un ceffone sulla testa.

Il furgoncino schizzava per le strade deserte della periferia. Nel retro Renatino teneva sotto tiro Gianni, mentre lui se ne stava raggomitolato in un angolo tenendosi la faccia gonfia. Intanto l’altro lo insultava e lo colpiva sulle gambe con un tubo di gomma.

Sballottato, picchiato, insultato e con il pensiero che stava per essere torturato e ucciso in un garage, il nostro povero Gianni non resse più e singhiozzando si pisciò addosso dalla paura.

-Cazzo! Ma fai schifo! Urlò il naziskin allontanandosi dal rivolo di urina che si spandeva nel cassone.

Il lungo si girò di nuovo.

– Ti sei pisciato addosso maiale! Brutta merda ti ammazzo qui! Prima gli allungò un altro ceffone e poi si girò completamente dimenticandosi che stava guidando. Il Rascal iniziò a sbandare sull’asfalto umido della notte e dopo un testacoda si mise di traverso alla strada e iniziò a rotolare.

Rotolò la prima volta: il piccoletto si spaccò la testa sbattendo sul montante del cassone.

Rotolò la seconda volta e il lungo fu sbalzato per metà fuori dal finestrino e finì sotto al furgone.

Al terzo giro su se stesso si sentì un colpo di pistola e il Rascal si fermò addosso all’ultima cabina telefonica rimasta in città.

Trascorse un po’ di tempo senza che succedesse niente, non una macchina, non un passante, nulla.

Tutto era silenzioso intorno al furgoncino e alla cabina distrutta.

Finalmente, dal portellone aperto, uscì Gianni, trascinandosi fuori a fatica. Nel rotolare si era lussato una spalla e si teneva il braccio stringendo i denti.

Guardò dentro il Rascal, Renatino era a faccia in giù in una pozza di sangue. Il colpo partito per sbaglio lo aveva preso all’addome. Sulla strada non c’era traccia del resto del gruppo.

Doveva allontanarsi in fretta in caso fossero arrivati, così cominciò a correre per quanto poteva, seminudo, zoppicando e reggendosi il braccio disarticolato.

Continuò seguendo il bordo di quella strada di periferia fino ad un passaggio a livello.

-I binari! Il trenino! Sono vicino, posso arrivare a casa.

Cominciò a seguire i binari zoppicando e inciampando nelle traverse. Il cielo cominciava a rischiarare, era quasi l’alba; stanchezza, dolore ed euforia d’esser ancora vivo gli si mischiavano nel cervello dandogli una lucidità che fino a quel momento non era riuscito ad avere. Sapeva solo che doveva andare avanti, fino alla fermata del treno.

E ci arrivò pochi minuti dopo, minuti che a lui sembrarono ore. Sulla piattaforma c’erano solo due signore d’una certa età, probabilmente due badanti slave che smisero di parlare e lo fissarono in silenzio fino all’arrivo del treno.

Si aprirono le porte, le due donne salirono, timbrarono il biglietto nella macchinetta e si andarono a sedere in fondo.

-Fono abbonato… biascicò Gianni schizzando un po’ di saliva e sangue sul vetro che lo divideva dal guidatore.

Questi lo guardò come se fosse normale che su quel treno salissero passeggeri seminudi, sanguinanti e con gli arti dislocati. Così gli credette sulla fiducia e non gli chiese nemmeno di mostrargli la tessera. Gianni provò a sorridere e andò a sedersi.

Adesso lo so, erano le cinque e trentacinque e quella era la prima corsa dell’ultimo giorno di servizio del trenino di Tor Capoccia.

Da domani Gianni avrebbe preso la metro.

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