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Post n°251 pubblicato il 05 Novembre 2011 da BROWSERIK
Il tema della mobilità è molto dibattuto in questi anni. Tra car sharing e motori a impatto zero, ormai siamo convinti che il nostro modo di spostarci nelle città debba cambiare. Sul come abbiamo le idee un po’ confuse. Già, come ci sposteremo da casa all’ufficio e viceversa fra dieci anni? Riusciremo ad andare in ufficio senza scaricare nell’atmosfera vagonate d’anidride carbonica? La strada è lunga, nel vero senso della parola. Per mille ragioni: dal petrolio che continua a dettare legge ai costi delle infrastrutture. Ma, tra la confusione, qualcosa si sta muovendo. A svegliarsi per primi sono stati quelli di Google, che un paio d’anni fa hanno lanciato un ambizioso programma battezzato Project 10^100. Roba pesante: una campagna destinata a individuare cinque idee/aree tematiche su cui concentrare gli sforzi per migliorare lo sgangherato pianeta che ci ritroviamo fra le mani. Facile a dirsi. Fra le 150mila proposte arrivate da 170 nazioni al quartier generale di Mountain View è stata selezionata una delle piattaforme cardine per il futuro: “Drive innovation in public transportation”. Come cambiare i mezzi di trasporto, in particolare nello spazio pubblico. Disegnare le strategie che, fra qualche anno, dovranno portarci da un posto a un altro. Dopo aver individuato i campi d’azione, c’era da scendere nel dettaglio per andare a scovare progetti, brevetti e spunti che fossero davvero in grado di incarnare la teoria nella pratica. Anche perché, sul piatto, Google aveva piazzato dieci milioni di dollari di finanziamenti, di cui uno destinato proprio all’innovazione nei trasporti. A uscirne vincitore – e a intascare i quattrini del motore di ricerca per procedere nello sviluppo – è stato uno strano prototipo che si chiama Shweeb.Una piccola onomatopea ambulante, un mezzo monorotaia che ci traghetterà in giro sospesi come salami a cinque metri dal suolo. Comodamente incastrati in una capsula aerodinamica che alimenteremo noi stessi, a colpi di pedale. E senza possibilità di finire spiaccicati l’uno contro l’altro. "Quando vivevo a Tokyo attraversavo la città per andare a lavoro in bicicletta e nei fine settimana pedalavo per le montagne circostanti”, dice Geoff Barnett, che in sei anni ha messo a punto il progetto selezionato da Google, “Tokyo, coi suoi treni così frequenti e puntuali, gli hotel-capsula e l’altissima densità di popolazione, mi ha aperto la mente verso nuove possibilità. Da lì è spuntata l’ispirazione per un network di bici monorotaia, proprio mentre tenevo una lezione il cui tema girava intorno alle soluzioni per il trasporto. L’idea di pedalare sopra quelle marmellate di traffico sfruttando una rete multilivello mi sembrò l’unico modo in cui milioni di cittadini potessero muoversi velocemente e senza correre rischi. Per non parlare del rispetto ambientale e dell’esercizio fisico”. Ed effettivamente sin dal lontanissimo 1960 l’avveniristica utopia urbana di costruire fitte reti monorotaia sopra alle nostre teste è stata battuta in diverse salse. Addirittura gli sceneggiatori dei cartoni animati – chi si ricorda I pronipoti di Hannah & Barbera? – ficcavano i loro personaggi dentro loculi di ogni tipo circolanti su intricate ragnatele viarie. Qualche decennio fa ci hanno provato anche negli Stati Uniti, in Virginia. Il piano non ha avuto successo a causa dei costi, all’epoca troppo elevati. Gli esperimenti per il futuro dei trasporti procedono infatti con risultati a dir poco confortanti anche fra le nuvole. In particolare, a darsele di santa ragione sono da qualche tempo due progetti che corrono in parallelo: da una parte quello messo in piedi dalla Boeing, Solar Eagle, finanziato dalla storica Darpa (la Defense advanced research projects agency degli Stati Uniti, lo stesso ente governativo nel cui ventre ha mosso i primi passi Internet) dal valore di 89 milioni di dollari. Obiettivo: un volo dimostrativo entro il 2014. Dall’altra il più emozionante Solar Impulse, il velivolo partorito dalla mente del pioniere svizzero Bertrand Piccard che si è già misurato l’estate scorsa con uno spettacolare volo notturno. Piccard, insieme allo scalmanato socio André Borschberg, punta a realizzare entro il 2013 niente meno che il giro del mondo. Dietro a queste imprese, oltre alla genialità delle soluzioni tecnologiche, si annusa il gusto autentico della scoperta. Lo stesso dei fratelli Wright, per capirci. Quel gusto che potrebbe forse apparire meno marcato nella miriade di microprogetti che promettono di liberare i nostri spostamenti quotidiani dalla tragicommedia in scena ogni mattina sulle tangenziali di Roma e Milano. Idee magari un po’ meno roboanti ma senz’altro più concrete. Si va dagli EcoCab canadesi – sorta di risciò cabinati dal design bizzarro, nati come taxi ecologici e sempre più nei gusti del pubblico – fino ai prototipi giapponesi firmati da Toyota come il Robot Car. Cellule autonome a due ruote con cui sfrecceremo su strade larghe come binari. E che tuttavia, almeno per adesso, servono solo a mettere a punto l’unica alternativa praticabile per chi voglia davvero compiere un passo verso la locomozione 2.0: comprare un’auto ibrida. Magari dal fascino assai poco futuribile e col posteriore ingombrante come quello della pionieristica Prius. Ma meritevole antenata di un mondo dei trasporti che sta iniziando solo in questi anni a partorire allucinazioni urbanistiche dal sapore cyberpunk, proprio come William Gibson. Un altro inventore che, con l’elasticità delle parole, aveva progettato il futuro. Prima che arrivasse.
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