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Il male curabile - La sfida di Mauro Ferrari

Post n°11 pubblicato il 30 Gennaio 2014 da asscultsischiglia
 

 

 

Sulla vita di Mauro Ferrari è stato appena pubblicato un libro, autore per Rizzoli, Michele Cucuzza. Si intitola “Il male curabile - la sfida di Mauro Ferrari, il matematico italiano che sta rivoluzionando la lotta ai tumori”. Quasi 230 pagine in cui la storia personale di Mauro, i suoi anni udinesi, la passione per il sax e per la pallacanestro, assieme agli studi classici, si intrecciano poi con gli anni negli Usa, le tragiche esperienze familiari, l’intuizione per le nanotecnologie sposate alla medicina e questi ultimi anni a Houston, ricchi di importanti conquiste nella lotta ai tumori.

 

Medico e ricercatore per amore. La vita e la carriera incredibile di Mauro Ferrari è tutta in quella parola: “amore”.  L’amore per una moglie persa troppo presto. Originario di Udine, studi classici, laurea in matematica, master e dottorato in ingegneria meccanica, quindi l’approdo in America, in California, professore a Berkley per più di 10 anni. Quindi la decisione di sfidare la malattia del secolo: il cancro. Prima destinazione l’Ohio al National Cancer Research Institute dove partecipa al programma più importante al mondo di nanotecnologie applicate al tumore.  Mauro Ferrari oggi è il numero uno al mondo nel campo delle nanotecnologie applicate alla medicina. A 52 anni è presidente e amministratore delegato di Methodist Hospital Research Institute, una struttura nata nel 2010, costruita in pochi anni, proprio per accogliere i più avanzati progetti nel settore dei nano farmaci. Il Methodist Hospital di Houston è uno dei 5 maggiori ospedali americani con mille medici oltre 700 clinical trials, dalla ricerca di base alla ricerca applicata ai pazienti, alla sperimentazione clinica.
Nanoparticelle, nanotecnologie, quale la differenza?
Per nanoparticelle, più importanti in medicina, si intendono quei contenitori infinitesimali in grado di portare la cura direttamente sulla parte malata, in particolare nella cura del tumore. Le nanotecnologie comprendono invece i nanosensori, i nanomateriali e tante altre cose diverse.
Come è possibile indirizzare direttamente la nano particella sulla parte malata?
In oncologia il problema non è tanto trovare il farmaco giusto ma arrivare. La cosa difficile non è uccidere le cellule cancerose, ma non uccidere le altre, le nano particelle non solo sono in condizione di riconoscere il cancro, ma hanno anche la capacità di superare le barriere biologiche che impediscono l’accesso alle sostanze esterne all’organismo. Superare queste barriere è la chiave di volta per il successo della nanotecnologia dove la farmacologia classica ha enormi problemi.
Il futuro nella lotta ai tumori è quindi nelle nano particelle?
Occorre lavorare tutti assieme nessuna disciplina da sola è in condizione di risolvere il problema, entro pochi anni però i nano farmaci saranno i farmaci principali. La  personalizzazione delle cure, altro aspetto fondamentale nella lotta contro il cancro, passa di certo per i nano farmaci: da persona a persona, da momento a momento.
Cioè possono esserci risultati diversi a seconda delle persone e dei momenti?
Il farmaco si distribuisce nel corpo in maniera diversa da persona a persona, proprio perché quelle barriere biologiche sono diverse da persona a persona e si evolvono nel corso della malattia.
Come è arrivato a Houston?
Sono negli Stati Uniti da 27 anni. Sono partito dall’Italia come studente di fisica matematica e sono approdato in California, professore a Berkley per più di 10 anni, poi sono passato in Ohio al National Cancer Research Institute ed ho partecipato al programma più importante al mondo di nanotecnologie applicate al tumore. A Houston ci sono da circa 7/8 anni, qui c’è il centro medico principale al mondo nella lotta contro il cancro, è difficile trovare altri luoghi come questo.
Tornerebbe in Italia?
Sono spessissimo in Italia almeno una volta al mese. Abbiamo collaborazioni con i centri di eccellenza italiani in Lombardia, Calabria, Friuli – sono friulano di origine –Campania e Toscana. E nel gruppo di ricerca di circa 100 persone che dirigo ci sono quasi 20 italiani che vengono da diverse regioni e che contribuiscono alla ricerca italiana con le collaborazioni che facciamo, quindi credo di essere più utile al sistema Italia stando dove sto che tornando.
Da fisica matematica a medicina è un passo lungo…..
E’ vero, inizialmente c’era la matematica, poi sono successi degli eventi personali che mi hanno fatto vedere l’esistenza di grandi tragedie e non sempre gli strumenti tradizionali all’interno della medicina  sono efficaci, così provi a trasferire le tue conoscenze, quello che hai, io avevo tecnologia, avevo la matematica ed ho tentato a sviluppare sistemi basati su questo, così è arrivata la partenza verso la nanomedicina, tra i primi al mondo, sulla base di esperienze personali.
Le faccio una domanda personalissima alla quale può anche evitare di rispondere se non se la sente, la perdita di sua moglie ha influito sulle sue scelte?
E’ stata la svolta. Inizialmente non mi piaceva parlarne, poi in realtà sono cose che fanno parte della vita di tutti i medici e i ricercatori, la motivazione dei ragazzi che iniziano a studiare medicina, mille volte la spinta iniziale è la tragedia personale…. Dobbiamo trovare la forza nel dolore. Certamente è stata la sofferenza per la morte della moglie Marialuisa, morta a 32 anni, lasciando Giacomo che veva 6 anni e due gemelle, a far scattare la chiamata alle armi…..Per completare la storia, il miracolo è stato che ho trovato Paola mi sono sposato ed è nata una seconda coppia di gemelli e c’è chi dice che gemelle qui, gemelle là: questa è la vera nanotecnologia…..
Esiste una collaborazione internazionale sul fronte della lotta ai tumori o le gelosie e l’accesso ai finanziamenti rendono tutto molto complicato?
Le dinamiche della ricerca sono sempre dinamiche complesse, ma io credo che fondamentalmente tutti abbiamo a cuore il benessere del prossimo… e spesso i ritorni non si vedono bisogna affrontare anni di buio e di sacrifici e la compensazione economica non è paragonabile a mille altri mestieri, veramente credo che i ricercatori siano motivati dal desiderio di fare qualcosa di utile.
Negli Stati Uniti la ricerca è spesso finanziata dalle grandi industrie, questo crea condizionamenti di qualche natura?
Questo nella storia americana è spesso vero, la ricerca è finanziata dai privati, ma le cose stanno cambiando, sempre più spesso la ricerca è finanziata dal governo federale e statale anche per ragioni di rilancio economico. In Texas sono stati creati quasi il 70 per cento di tutti i nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti negli ultimi anni. Perché il Texas dal 2010 investe nella ricerca, solo noi del Methodist abbiamo creato più di 200 posti di lavoro tra l’indotto e le applicazioni. A questo modello dovrebbe guardare anche chi gestisce la cosa pubblica italiana, investire in ricerca è anche un obbligo etico per il bene del Paese, si investe sul futuro dei nostri figli, purtroppo la storia italiana è una storia dolorosa e non è a livello con il suo passato. Negli Stati Uniti  per ogni dollaro di privato investito nella ricerca ce ne sono tra i 3 ed i 4 pubblici.
Quale consiglio ad un giovane ricercatore italiano?
Per tutti, indipendentemente dalla nazionalità, un’esperienza all’estero è di fondamentale importanza. Il mondo è cambiato, tutto si è globalizzato: parlare lingue diverse, rapportarsi con culture diverse. Quindi un buon suggerimento per gli italiani è andare all’estero per un paio d’anni, ma anche poi di trovare il posto migliore per esprimere i propri talenti, ognuno di noi ha un senso di missione e deve ascoltarsi e guardarsi dentro e dire il mio scopo nella vita è…… contribuire con un piccolo tassello, non è un servizio nazionale, le malattie non conoscono confini , è l’efficacia di quello che si fa il punto di arrivo o uno dei punti di arrivo.
Spesso la ricerca vive di annunci: trovata la cura per tale malattia, risolto il problema per il tumore…. Poi più nulla….. Come se nulla fosse accaduto…
Perché un’idea nuova arrivi in clinica ci vogliono 15 anni e più o meno un miliardo di dollari per un nuovo farmaco e nel processo ci sono tante valli della morte: solo che purtroppo fanno parte del sistema, non permettono un’efficacia  di traslazione.
Sono tempi che si possono accorciare?
Sono certamente tempi che si possono accorciare e in realtà il nostro istituto è fondato proprio su questo principio, siamo il primo istituto al mondo che ha messo assieme tutti i pezzi della filiera che va dall’idea alla clinica, tutto all’interno di un singolo edificio… e i nostri dipartimenti sono trasversali e non creiamo dipartimenti a meno che la filiera non sia completa, tutto per evitare le procedure esterne e con il fatto che chi fa ricerca di base non è lo stesso che poi guida lo sviluppo del farmaco che richiede competenze diverse ed è qui, nei passaggi della staffetta che viene lasciato cadere il testimone. Per questo in un solo luogo certamente si può fare più velocemente.
Come valuta la contraddizione italiana di pochi finanziamenti alla ricerca e la contemporanea esistenza di punte di eccellenza internazionalmente riconosciute?
E’ storia italiana, grandi menti, grande creatività e l’Italia è tra i primi 10/15 Paesi economicamente più forti… quindi uno si aspetterebbe che l’output scientifico italiano fosse dove invece non è, naturalmente ci sono punte di grande eccellenza distribuite in vari settori e sono molto forti. La realtà è che il sistema Italia non investe in ricerca, storicamente non lo ha fatto nella maniera che ci si dovrebbe aspettare e questo è secondo me una grandissima tragedia e non capisco perché la gente non sia in piazza tutti i giorni. Ricerca vuol dire nuova economia, carriera, soluzione di problemi, istruzione e futuro. Tra l’altro tutti gli italiani che hanno vinto il Nobel negli ultimi 100 anni, lavoravano tutti all’estero, l’unico italiano è stato Natta, ma poi tutti gli altri, i nostri eroi nazionali, Rubbia era in Svizzera, Montalcini, Giacconi, Dulbecco…. Io non voglio parlare male però è chiaro che l’output non è quello che dovrebbe essere per un paese di queste dimensioni/magnitudine….
Esperimenti di medicina nello spazio….
Lavoriamo con la Nasa da diversi anni… I problemi che si affrontano ogni giorno in clinica si ritrovano amplificati nello spazio, quindi studiandoli in un ambito più difficile è possibile portare sulla terra sviluppi di interesse generale: rilascio controllato dei farmaci nel tempo e come distribuzione nel corpo, sistemi di diagnostica indipendenti  per avere sempre sotto controllo il proprio stato di salute come utilizzare tutto questo non solo nello spazio, ma soprattutto sul pianeta Terra…
L’assenza di gravità può aiutare?
Abbiamo un sistema che stiamo sperimentando e se ne sta occupando un ragazzo italiano Alessandro Grattoni. Alessandro ha sviluppato un sistema di nano canali che rilasciano farmaci in maniera intelligente, le leggi che regolano il rilascio sono leggi che esulano dalla fisica normale, alcune di queste leggi possono essere capite meglio se eliminiamo l’effetto gravità.
Uno dei maggiori problemi dell’esplorazione spaziale è rappresentato proprio dal fisico umano…..
Questi problemi sono affrontabili con tecnologie nuove, nano ghiandole impiantate in maniera sottocutanea che rilasciano farmaci che permettono di bilanciare i problemi. Nanoghiandole artificiali.
Chi sono i suoi collaboratori italiani…
Il programma sulle particelle multistadio per il cancro è gestito fondamentalmente da Paolo de Cuzzi, pugliese, i sistemi di chips di proteo mica per l’analisi dei fluidi biologici nella diagnosi precoce è gestita da Ennio Tasciotti, di Latina, poi ci sono altri 15 giovani. Gran parte dei nostri successi in laboratorio avvengono per mano italiana.

 

 
 
 
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